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martedì 8 novembre 2011

Pensare a piedi, la nobiltà meridiana

Il “pensiero meridiano” è mediterraneo, è il mare che i venti e le correnti solcano, frontiera aperta. In simbiosi con la terre nelle sue molteplici forme. Nel solco ben inciso da chiunque, da Hegel a Schmitt e Savinio, si sia occupato della Grecia, civiltà originariamente dell’Egeo, che è anche terragna. Ed è il tempo riacquistato, un elogio anzi della lentezza. “Andare lenti” è il principio del pensiero meridiano, “Pensare a piedi” il suo primo paragrafo. Che solo può ridare il senso della misura: “Bisogna pensare la Misura, che non è pensabile senza l’andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti”.
L’ironia è facile, e tuttavia il pensiero meridiano è, dopo quindici anni, un caposaldo. Parente del “grande meriggio” di Nietzsche ma quanto più disteso, organizzato e insieme lieve. Non la solita fuga da se stessi ma l’apertura della nozione di confine (“frontiera, confine, limite, bordo, margine sono anche l’insieme dei punti che si hanno in comune”) all’incrocio fra le culture. Il paradigma è da Cassano generosamente riferito a Camus – la cui sola riproposizione, per esteso, accurata, farebbe già il merito del libro, tanto è solitaria e, all’epoca, anche coraggiosa. Un richiamo che dice quanto “eterodosso” sia stato, e sia, il pensiero meridiano – che Camus peraltro viveva, non lo pensava o teorizzava, non circostanziato quale è in Cassano.
Il pensiero meridiano non è revanscista, né potrebbe esserlo, è al contrario l’apertura alle differenze: “All’inizio non c’è mai l’uno, ma il due o i più. Non si può ricomporre il due in uno: nessun universalismo potrà mai riuscirci”. Ma è un discorso meridionalista, l’affermazione di una differenza: “Chi deve per primo fare un passo indietro, chi deve smettere di strozzare l’altro, chi deve accettare che esistano altri modi di vita è in primo luogo quel mondo che ha sostituito il monoteismo della tecnica alla molteplicità delle vie e agli infiniti nomi di dio”.
L’integrazione fra le culture è però un processo ingarbugliato. A cui solo l’innesto può servire con ogni evidenza quale processo validante. La semplificazione di fondo del pensiero meridiano nella prima redazione nel 1996 attirò a Cassano molte critiche, cui egli ha rimediato con la prefazione nel 2005 a questa edizione. Qui argomenta in favore dell’ex Terzo mondo che, in Africa e in America latina (Messico, Argentina, lo stesso Brasile di Lula), indebolisce invece il paradigma – che il valente esotista Kapuscinski sia portato a testimone e documento non risolve. Come l’Oriente, che solo l’abiezione unisce, politica, sociale, di casta, a volte tutt’e tre insieme. Per l’Italia Cassano mette le mani avanti deprecando “quel giocare melmoso con i propri vizi che ha condotto qualcuno a chiamare giustamente il sud un «inferno»”. Mentre questo è un gioco che può far parte del Nord – nel caso specifico lo fa il Bocca leghista, che avendo conosciuto il Sud migliore e avendolo apprezzato in tempi non sospetti, con questo sotterfugio logico vent’anni fa si emendava. Il Sud, i Sud, sono impensabili fuori dal contesto politico – in questo i subaltern studies sono bravissimi: il problema non è, non è più, poter essere diversi, è di non essere sempre presi a calci in faccia, magari solo per l’accento, i capelli, la sfumatura della pelle.
Chiude il libro, dopo il capitolo coraggioso su Camus, uno su Pasolini, poco congruente. Un concentrato, tra l’altro, di radicali negatività, come se il filosofo avesse visto in questo excursus troppi escrementi, sia pure dannunziani, post.
Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, pp. XXXVI + 142 € 9

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