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lunedì 16 dicembre 2019

Il mondo com'è (389)

astolfo


Carlo I Stuart – Si consegnò a nemici repubblicani fuggendo. Una parabola politica però non eccezionale, anche se difficilmente si arriva al grado stolidità che gli costò il carcere, e poi la decapitazione, a opera del feroce Cromwell. “Un principe di grande abilità” lo dice De Quincey in margine al trattatello “La casistica dei pasti romani” – ma per questo tanto più “stupisce osservare con che scarsa lungimiranza egli si sia avviato alla difficile impresa di fuggire dalla sorveglianza dei suoi carcerieri”. Una prima volta fuggì agevolmente: gli scozzesi suoi fedeli erano accampati davanti a Newark, alla sua prigione. La seconda volta sembrò voler andare incontro al destino di morte. De Quincey lo racconta bene:
“Il re era al sicuro. Nella casa di campagna di Lord Southampton godeva della protezione di una famiglia leale, pronta ad affrontare ogni rischio per aiutarlo. Il suo nascondiglio era completamente sconosciuto”.  Ma si faceva assistere “da due gentiluomini, Berkeley e Ashburnham”, puntando “sulle loro qualità di coraggio e prontezza e sulla loro conoscenza dei luoghi e gli eventi”. Dei quali “uno era da sempre sospetto di tradimento”, e “entrambi erano degli imbecilli”. Fu così che il rifugi segreto fu comunicato al comandante militare della regione: “Di colpo la scena cambia. Il comandante militare dell’isola di Wight viene graziosamente informato della sistemazione del re e condotto in sua presenza, con un drappello di soldati”. Anche se il solo e preciso obiettivo del colonnello Hommond era di ricercare e arrestare il re. Lo si pensava degno di fede perché era i nipote del cappellano del re, il dr. Hommond. “Il colonnello Hommond era il nipote del cappellano del re”, riconosce De Quincey: “Sta bene. Ma al tempo stesso era marito della nipote di Cromwell, e su Cromwell puntava le sue aspettative di carriera.
E non è finita. Dalla nuova prigione, continua De Quincey, “era possibile tentare ancora la fuga, e di nuovo si organizzò una fuga”. Se non che “rivedere le circostanze di questa fuga è come leggere una pagina strappata alle cronache di un manicomio”. In breve: “Carlo doveva uscire da una finestra. Questa finestra era chiusa da sbarre di ferro. Queste sbarre erano state un po’ corrose con dell’acquaforte. Il re riuscì a farci passare la testa e confidava in questo risultato per la fuga, poiché collegava il tentativo a questa strana massima o postulato: ovunque può passare la testa, può passare tutta la persona”. Ma “alla prova finale” naturalmente “si scoprì che questa regola assurda non era da ritenersi corretta. Il re si incastrò con le spalle e il torace e venne liberato con difficoltà”. Dalle guardie di Cromwell. Per non dire, aggiunge De Quincey perfido, che sotto le sbarre “il re ebbe modo di vedere”, con la testa incastrata e “alla debole luce, un gruppo di persone che non annoverava tra i suoi fedeli”.

Galli – Erano i più numerosi, e i preferiti, nelle armate di Cesare, galli della Gallia Transalpina e di quella Cisalpina, anche Cispadana – finché Cesare guerreggiò sul fianco occidentale di Roma, nelle Gallie fino al Reno. I galli no erano barbari. Erano guerrieri, al modo dei romani, e civilizzati, anche se non altrettanto bene organizzati politicamente – giuridicamente - né bravi architetti o costruttori. Organizzati ancora prevalentemente su base tribale. Cesare combatté contro molti nemici, le tribù germaniche, gli spagnoli, gli elvezi, gli illiri, africani di ogni tipo, isolani del Mediterraneo, asiatici nemici di Roma o arruolati da Pompeo. Ma molto vinse con i galli. Anche nella battaglia decisiva di Farsalo: la V legione poi famosa dell’Alaudae, che portava un elmo a forma di allodola, era stata reclutata in Gallia da Cesare con i suoi fondi privati. Erano combattenti svelti, con la famosa Terza legione costituivano un terzo dello schieramento cesariano, e furono decisivi nella vittoria.

