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lunedì 27 dicembre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (478)

Giuseppe Leuzzi

“I basilischi”, film d’esordio di Lina Wertmüller, dopo l’assistenza alla regia di Fellini per “La dolce vita” e per “81/2”, racconta di tre giovani della piccola borghesia di provincia tra Basilicata e öPuglia che non si adattano all’Italia del boom, del “lavorerio”, e alla vita in città. È un film del 1963, di “vitelloni” non per ridere ma già attardati, perché già i giovani del Sud erano tutti a Roma e nelle altre città, per lavoro o per studio – non si contano i professionisti di origine meridionale tra Milano e Roma.
 
Porci gli altri
Marie Grubbe”, il romanzo nazionale danese di Jens Peter Jacobsen, mette in scena agli inizi, ambientati in una delle guerre tra il regno di Danimarca-Norvegia e il regno di Svezia, l’odio contro gli svedesi. In questi termini: “Rubano e rapinano, sanno essere peggio dei corvi e dei furfanti; e poi sono assassini! Non per nulla si dice: lesto di coltello come uno svedese”, “E sono di facili costumi! Non c’è una volta che il boia caccia una donna a frustate dalla città e uno chiede di che si tratta e si sente rispondere che è una troia svedese”. “Tra i popoli lo svedese è come il cercopiteco tra le bestie senza ragione, ha una tale libidine che la naturale ragione, donata da Dio agli uomini, nulla può contro i suoi cattivi istinti e i suoi peccaminosi desideri”. “Lo svedese ha un odore così acre, come le capre o l’acqua di pesce.  È il puzzo dei suoi umori collerici e bestiali, è”. “Una notte di luna nuova un intero reggimento, mentre erano in marcia e si fece mezzanotte, si disperse correndo come lupi mannari e altre creature del diavolo, ululando per boschi e paludi, aggredendo persone e bestie”. “Sono stregati, sono, possono resistere alle palle di fucile, non li ferisce il piombo né la polvere, e la metà di loro porta il malocchio…”
La seconda parte del secondo Millennio conosce molti di questi odi, di cui si è nutrito il costituendo nazionalismo: tra francesi e inglesi dapprima, nel proemio, poi tra olandesi e portoghesi, tra inglesi e olandesi, tra Francia e Germania a lungo, tra Italia e Austria nel Risorgimento, con disprezzo reciproco. La tirata, che Jacobsen fa recitare a gente del popolo, è una di queste. Ma fa senso sentire degli ammiratissimi svedesi queste parole. È diverso, appena fatta l’unità e ancora oggi, tra Nord e Sud dell’Italia?
 
Un mondo di due metà
“Nord contro Sud” è un saggio che l’“Economist” di fine anno fa firmare eccezionalmente (il settimanale mantiene la formula tradizionale, ottocentesca, degli articoli non firmati) al “Columnist Chaguan”, il corrispondente da cinque anni dalla Cina, David Rennie. Su un tema che lo incuriosce, avendo trovato la divisione Nord-Sud ovunque abbia lavorato in venticinque anni di professione. Tra essi “Chaguan” mette l’Italia. C’è il Belgio per primo. Poi viene la Spagna. Poi c’è l’Italia. Con gli Stati Uniti naturalmente. E con la Cina – “Pechino e Dongxing” è il sottotitolo, la capitale al Nord e il villaggio turistico all’estremo Sud, al confine col Vietnam: “I cinesi amano gli stereotipi”. C’entra anche il Vietnam. E l’Australia, con l’asse invertito, il Sud vi figura posato e “superiore”.
Ovunque la divisione è tra Nord e Sud. Il Nord ovunque operoso, anche onesto, il Sud fanientista, e corrotto (evasione fiscale, abusi sulle provvidenze pubbliche e gli appalti, mafie). Un pregiudizio europeo agli inizi, esportato col colonialismo, specie nelle Americhe. Rafforzato a fine Ottocento con la teoria weberiana che il capitalismo (industriosità, attivismo, risparmio, accumulazione) fosse protestante - e, sottinteso, non cattolico. Una partizione che grosso modo in Europa corrisponde a Nord e Sud, e altrove come tale è stata riprodotta.
Una teoria, questa di Weber (ma Weber per la verità non lo dice, il capitalismo è ben cattolico, alle origini e per molto tempo), che, scrive Rennie, “con molti anni di esperienza di lavoro in America”, non ha fondamento. Ma, tutto sommato, “gli stereotipi Nord-Sud sono prevalentemente una peculiarità europea”.  Perfino negli Stati Uniti, un paese che per molti aspetti sembra ancora quello della guerra civile, il Sud si presenta molto vario, e anche composito come popolazione – etnicamente e socialmente.
A Dongxing un commerciante di legnami che lavora col Nord del Vietnam, col governo che gli consente di “passare sopra le leggi” sul taglio dei grandi alberi del tek, non fa che vantare il Sud del Vietnam, la cucina di Saigon, le donne eccetera. Da cinese dell’estremo Sud.    
 
