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venerdì 11 novembre 2011

Letture - 76

letterautore

Grecia – Non è diversa o speciale solo quella di Colli, detta presocratica. Nietzsche l’ha spiegato, che, se davvero s’intende la Grecia, si sa che da tempo è finita, e per sempre. Morto è senz’altro Socrate col socratismo, come il giovane Nietzsche sapeva: l’intelligenza è decadente, la democrazia la sospetta. Ma non muore la bufala dei dori, che nel 1800 a.C. crearono la civiltà greca, cioè la civiltà occidentale, cioè la civiltà, per essere “ariani”, e quindi parenti dei germani. Come questi infatti amavano i cori. Più persuasiva sarebbe l’ascendenza libica, dai lestrigoni di cui tanto invece si sa, alti e bianchi, degli occhi azzurri, devoti di Atena, l’ulivo e Poseidone. Meglio ancora dai pelasgi, che Tucidide vuole tirreni, quindi mediterranei - la Magna Grecia fu anche un ritorno a casa. Tirreni erano pure quelli della Colchide, gli Argonauti. Che per questo scoprirono l’America prima di Colombo e i vichinghi: originavano anch’essi dalla Scandinavia. Ne saranno discesi per via di fiume, chissà, che è più breve che per via di mare.
I tedeschi erano nell’Ottocento a volte greci, altre indiani. Finché non si dissero che potevano far volare i dori, gli antichi greci, dall’“aria”. Anche perché la differenza è minima tra i pelasgi e le trasvolatrici cigogne, i pelargoi - già Aristotele, dice il Rocci, le confonde (o non il trascrittore? - n.d.C.). Che il balcone tedesco adornano, da Bolzano a Danzica, in forma di pelargonium, il geranio di Linneo che, senza il fiore, ha forma di becco di cicogna – in ricordo dell’antica trasvolata?
I dori, se si crede a Tucidide, erano democratici e sensibili, è il filo segreto del suo libro. I tedeschi se li sono annessi in quanto eliminavano i nati deformi per migliorare la razza, ma la loro trentennale guerra del Peloponneso fu una guerra di liberazione, contro l’imperialismo di Atene. Solo Sparta, dopo Troia, evitò i tiranni, dandosi una saggia forma di governo, popolare e oligarchico, e dopo quattrocento anni, con le buone e le cattive, riuscì pure a scacciare la tirannia dalle altre città. Senza imperialismo: Sparta non imponeva tributi, a differenza di Atene, che dagli alleati esigeva oro, navi, uomini: “Gli spartani volevano dare la libertà a tutte le città greche”, assicura Tucidide impavido. Un’altra categoria di germanesimo bisognerebbe scoprire, la credulità. Sparta era mafiosa, questo sì: i suoi riti di passaggio erano il furto con frode e l’assassinio a tradimento, di persona inerme. Ed era potente, Tucidide ne è la prova.

Kipling – Wittgenstein, ricorda Pinsent (“Vacanze con Wittgenstein”, p. 39), aveva orrore del cinismo verso la crudeltà e le sofferenze, cosa di cui accusava Kipling. Che ne aveva orrore.
Eugenio D’Ors, “Del barocco” (p.38), vuole Kipling “un pronipote di Rousseau”. Questo è più vero.

La madre di Kipling è Alice MacDonald. Una Alice MacDonald è una delle due Alice di Lewis Carroll – la prima è Alice Liddell. Figlia di un George, come la madre di Kipling – entrambi i padri erano scozzesi e pastori protestanti. Una di quattro sorelle, come la madre di Kipling. Dell’età, più o meno, della madre di Kipling.
La Alice di Carroll non è la madre di Kipling. Ma le coincidenze aiutano a pensare l’epoca vittoriana come vivace più che uniforme – umbertina. La madre di Kipling è del resto una di quattro sorelle molto note nella seconda metà dell’Ottocento, per la bellezza e l’intelligenza, che fecero matrimoni importanti. Alice a John Lockwood Kipling, artista di belle speranze, Georgiana a Edward Burne-Jones, Agnes a Edward Poynter, pittore di ottimi nudi accademici, figlio dell’architetto Ambrose, baronetto, e poi presidente della Royal Academy, Luisa, scrittrice, all’industriale Alfred Baldwin, da cui ebbe il figlio Stanley che sarà primo ministro conservatore, nel 1923, dal 1924 al 1929, e poi ancora dal 1933 al 1937, e conte (il manifesto elettorale del 1923 lo ritrae come una sorta di Spencer Tracy, comandante di “Capitani coraggiosi”).