Occhio di lince – Non si sa se la lince veda “in profondità”, al di là della superficie, secondo il detto. Che di suo ha tutta l’aria di un “refuso”, del tempo degli amanuensi, quando i testi venivano copiati, in unica copia, a mano. E quindi ogni errore di copiatura faceva testo per i lettori.
La lince vede in profondità a partire da Oddone di Cluny, santo e colto monaco francese, 878-942. Oddone è all’origine della ideologia della carogna – il corpo umano è una carogna, fetida – con i suoi “Disprezzi”, che tanti altri monaci faranno propri, e poi papa Innocenzo III in un suo famoso “De contemptu mundi”. In uno dei “Disprezzi” Oddone così sintetizza il suo pensiero, rinverdendo un monito di san Giovanni Crisostomo: “La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli uomini vedesse­ro quel che c’è sotto la pelle, cosi come si dice possa vedere la lince di Beozia, rabbrividerebbero”.
È questo richiamo che è enigmatico: della Beozia, patria di Pindaro, Esiodo, Plutarco di Cheronea, del Parnaso e di Elicona, e anche un po’ di Delfi, ombelico del mondo, non si sa che ospitasse le linci.
Di linci ai raggi X parla Boezio, “La consolazione della filosofia”, 3, 8: “Se, come dice Aristotele, gli uomini avessero l’occhio di lin­ce, e potessero vedere oltre l’ostacolo, arrivati alle viscere in­terne non apparirebbe bruttissimo perfino il famoso Alcibiade, così bello da fuori?”. Oddone, che ha tratto il suo riferimento da Boezio, potrebbe voler dire “la lince di (cui parla) Boezio” (anche Alcibiade fu sfortunato: Francis Villon lo fa femmina e cortigiana, “cugina germana” di Taide).
Ma il caso può essere più complicato, se di Boezio si prende la trascrizione heidelberghiana, che reca la dizione “Lyncei oculis” e non “lynceis oculis”, dando più corpo alla visione terrificante. Poiché chi va in profondità è in questo caso Linceo, l’argonauta figlio di Alfareo re di Libia (putativo per Poseidone), imbattibile se in compagnia del gigantesco gemello Idas - coppia antagonista dei loro più famosi cugini Casto­re e Polluce. “La sua vista”, di Linceo, secondo Apollodoro, “penetrava nelle profondità della terra”. Acuita forse dalla terribile notte in cui le sue 49 cugine, figlie di Egitto, re di Arabia, un fratello di Alfareo, fecero fuori i suoi 49 fratelli - ponendo fine a una serie di tentativi di questi di uccidere quelle con promesse di matrimonio (lui ebbe salva la vita perché, risparmiandone la verginità, s’era conquistato l’affetto della cinquantesima sorel­la, Ipermestra sua moglie). Si direbbe però che ha visto “dopo” la strage, e non “prima”.

Terza Repubblica - Il film di Polanski “L’ufficiale e la spia”  ricostruisce e richiama di prepotenza un assetto politico-militare, quello francese di Fine Secolo (Ottocento) che è e sarà quello italiano della Repubblica. La Repubblica italiana nasce, nel dopoguerra, sulle spoglie, si può dire, della Terza Repubblica francese, di cui assume le connotazioni: il nazionalismo sterile (sconfitto brutalmente nel 1870, resistente a caro prezzo, per impreparazione, nel 1914, e finito in un 8 settembre rovesciato (anticipato) nella drôle de guerre dei pochi mesi, giusto alcune settimane, svogliate, del 1939-40. Con il confessionalismo al posto della massoneria. Il leguleismo. La politica di consorteria, di gruppi ristretti e anonimi – con ministri e presidenti del consiglio venuti da non si sa dove né come, tipo Conte. L’apparato militare e di polizia al di sopra delle leggi. Il senso solo formale delle istituzioni. Una stampa condiscendente, seppure di parte, in ruoli predefiniti. La giustizia politica, o il complotto giudiziario costante. Questa soprattutto: il controllo surrettizio della vita nazionale attraverso mezzi poliziesco-giudiziari.
La Terza Repubblica si richiamava naturalmente alla rivoluzione del 1789, e non pochi studiosi con essa: la Rivoluzione sarebbe continuata, secondo questa corrente di pensiero, seppure a sbalzi, nel 1830, nel 1848, nel 1870 e poi ancora fino alla Grande Guerra. Gramsci fa suo questo approccio (“Quaderni del carcere”, 13, (XXX) § (17)): “Le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la Terza Repubblica, e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870”.
Gramsci dà anche, nel prosieguo della nota, il meccanismo d’influenza esterno: “Una ideologia, nata in un paese sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera, che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate”).


astolfo@antiit.eu

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