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giovedì 31 gennaio 2013

Nietzsche positivista

La religione nasce dal “pensiero impuro”. Per “errori di giudizio”. In popolazioni “a stadi inferiori di civilizzazione” e “nelle classi popolari meno istruite delle nazioni civilizzate”. È falso ma è ben detto. È infatti Nietzsche, anche se sembra Dühring - o Odifreddi.
Il rito è il nucleo della religione, su cui il culto si sviluppa, con l’epos, il mito, la teologia – tutto così impoverito? La religione s’insinua nei poveri di spirito per una serie di errori, cinque: superficialità (faciloneria, credulità), il post hoc ergo propter hoc, cioè la causalità degli sciocchi, l’impressionabilità (memoria selettiva), l’analogia volgare, l’oziosità. Che concludono a una facile “trasfigurazione della natura” in incantesimi e magie - l’animismo. La cui formazione Nietzsche individua e segue passo passo: la tomba (il culto dei morti), il pegno (la materia dell’altro), la purificazione (il rito originario), l’imitazione. Ma non è tutto qui, e non è senza interesse.
C’è molto anche di solido in questo scritto, seppure compilativo, per l’insegnamento. Nietzsche è abbastanza positivista da vedere che non c’è Grecia senza culti: il genio greco si manifesta nella religione, attraverso l’epos esorcizzando la magia e la superstizione. E il carattere tribale – contadino e urbano - della religione dei greci. Che si perpetua per conquista, emigrazione, convenienza politica. Di una religione che oggi diremmo di Stato: “Non v’era alcun obbligo di fede, nessun obbligo di frequentazione dei templi, nessuna ortodossia, si tollerava ogni sorta di opinione sugli dei; solo al culto non bisognava mettere mano”. Non solo: “Lo Stato aveva nelle mani la riserva di diritto sacro”, delle consacrazioni, di templi e sacerdoti, delle dismissioni, delle delocalizzazioni. Con “diversi gradi di santità” a seconda dei luoghi: templi, santuari, tombe.
Nietzsche conclude dunque l’insegnamento di filologia classica a Basilea (oggi diremmo di latino e greco), all’università e al ginnasio, dieci anni, da ultimo con pochi allievi, con una pausa positivista. Da filologo tramutandosi in etnologo e antropologo. Non senza residue civetterie filologiche: qui il non  trascurabile annus <> annulus, il tempo circolare. Ma con una scrittura già perfetta: sobria, netta, marciante. Forse più seducente dell’aforistica per cui sarà famoso, che è apodittica quanto imprecisa, implica più che dire, e può suscitare riserve come adesioni.
O questo positivismo non è il suo vero inizio? Si trascura la lettura di Comte nel secondo Ottocento, che Nietzsche mostra di aver “conosciuto” meglio di Kant. In Burckhardt l’ascendenza è manifesta e Nietzsche faceva a Basilea tutto quello che faceva Burckhardt, anche se lo storico non lo volle tra i suoi uditori (Manfred Posani Löwenstein lega infine correttamente nella postfazione il Nietzsche di Basilea a Burckhardt).
Nietzsche positivista è contemporaneo del primo Nietzsche aforista, “Umano, tropo umano”. Non molto dopo la dionisiaco-wagneriana “Nascita della tragedia”. Comune ai due inizi - e sempre al fondo - è l’invidia germanica per la Grecia (e ancora per la latinità: senza l’astio, che poi sarà della Germania novecentesca). Qui per gli “Elleni celebratori di feste”, con tutti i loro “errori”. Con un notevole esito, per un lavoro di repertorio e “giovanile” (e anch’esso di natura positivista): l’anticipazione della “crisi della storia greca” (Momigliano) autoctona. Le tracce sono “evidenti” al giovane professore delle radici semitiche trace e frigie della cultura greca – forse vissuto ancora qualche decennio, avrebbe Nietzsche scoperto anche l’Africa?
Friedrich Nietzsche, Il servizio divino dei greci, Adelphi, pp. 287 € 18

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