Joyce - Molly Bloom si traduce secondo Lucentini (nella famosa accigliata lezione “La traduzione”, ora in Fruttero & Lucentini, “I ferri del mestiere”) con Marietta, Mariù, Mariolina, essendo un diminutivo di Maria. Nell’originale in effetti Molly sta per Marion. Ma leggendo Mariolina Fiore invece di Molly Bloom il monologo che conclude l’“Ulisse” prende un altro sapore – effetto della traduzione, traditrice?

Retrattile – È l’epoca, la narrazione italiana – la poesia meno, è più sfrontata. Quella di successo o è di programma campanilistica, dialettale, sciovinista (roba da vecchi storici locali). Oppure è di un freddo internazionalismo, standard.

Sherlock Holmes – Il metodo deduttivo è la tela – sulla quale ogni combinazione (disegno) è possibile. E questo è Sherlock Holmes, la decorazione: il suo fascino non sta nelle cose che scopre, ma come ci arriva. Non è l’uomo della verità ma della costruzione della verità.

In Sherlock Holmes Mark Twain ci vedeva “tutte le bellezze”.

In un singolare sistema di echi, nella biografia di Freud Peter Gay (p.230) dice che nel caso “Dora” c’è tutto il metodo Conan Doyle. Che fa ascendere a “Tristram Shandy”, VI, 5: “Vi sono mille spiragli attraverso cui l’occhio penetrante può scoprire di primo acchito l’animo di un uomo”. Freud lo teorizza in “Dora”, scritto nel 1901, pubblicato nel 1905: “Chi ha occhi per vedere e orecchi per sentire si convincerà che nessun mortale è capace di mantenere un segreto. Se tace con le lettere, chiacchiera con la punta delle dita: si tradisce attraverso tutti i pori”.
Ma non si dovrebbe dire che tutto Freud, o almeno il caso “Dora”, è in Sherlock Holmes? Conan Doyle dunque, negli anni 1890, sancisce la “scuola del sospetto” di Marx, Nietzsche, Freud. Ne è applicazione “normale”.

E non è tutto. Sherlock Holmes anticipa i metodo sociologico di Simmel, e quello filosofico (letterario?) di Benjamin: 1) vedere il simile nel dissimile, analogie, corrispondenze, connessioni tra ciò che appare a prima vista dissimile e distante – l’effetto di reciprocità; 2) l’intensificazione della vita nervosa indotta dalla città: S. Holmes, sniffate a parte, non potrebbe funzionare in campagna o in provincia; 3) l’aspetto spettrale dell’accadere, e la razionalità di scopo weberiana, non logica ma sostanziale.
Conan Doyle è il positivista che finisce per credere alla fate. Che non è onorevole ma ha una logica. Del resto, notava Mark Twain, “Sherlock Holmes deve avere la facoltà di spirito puro, poiché è già morto quattro volte, tre volte naturalmente e una accidentalmente”.
Sciascia, che insiste sul positivismo di Conan Doyle finito in spiritismo, fa anche il caso (in “Alfabeto pirandelliano”) di Capuana, che pure era scrittore verista. Ma non è la stessa cosa.

Borges dice Doyle, in un punto di “Testi prigionieri, p. 60, “minuzioso e garrulo”. E si limita ad apprezzare un paio di racconti “per ragioni sentimentali”, anzi praticamente solo “La lega delle teste rosse”. Ma Borges ne parla spesso, ovunque: nella “Biblioteca personale”, a proposito della “matière de Bretagne”, nelle “Altre conversazioni”, nelle “Ultime conversazioni”, in vari punti di “Testi prigionieri”.

Il dottor Watson è il dottor Doyle, si sa – che Sherlock Holmes accusa in “The Abbey grange” di “un deplorevole senso storico invece che scientifico”. Per la bonomia, l’ironia, l’understatement (self-effacement). Ma Doyle finisce per identificarsi in Watson. Senza più ironia. Stolidamente.

letterautore@antiit.eu

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