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martedì 28 maggio 2013

Una quindicina di poetiche, dopodiché?

Eco sa di che si tratta: Joyce usa “dei dati culturali solo e anzitutto per fare della musica di idee: egli accosta delle nozioni, fa balenare delle connessioni, gioca sui richiami, ma non fa della filosofia”. Ma dopo averci oberati per un centinaio di pagine col tomismo di Joyce, anzi col non tomismo. Dopodiché insiste, ora sullo “schema trinitario”, con l’uomo o donna dello schermo - non della partouze? La modernità di Joyce nel Medio Evo? Certo che no. Cioè sì - tutti a nostro modo siamo nel Medio Evo. Ma non solo nel Medio Evo…
Un giorno si farà Dublino a Trieste, e Joyce con i baffi di Svevo, e quella sarà la vera novità, la lettura giusta di Joyce - e Joyce a Zurigo naturalmente, negli anni di Jung e di Freud. Uno che viveva molto il suo tempo. L’epifania di D’Annunzio, il flusso di coscienza di Dujardin, la coscienza di Svevo, pur senza penchant per la psicoanalisi. Per il resto, sì, era aristotelico, anzi scolastico, e casuista, avendo fatto le scuole dai gesuiti. Ma più che altro se ne serve per divertimento, un mondo pieno di senso nel mondo senza senso della sue scorribande. Tutte linguistiche, esageratamente – Joyce è il felice paroliere della corrispondenza con Pound. Che cosa voleva Joyce narratore? Eco stesso lo dice, anche questo: “Che il lettore comprenda sempre attraverso la suggestione e non per mezzo di affermazioni dirette”. E la musicalità, “che risulta così bene quando si ode il testo inciso direttamente da Joyce”.
In questa che è la parte viva di “Opera aperta”, estrapolata dopo la prima edizione, e resta la monografia più “profonda”, certamente la più impegnata, su Joyce in italiano, Eco si affanna a spiegare che Stephen, il primo “eroe” di Joyce, è scolastico ma in realtà non lo è. Che le cinque poetiche fino ad allora, 1962, individuate dell’“Ulisse” sono rovesciabili, e le sei o sette di “Finnegans Wake”.  Che “Finnegans” è vichiano, ma in realtà non lo è – e anche molto bruniano, da Giordano Bruno, come tutto Joyce. E alla fine non si è imparato nulla. E non si è indotti a leggere Joyce. Peggio se si scende nei particolari.
Eco ci dice che nel cap. “Eolo” “vengono impiegate tutte le categorie retoriche in uso”, e le elenca in sei o sette righe, “tanto per citarne la metà”. Vuole l’“Ulisse”, epifania del caos, ordinato secondo canoni, “schematismi”, anche se molteplici – “Matteo da Vendöme o Everardo il Tedesco si sarebbero compiaciuti di fronte alla regola ferrea che regge il discorso del’Ulysses”. E ha pagine lunghe su temi brevi. Il flusso di coscienza, per esempio, come percorso euristico e non tecnica narrativa? Anche il “nichilismo in un ordine irragionevole” denunciato da Blackmur, dopo Jung e Curtius, a prima vista così evidente, suscita perplessità. Per uno come Joyce che sempre scrive, cioè ordina, e non fa altro e non pensa ad altro, proponendosi nientemeno che di penetrare babele, rifacendola.  “Finnegans” non ha poi bisogno di spiegazioni (poetiche): “È un mahjong”, diceva Joyce.
Ogni libro di Eco si rilegge come un libro di Eco, e non come l’anamnesi o la paràfrasi di qualcosa. E dunque anche il suo Joyce si può rileggere come un gioco. Quasi la caricatura, però, del libro colto. C’è anche il vezzo fastidioso degli “a parte”, traslato dal teatro nella pagina tagliandola in due, quella di sopra a corpo doppio, in spazio variabile sulla base di quanto si vuole dire sotto, in nota, cioè accessorio, e quindi a corpo minuto, ma invariabilmente la parte più godibile (leggibile, interessante). Per esempio sullo “schema trinitario” sappiamo per caso, in nota, in due parole, del dato “biografico e psicologico” del “complesso di tradimento presente sempre nella vita privata di Joyce, del suo gusto quasi masochistico dell’adulterio subíto”, mentre Joyce “scambista” sarebbe tanto più succulento – mentalmente si capisce, come la celebre Catherine M.
Umberto Eco, Poetiche di Joyce

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