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domenica 31 dicembre 2023

Europa esclusa, nuove potenze, politica dei brand, Kissinger aveva ragione

Questo smilzo - per le abitudini kissingeriane, di argomentazioni profuse - volume si riapre come un classico. Di chiaroveggenza. Che è utile riproporre - la sorpresa è quella di precedenti letture. Anche perché le guerre in corso, in Ucraina e in Israele, successive alla riflessione di Kissinger, vi si adagiano. Con l’America di Pelosi e Biden all’attacco, in Asia e in Europa, contro le politiche di bilanciamento (di moderazione) proposte da Mosca dieci anni fa, e ora, da tre anni, da Pechino.

La guerra russa all’Ucraina, guerra europea, la seconda guerreggiata dopo la fine della guerra fredda - la prima fu nella ex Jugoslavia, appositamente smembrata -, è parte del conflitto mondiale per le aree di influenza. Si svolge infatti attorno al tema, una volta finito nel 1990 l’immobilismo imposto dalla guerra fredda, dell’Europa: se deve – vuole, può - continuare a essere prim’attore della scena mondiale, o deve accontentarsi di un ruolo di comprimario commerciale, restando, nell’insieme e singolarmente, gregaria degli Stati Uniti. Gregaria nel senso del ciclismo: portatrice d’acqua, volenterosa collaboratrice, e qualche volta, nelle tappe minori, vincitrice in proprio, non per la classifica, per la soddisfazione.
La guerra di Israele sui “sette fronti” è caso esemplare di ingovernabilità, di rischio per la sicurezza - di un ordine mondiale debole (frastagliato, concorrenziale).
Europa, convitato di pietra
Questo non sembra il caso con Kissinger: l’Europa è, come anche  Israele, la grande assente dai suoi scacchieri. Ma proprio per questo è invece una presenza, in negativo: un convitato di pietra, il convitato di pietra. Ancora si ricorda il suo fatale “anno dell’Europa”, il 1973, che vide l’embargo del petrolio, i prezzi del petrolio e del gas triplicati in una notte, le domeniche a piedi, al buio, inflazione al 10 e al 20 per cento, un mese dopo la sua ascesa al dipartimento di Stato il 3 settembre - in coincidenza con il golpe sanguinoso contro Allende in Cile. È in Europa e con l’Europa che Kissinger assume la fisionomia di Stranamore, non con le bombe atomiche. 
L’“anno dell’Europa” fu utilizzato da Kissinger per agganciare il Medio Oriente, fino alla Persia dello scià, in funzione anti-sovietica, e insieme  manifestare la debolezza (dipendenza) dell’Europa? Nello stesso anno, non si ricorda ma ha progettato pure questo, ipotizzando un gasdotto North Star, dal bacino russo dell’Urengoy agli Stati Uniti attraverso il mare di Barents – contro i gasdotti dell’Eni… (cui tentava di agganciarsi la Germania, è vero). Che bisogna dedurne?Forse Israele c’entra. Forse Kissinger è sempre l’ebreo espatriato dall’Europa, dalla Germania, un’origine alla quale non ha mai sentito il bisogno di tornare – benché lo abbia marchiato a vita, nella parlata, nel modo di vita. Non espatriato, in fuga, nel 1938, con la famiglia, a quindici anni. La storia è fatta anche di eventi personali. Ma Kissinger, certo, ne sa di più.
Multipolare in Orwell
Si parla di mondo multipolare in “1984”, il romanzo fantapolitico di Orwell, 1949: nel 1984 il mondo è già diviso in tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – Oceania è la Nato. Il multilateralismo che Kissinger qui (ri)spiega è la sua dottrina fin dal 1974, scritta in una brochure che circolò poco, discussa con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna. Ai colleghi europei Kissinger prospettò sei fronti: la guerra civile in Jugoslavia dopo Tito, in Spagna dopo Franco, in Finlandia dopo Kekkonen, in Italia e Portogallo con i comunisti al governo, e il blocco di Berlino. L'Europa, dunque, votava alla guerra civile.  
Non bisogna sottovalutare Kissinger. Ai tempi in cui era attivo aveva l’abitudine di scrivere dieci anni prima quello che avrebbe fatto poi. In pensione, ha sempre saputo quello che stava per succedere, e come si poteva gestire, con la Cina, e su altri scacchieri. Qui si parte dalla pace di Vestfalia, il riferimento non si può evitare, Kissinger è pur sempre un vecchio trattatista, studioso dei trattati internazionali. Studioso della balance of power, nostalgico del Congresso di Vienna, il suo studio di dottorato, di cui non manca mai di fare menzione. Ma prima di Vienna, e non famigerato, viene l’equilibrio di potenza “vestfaliano”, il primo e più durevole tra gli Stati nazionali novellamente costituiti in Europa, col riconoscimento e la definizione del concetto di sovranità – senza contare che fu il capolavoro del cardinale Mazzarino, lo statista per eccellenza, come Kissinger lo concepisce.
