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mercoledì 24 aprile 2019

La giustizia politica è buona e fa bene - Cronache dell’altro mondo (34)

“Robert Mueller ha intralciato la sua propria indagine tanto quanto Trump”, “The Nation”. Se non è zuppa è pan bagnato. Un giudice che non condanna è un complice, logica ferrea. In questo caso un corrotto e un corruttore: chissà dove questo giudice ha preso i soldi o le convenienze di cui fare mercimonio, e che gliene viene, ma questo non importa, l’americano ci crede.
S’interrogano il partito Democratico, specie le donne neo-elette alla Camera dei Rappresentanti, in pose da modelle, e i media nella quasi totalità, sulla convenienza di mandare Trump a giudizio per “ostruzione alla giustizia” (in Italia “intralcio alla giustizia”, art. 377 c.p.: “Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria”, testimoni, consulenti, esperti…) sulla base del rapporto del Procuratore speciale per il Russiagate, Mueller. Non sulla possibilità, sulla convenienza. Si interrogano non sull’evidenza che il rapporto Mueller possa dare di intralcio alla gustizia. No: s’interrogano se la messa in stato d’accusa di Trump abbia l’effetto di indebolirlo politicamente oppure, al contrario, di mobilitare i suoi elettori, se ne ha. Non se ne discute in sede politica, si sa come la politica funziona, tra i ricatti, ma di pubblica opinione, come un argomento etico, di giustizia morale.
Perfino peggiore è la soluzione: la cosa migliore, si dice, si dice liberamente, sarebbe di mettere Trump sotto accusa in prossimità del voto voto presidenziale di novembre 2010. Che il presidente degli Stati Uniti abbia commesso un delitto, o non l’abbia commesso, è cosa secondaria. La giustizia politica è il peggiore dei misfatti di regime, si definisca questo pure democratico. Ma in America si reputa normale e anche doverosa – è il “cioccolatte” Perugina del cav. grand’uff. duce Mussolini, che era buono e faceva bene.
Chiede il “New Yorker”, rivista culturale di gran nome, se gli influencer, “da Shakespeare a Instagram”, non ci abbiano “per secoli costretti ad ammettere una scomoda verità. Non siamo interamente auto-determinati né autocentrati”. Bella scoperta – qualcuno al “New Yorker” pensava di esserlo?
E Instagram come Shakespeare?

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