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mercoledì 2 marzo 2022

Addio alla vita, il film di Pirandello

Pirandello muore in una scena surrealista (buñueliana), con accenti pirandelliani sulla vita e sulla morte. Dopo aver ritirato, stanco, si vede dai cinegiornali, il Nobel dal re di Svezia. Il funerale si presenta complicato perché lui lo vuole semplice, e povero: una cassa di legno grezzo, da seppellire in Sicilia, dove è nato - al Caos, la “torre” in campagna di famiglia. Questo si farà solo dieci anni dopo la sua morte, quando si riprende a viaggiare dopo la guerra, con un trasporto lento e avventuroso nei carri bestiame dell’epoca.
È un viaggio nella memoria come si racconta avvenga in punto di morte. Con un misto di accettazione e di rimpianto, poiché, si sa, ogni vita si rivivrebbe meglio.
Nella memoria di Paolo ed Emilio Taviani – a Emilio, morto quando il progetto era sul nascere, Paolo dedica il film. Con evocazione di scene e autori cari ai due fratelli: Rossellini, “Paisà”, Lattuada, “Il bandito”, Vergano, “Il sole sorge ancora” (con Lizzani e Pontecorvo in veste di attori, nelle scene di condanne e esecuzioni di fascisti), Antonioni, “L’avventura”, Zurlini, “Un’estate violenta”, Pasolini, “Uccellacci e uccellini”, anche “Kaos”, il film a episodi dai racconti di Pirandello di Paolo ed Emilio. E con spezzoni di cinegiornali: Pirandello a Stoccolma, la condanna e l’esecuzione dei responsabili italiani delle Fosse Ardeatine, De Gasperi a New York nel 1946 (“sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”), il funerale in Sicilia – gli studenti lo vogliono per loro, col pennacchio della goliardia, il vescovo e i suoi collaboratori, tutti lettori di Pirandello, vogliono le ceneri in una bara, invece che in una urna, e la piccola casa con le ceneri viene scambiata dai bambini per il funerale di un bambino, oppure, gran divertimento, di un nano.
Il film che Pirandello avrebbe fatto, se avesse provato a fare film, come pure gli sarebbe pIaciuto. Che Taviani completa con l’ultimo racconto, probabilmente, di Pirandello, “Il chiodo”, innescato da un fatto di cronaca: un ragazzino italiano uccide una bambina a Brooklyn, senza motivo, “apposta” dice agli inquirenti americani che non sanno tradursi sensatamente la parola: come una fat(t)o che dovesse compiersi.
Una despedida, un canto di addio, senza lamenti, già fra i trionfi. Che però attrae e non respinge, avvolge, quasi amichevole. Per una regia al solito asciutta, di cose come necessarie, il trademark dei Taviani.
Il titolo è di una novella di Pirandello. E deriverebbe da una scena girata ma poi non montata. La novella è sulla morte attesa, e quasi benvoluta – il titolo si rifà a Manrico, del “Trovatore” di Verdi, che la invoca rivolgendosi all’amata: “Ah! che la morte ognora\ è tarda nel venir\ a chi desia, a chi desia morir!.../ Addio, addio, Leonora, addio!”.
Paolo Taviani, Leonora addio

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