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mercoledì 26 febbraio 2020

La scoperta del capitale cristiano

C’è, o c’era, all’ingresso del Benediktbeuern in Baviera, il monastero benedettino (poi passato ai salesiani) da cui il villaggio ha preso il nome, che all’origine si chiamava Buria, da cui il nome di “Carmina Burana” per le canzonacce goliardiche riemerse manoscritte nel 1803 e poi musicate da Carl Orff, un pannello plasticato con l’irradiazione del monastero stesso in varie epoche: a cavaliere del Mille arrivava fino in Lombardia, come se non ci fossero le Alpi di mezzo. Un principato, gestito da un monastero. Non era il solo – Padula ne è stato un caso fino a non molti decenni fa.
Il capitalismo è vecchio di mille anni. E ben cattolico – allora cristiano – e italiano prima che ebraico e, dopo la Riforma,  protestante. Nella finanza: gente di denaro lombardi, fiorentini, genovesi monopolizzavano le fiere in Europa. E nell’organizzazione della produzione - già Calimala nel Trecento importava panni grezzi per riesportarli impreziositi.
La storia non se ne scrive per un’accezione distorta del laicismo. Che è antisemita, a volte, e allora usa il capitalismo come un’imputazione. Oppure è filoprotestante, nell’alveo della germanofilia – Max Weber, che avrebbe teorizzato l’esclusiva, in realtà non ci ha mai pensato: lui ha solo rintracciato le forme del capitale nelle forme del protestantesimo (e più nel pietismo, il luteranesimo più affine al cattolicesimo).
Giacomo Todeschini, “I mercanti e il tempio”, ci ha provato all’inizio del millennio: la maggior parte delle nozioni industriali e finanziarie che associamo al capitalismo hanno origine nella costruzione intellettuale cristiana. Di e attorno alla chiesa, tra il Mille e il Trecento: la proprietà, lo scambio, il consumo, anche suntuario (lusso), il dono, l’accumulazione, il danno e l’indennizzo (l’assicurazione), l’investimento, l’industria, e l’interesse individuale in aggiunta al bene comune. La ricostruzione è avallata ora da Thomas Piketty, “Le capital chrétien”, il titolo del saggio che premette alla traduzione francese, riveduta, de “I mercanti e il  tempio”. Dove sancisce “la modernità della concezione medievale e cristiana del capitale e dell’economia – o l’arcaismo della nostra supposta modernità, secondo il punto di vista che si adotta”. Sottolineando “l’importanza della proprietà e dello sviluppo economico e demografico  del Medio Evo”.
Piketty cita  anche Peter Brown, studioso della trasformazione dei concetti di proprietà e benessere tra il IV e il V secolo, in concomitanza con l’affermazione del cristianesimo come religione di Stato, Jack Goody, “The European Family”, sull’evoluzione dell’economia domestica, e Mathieu Arnoux, “Le Temps des laboureurs. Travail, ordre social et croissance en Europe (XI-XV siècle)” sulla stessa traccia di Todeschini, di cui ha voluto e organizzato la traduzione in francese.  
La storia economica deve fare ancora molti passi – è cominciata a rovescio, con Petty e Adam Smith, dal mondo com’è, e anche il puntiglioso Marx ha avuto problemi a riconfigurarla nel suo divenire.
Todeschini ha aperto una porta, specialmente importante per la storia dell’economia e dell’Italia. Ma apparentemente subito richiusa: il suo studio, 2002, che poteva e doveva essere seminale, è sparito subito, molto prima della sua riscoperta in Francia. “La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed età moderna” è il sottotitolo. Non in opposizione ma in relazione. Di quando i monasteri erano - al tempo dei feudi inoperosi - dei campi coltivati, e aperti. “Sono proprio gli ecclesiastici che conoscono il buon uso della ricchezza”, come Piketty sintetizza: “Sono di esempio, dettano le regole, consuetudinarie e anche scritte”. Il vocabolario e anche la sintassi del capitalismo. La carità come il risparmio (accumulazione), il lavoro, l’investimento (innovazione), lo scambio. Su exempla biblici e evangelici, la parabola dei talenti, et al.