Nel mondo nuovo post-ideologico e globalizzato ci vorrebbe una Vestfalia della globalità, un ordine mondiale. Kissinger lo intravede, e sa anche come gli Usa possono gestirlo – il punto di vista è naturalmente americano. Nell’interesse proprio e di ogni altro, è ovvio, altrimenti nessuna “pace” tiene - questo è molto importante, è il presupposto della diplomazia, della arte cioè della pace, che la presidenza Biden, in contrasto netto con gli otto anni della presidenza Obama-Biden, non intende praticare: la pace tiene se tutti vi hanno un interesse. Kissinger giunge al punto di prospettare una sorta di quinta colonna, in uno Stato per qualche verso ostile, che ne faccia gli interessi, per evitare uno scontro.
La cattiva opinione 
La novità è il posto che Kissinger assegna all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla sconfitta in Vietnam, da molti imputata al “fronte interno”, alla tensione antibellica che fotografi e televisioni montarono implacabili, in America, contro la guerra americana in Vietnam. Qui l’allarme è preventivo. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono qualitativamente diverse, e non per il meglio. Sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio. 
Per fattuale il realista politico intende superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”. Lo spettatore inerme di questi giorni, accasciato sotto un profluvio di immagini di cui non gli viene data il nesso, non può che dargli ragione: l’opinione è più che mai manipolabile, anzi, la sua manipolazione sembra essere l’arma migliore – più distruttiva, meno cara.  
Condominio con le potenze asiatiche
Con questo limite, se esso non dilagherà sugli sviluppi internazionali, un ordine mondiale tuttavia si prospetta. Con al centro sempre gli Stati Uniti - nella “pax americana” cioè, che Kissinger mai pronuncia, insieme lenta e vincolante. Come un condominio multilaterale, allargato alle potenze asiatiche, Cina, India, Giappone, e a una voce latino-americana. Se la balance of power, Vienna-Vestfalia, è il pilastro dottrinale del Kissinger studioso, il multilateralismo è l’opera sua di statista da cinquant’anni, da quando nel 1969 fu associato alla Nsa, la National Security Agency, e poi al dipartimento di Stato. Teorizzato nel 1974, subito dopo la crisi del petrolio, è rilanciato ora su scala mondiale. Senza l’Europa.
Un multilateralismo, con assenza inclusa dell’Europa, che è lo stesso che si prospetta a Pechino, va aggiunto, all’altro estremo del manifesto globale – è un merito di Kissinger, un demerito? Anche a Pechino l’ordine americano è assunto nei fatti, non contestato. In un quadro multilaterale: Usa, Cina, India, America Latina (Brasile-Messico). Con un dubbio: se ci sarà una “potenza Europa”.
Una lettura che è una ventata di rinfrescante conservatorismo: Kissinger sarà stato l’ultimo maestro dell’arte diplomatica, ossia della politica intesa a tenere i popoli fuori della guerra. Lo studio e l’applicazione diplomatica sono in bassa stima, in questa epoca di wilsonismo a perdere, di moralismo e superficialità. Mentre le insidie sono dietro l’angolo.
La politica dei brand
Già nel 2015 Kissinger parla di campagne presidenziali trasformate in “confronti mediatici tra operatori internet”. Ancora senza QAnon e le spie russe, ma con i candidati ridotti a brand, a “portavoce di operazioni di marketing”. Anzi no, c’è pure il Russiagate: il Kissinger cyberanalfabeta sa già che “un portatile può avere conseguenze globali”. Anche senza complotto: “Un attore solitario con sufficiente capacità di calcolo può accedere al cyberdominio per disabilitare e potenzialmente distruggere infrastrutture chiave, da una posizione di quasi completo anonimato”.
Kissinger va anche un passo più in là, a un accordo sull’uso del cyberspazio analogo a quelli suoi sui missili e la potenza nucleare. “Una qualche definizione di limiti”, chiede, in “un accordo su regole di reciproco autocontrollo”. Il realpolitiker si fa a questo proposito profetico: il cyberspazio è “strategicamente decisivo”. Di più: la “prossima guerra” si combatterà in rete – che è la guerra di oggi, quale la vediamo.
Ha pure il populismo invasivo dei primi arrivati, “individui di oscura estrazione” liberi di manipolare la politica, al punto che “la stessa definizione di autorità statale può diventare sfuggente”. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio.
Fattuale per il realista politico è superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”.
Henry Kissinger, Ordine mondiale, Oscar, pp. 411 € 16

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