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venerdì 3 maggio 2013

La moralità è alla portata dei cani

“Vedere bella una cosa è vederla immutabile ed eterna, invece di vedere la cosa esistente, sempre cangiante e fluttuante – vedere l’essenza secondo l’esistenza”. E il bene? “Il bene è rifiuto della stessa essenza e affermazione che l’essenza è determinata da qualcosa di superiore: la libertà”. Roba divina: “Dio è l’unità della libertà, dell’essenza e dell’esistenza”. Ma anche umana: in Dio “bello e bene sono una sola e identica cosa. Nel nostro universo sono opposti fra loro come l’oggetto e il soggetto. Ma l’azione è affermazione di Dio”. Tutto questo a  sedici anni, al liceo, seppure nella classe di filosofia di Alain, condiscepolo René Daumal.
Paul Dirac, il fisico, aveva già coniato la “bellezza matematica”: un teorema bello è vero – “una teoria includente una bellezza matematica ha più probabilità di essere giusta e corretta di una sgradevole che venga confermata dai dati sperimentali”. Simone Weil parte dal semplice: qual è la differenza tra un mucchio di pietre e un tempio, seppure in rovina? L’idea del tempio, l’architettura. Lo stesso per la musica, che come l’architettura è “inafferrabile” (inspiegabile). La bellezza è cultura.
“Il bene”, invece, “è più difficile da cogliere, come se non smettesse di sfuggire”. Il nodo è la “moralità”. Da considerasi forse come “conformità con una regola”, più che con un fine preesistente. Ma allora insoddisfacente: “Questa morale è alla portata dei cani”. Un saggio di Roberto Revello sottolinea, nell’esperienza futura di Simone Weil, la “liberazione” attraverso il lavoro - fatica fisica e applicazione. Un esito pratico alla moralità. Ma c’è già in questi primi scritti: il vero bene è il lavoro, atto di volontà. O: “Il bene non è una condizione di non-peccato, ma una perpetua azione”.
Simone Weil, Il bello e il bene, Mimesis, pp. 52  € 4,90

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