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Sartre in Italia, di cattivo umore un po’ gaio
“Il turista è un uomo di risentimenti.
Uccide”. Ma la cosa non è così drammatica, è un libro di viaggio.
Esumati e annotati da Arlette
Elkaïm-Sartre, figlia adottiva e titolare dell’eredità intellettuale, sono i
materiali del libro sull’Italia che Sartre coltivò a lungo nel primo
dopoguerra, e poi non completò – o forse sì: un manoscritto esisteva, che non
si trova. “Frammenti” è il sottotitolo, che Arlette ha collazionato in quattro
gruppi: Napoli, Capri, Roma, Venezia. Questa molto estesa, una prima stesura di
un saggio, benché un po’ erratico, fra prime impressioni, idiosincrasie
personali, accensioni improvvise. Su Napoli due pagine, stereotipe. Sette su
Capri, senza riserve, anzi sorprese ed entusiaste, memore probabilmente di un
precedente soggiorno, nel 1934, in compagnia di Simone de Beauvoir – questa
vacanza italiana è invece in compagnia di Michelle Vian, la moglie di Boris (e
a Roma anche, nota Arlette, di J.-L.Bost: Jacques Laurent Bost, giornalista, era
amico di Sartre e amante di Simone de Beauvoir).
È un viaggio di vacanza - dopo il
lavoro impegnativo su Genet. Che Sartre prova a elaborare da turista controvoglia. Questo probabilmente è
stato uno dei progetti: fare il “viaggio in Italia”, eponimo del turismo, come
un baedeker anti-turismo. Segue comunque le tracce scontate, le immagini già
note di ogni luogo, Napoli, Capri e Venezia, dove entra citando “Barrès e
Thomas Mann, “la morte a Venezia”. Solo di Roma dà tratti personali, originali –
per un senso suo della storia, probabilmente, poiché mostra sempre un italiano
incerto, che non gli deve avere facilitato il contatto con i luoghi.
Uno svago? “Viva la letteratura
disimpegnata”, scriveva qualche tempo dopo il viaggio alla compagna Michelle: “Tornando,
mi rimetto alla deliziosa, alla buona Italia”. La curatrice dà più peso al
progetto, ricordando che Sartre lo disse anche “la «Nausea» della mia maturità”.
Nel senso, spiega Arlette, che “il Turista come Roquentin cerca il segreto
delle cose”. Nella “Nausea” la Contingenza, qui il Tempo, “uno dei grandi temi
di queste pagine”. Ultimo, dice ancora la curatrice nella premessa, come “ultimo
cacciatore di sogno, di bellezza o di senso, ultimo e incerto rampollo di una stirpe
che passa per Montaigne, Chateaubriand e Valéry Larbaud. È infine il testimone
della fine della Storia – decadenza della Borghesia e Rivoluzione o fine dell’umanità
con la bomba atomica” – ma la storia allora non finiva, semmai culminava.
La regina Albemarle del titolo la
curatrice prospetta immaginaria patrona interiore, irrelata al nome storico -
la contea o ducato di Albemarle, nome latino e inglese di Aumale in Normandia. Ma
forse “ultimo” sta solo per turista fuori stagione, quando la stagione è finita
– allora a ottobre era finita.
Il modello sembrano essere gli “Städtebilder”
di Walter Benjamin, le sue fortunate immagini di città, a partire da Napoli “porosa”.
Perciò forse questo Sartre bizzarro – ma come suole perentorio: niente del
fluido, ipotetico, suggerito e suggestionante, di Benjamin. Gli interni romani dice
“vuoti”. È contro “il verticale”, le città vorrebbe piatte. Ma nulla di memorabile,
a parte il desiderio di entrare nei luoghi, d’immedesimarvisi. A Venezia come se
si avesse sempre vissuto. Ci ha anche pensato al suicidio, crede di ricordare,
una notte del 1934, nel primo viaggio, in compagnia di Simone de Beauvoir. Ma,
appunto, non si libera di se stesso. Il compito si limita a svolgere facendo di
Venezia una “Amsterdam del Sud”, oltre che di Napoli una città di gaglioffi. O in
lodi sperticare: “Il mondo veneziano è finito e illimitato come l’universo di
Einstein”. Quando non è riduttivo, sempre di Venezia, “Questo labirinto per
lumache, che conserva le sue misure e le sue velicità del XVImo secolo”. Imbronciato
spesso. Anche per altri motivi. Il teorico, appena sei anni prima, dell’impegno,
così lo irride a Venezia: “Tutti militano oggi, è la regola: ho visto vecchie carcasse
sfinite reimpegnarsi per dieci anni nell’«Arte
per l’Arte» per militare contro l’«Arte impegnata». Si è militante o miliziano
o militare” – è l’effetto compagnia della
divertente Michelle? Anche un po’ stufo. Ma a Venezia si ricorda di
essere stato felice. E a Roma “leggero”, così si dice da Venezia: “Ebbene sì: a
Roma ero più leggero. Meno colpevole. Roma può anche essere deliziosa e mai mi
stanca”.
Un libro – un viaggio? – confuso,
instabile. Del turista che si nega. Ma, di più, di Sartre. Che ha immagine
monolitica, ma era di suo confuso e instabile, quasi di programma – la variegata
dispersa produzione ha pure un senso, di teatro, narrativa, filosofia, reportages,
politica, vita sociale, memorialistica. Uno che gli piaceva andare a cento
allora – lo nota anche qui, nella morta Venezia: “È la ragione che fa New York,
città così dura per tanti aspetti, malgrado tutto rassicurante: vi si vive a
cento all’ora”. Così almeno la vede, per poi dire: “Che follia mi ha infilato,
proprio me, saltando da Nizza (a prendere Michelle, n.d.r.) a Roma in aereo, da
Roma a Venezia in treno rapido, tutto vibrante ancora della mia velocità, che follia
mi ha infilato in questo labirinto per lumache…”.
Un po’ anche stregato – dalla compagnia?
dal ricordo? dalla città? “A Roma, in mezzo alla commedia, ero io stesso
commediante. A Venezia, in mezzo a un miraggio, mi sento miraggio io stesso”. Nel
passo contro l’impegno proseguiva: “E in questa società militare, il cittadino
non sa fare a meno di queste eccitazioni leggere e costanti, di queste
irritazioni superficiali il cui compito è di mantenerlo in un cattivo umore un
po’ gaio”.
Jean-Paul Sartre, La regina Albemarle o l’ultimo turista,
Il Saggiatore, pp.189 € 21
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