Todeschini, medievista all’università di Trieste, mostra che il linguaggio e i concetti dell’economia come si è venuta configurando, moderna e contemporanea, sono di ambito ecclesiastico. Mostra pure che gli aspetti che si direbbero deleteri, quali la deprecazione della povertà – della passività, non della povertà intervenuta - e l’apprezzamento del merito, la meritocrazia, vanno ricondotti alla storia della chiesa. La grazia attraverso le opere è diventata saldo presidio epistemologico della modernità, se non teologico.
Vescovi, monaci, mendicanti e universitari, e qualche bolla delineano il quadro dell’ordinamento economico come lo viviamo. Articolato: la creazione e la circolazione della ricchezza, la sua distribuzione, gli usi, i controlli sono elaborati e regolati in dettaglio. Negli aspetti controversi e nella sua forza di consenso. Nella sua capacità di azionare la crescita e la solidarietà, e anche nella sua brutalità. Nelle dinamiche di esclusione, di eretici, ebrei, poveri. I problemi spirituali, morali e politici che ne sorgono sono dibattuti e risolti – di volta in volta messi a punto.
Una ricerca documentata. Non solo gli assetti produttivi, la società era organizzata ai fini della produzione, secondo schemi organizzativi e sulla base di concetti che saranno e sono i nostri, di moderni e contemporanei. Non un’eresia, a voler guardare la cosa dall’altro lato, della storia della chiesa: la società medievale era unitaria, comunitaria. Le fatiche e la spiritualità marciavano insieme. La religione, si direbbe, non escludeva l’economia - non escludeva niente.
Una miniera. Parte dell’esumazione – anch’essa interrotta - del ruolo della chiesa nell’organizzazione sociopolitica della modernità. Che Alessandro Alessandro Passerin d’Entrèves, ripreso da Hannah Arendt, aveva aperto mezzo secolo fa. Lo stesso Todeschini sarà autore di un “Ricchezza francescana”, anch’esso dimenticato, malgrado l’avvento del papa Francesco (o a causa di esso?) – “Dalla povertà volontaria alal società di mercato”.
Il papa emerito lo ha ricordato indirettamente a Milano, dieci anni dopo Todeschini, ricordando san Carlo Borromeo: il capitalismo è cattolico e lombardo piuttosto che protestante e transalpino, per la salvezza che si cerca e viene con le opere e non per caso, come segno della grazia divina. Nella spesa più che nel risparmio, o l’avarizia. Nell’impegno quotidiano, che san Carlo chiamava “lavorerio”.
Il papa emerito lo sa come bavarese, e come cattolico.
È lombarda la borghesia, prima che protestante, molto prima, con la Riforma del secolo Mille. E meglio che protestante poi, con i Borromeo, san Carlo soprattutto - Max Weber va arricchito col superiore borromeismo. Come Sombart e Gotheim, Weber pone la religione tra le cause del capitalismo, un punto di contatto trovandogli col protestantesimo, la razionalità. Ma questo non è il principio della fine, del capitale e della religione. Lo stesso Weber lo sapeva, che la scristianizzazione angustiava, il disincanto del mondo – e meglio avrebbe fatto a guardare al Sud ricco della Germania, la Baviera, il Baden, il più ricco d’Europa e cattolico, dove c’è molto Borromeo, collegi, suore, conventi.
Si accumula con più sostanza e continuità nella diocesi borromeiana, che san Carlo controllava in ogni punto, giorno per giorno. E dove una fortuna che deperisce è un incidente della storia e non la fine, la tessitura procede laboriosa.  
Giacomo Todeschini, Les Marchands et le Temple, Albin Michel, pp. 560 € 27



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