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venerdì 9 dicembre 2011

Il lavoro nero effetto della legalità

I due terzi buoni dell’evasione fiscale sono dovuti, scontata la retorica, al lavoro nero. Il restante terzo è dovuto all’inimmaginabile complicazione e confusione dei regolamenti fiscali. Che una sola ratio ammettono: essere fatti per facilitare il contenzioso - anche se gli innumeri e incomprensibili decreti fiscali non sono “grida” manzoniane, Equitalia arcigna è dietro l’angolo.
Il lavoro nero è in parte a vocazione criminale, la perpetuazione dei benefici del mercato nero postbellico in produzioni paralegali o illegali: la copia, il furto, il prodotto adulterato, il prodotto scaduto. Ma in buona misura è obbligato. Può accadere al Sud di dover operare al nero, anche contro il rischio di infortuni o incidenti sul lavoro: la collaboratrice domestica, il custode, il bracciante o si pagano in nero o se ne deve fare a meno. Vogliono essere pagati in nero piuttosto che con i contributi e quindi con l’assicurazione Inail. Potendo contare sulle indennità di disoccupazione o sulle forme restanti di pensioni d’invalidità. Ma più perché altrimenti non lavorerebbero.
Le regole di mercato uniche in tutto il paese rendono il lavoro troppo costoso nelle aree a reddito modesto. Molte attività, se si remunerassero secondo le regole, non verrebbero messe in atto. Il fisco nazionale (da nazione ricca, con le aliquote più alte del mondo), il mercato nazionale del lavoro, legale e contrattualistico, e il mercato nazionale delle retribuzioni, mettono fuori mercato il lavoro in un’economia che, pur facendo parte di un sistema nazionale, ha uno standard di vita diverso, a livelli di reddito più bassi, e notevolmente meno caro. Bisognerebbe adottare gli standard di vita - le comparazioni internazionali fra i diversi livelli di reddito - anche all’interno delle economie nazionali, e adattarvi il lavoro e il fisco. La stabilità, cioè, la retribuzione e gli oneri sociali per il lavoro, e i parametri fiscali. In assenza di questa flessibilità, a entrambi i capi del filo, tra utente e lavoratore autonomo, si crea un mercato del lavoro a livello più basso, cioè nero. Con un nugolo di transazioni quotidiane incontrollabili, non passando per la banca. Un mercato parallelo che coinvolge anche tutto il lavoro autonomo, di idraulici, elettricisti, pittori eccetera. A tariffe più basse, senza l’Iva, e senza gli oneri di fatturazioni, partite Iva, commercialisti.
Ci sono tante forme di lavoro. La legge lo dice unico, ma il mercato si regola diversamente: alcuni mercati dl lavoro possono esistere solo fuori della legge. Il fenomeno è macroscopico a Napoli, dove nessuno dei lavoratori autonomi vuole “essere messo a regola” – e dove il “lavoro che manca” è il posto pubblico, e i “disoccupati organizzati” sono delle cosche politiche. Un fenomeno che è ora alla seconda potenza: immigrati che lavorano in nero, commercianti o manovali, pagano in nero artigiani napoletani e personale domestico locale (soprattutto per la custodia e la prima alfabetizzazione dei bambini).
A Napoli è peraltro incomparabile l’organizzazione del mercato parallelo, di beni copiati o rubati, un modello che meriterebbe utili adattamenti nel mercato legale. Altrettanto dettagliato, se non di più, del mercato legale. Con filosofie manageriali estremamente flessibili: integrazione verticale, orizzontale, a stella, per contiguità, monopolismo. E una rete d’incroci, marciapiedi, ponti, spiagge, uffici, stazioni, sottopassaggi, per un esercito di ambulanti clandestini, senza identità o senza licenza, che sono tanto più difficili da occultare in quanto il magazzino si portano dietro in sacchi e borsoni. I margini sono più ristretti che nel mercato legale, e tutto vi è più arduo e gravoso. Ma un mercato senza deposito e senza rese è l’ideale di ogni commercio.

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