È di Simenon, 1950, il modello mafia
Il fratello maggiore maggiorente in Florida: bella vita, bella moglie, belle figlie, rispettabile e rispettato, dai suoi danti causa, e anche dallo sceriffo, gestisce tutto il Golfo del Messico. Il fratello minore è un killer. Il fratello intermedio ha l’hobby delle automobili. La gestione è di supermercati, bar-caffetterie, ristoranti, posti dove i contanti circolano ampiamente.  Tutt’e tre i fratelli hanno casellario giudiziario immacolato, senza carichi pendenti, e senza impronte digitali. Da essi si pretende di tanto in tanto un servizio, oltre alla percentuale sugli incassi: un pedinamento, una spiata, un “avvertimento”, un assassinio. Non si chiama mafia. Né Cosa Nostra, trovandoci in America, il romanziere (si tratta di un romanzo) la denomina “organizzazione”. Sono gli anni 1950, ma già non si facevano nomi al telefono. E c’è anche il “pentito”, per amore – è il fratello killer, che ha molto da farsi perdonare dalla giustizia.  Con seguito di faide, familiari e non, che mafia altrimenti sarebbe. In un ambiente corrotto: il pizzo lo pretendono anche i politici, e gli sceriffi.
Tutto ciò si legge ne “I fratelli Rico”, storia “dura” del Simenon americano, quando passò qualche anno in America, dal 1945 al 1955 – il romanzo è del 1951. Al soggiorno obbligato in Provenza alla Liberazione, aprile 1945, imputato di collaborazionismo, per avere publicato i suoi romanzi in giornali filo-tedeschi e averne ceduto i diritti di trasposizione cinematografica alla società tedesca Continental, Simenon era riuscito ad ottenere da burocrati amici un visto d’espatrio in Canada per la promozione del libro e del cinema francesi, e a ottobre era passato con la moglie a New York. Dove era stato accolto da un professore di letteratura francese, Justin O’Brien, che era stato a Parigi responsabile dei servizi segreti americani – già sul finire della guerra il nemico era diventata l’Urss, e i simpatizzanti di destra venivano recuperati.
L’antipatizzante Simenon, irresistibilmente anti-yankee negli scritti di viaggio dieci ani prima, si fece così per dieci anni americano, e non si può dire che non si applicasse. Tutto il repertorio delle storie di mafia di vent’anni dopo è qui, di Puzo, Talese, Mailer, Coppola, Leone. Nonché dei tardi imitatori italiani. Con qualcosa anche di più: la madre, con la vecchia nonna - figure che la successiva mafiologia eroicizzante a torto trascura.
 
Escher e no
La Calabria è – con la Toscana – la regione che più ha ispirato Maurits Cornelis Escher, il maestro della Optical Art, l’incisore che ha creato nuovi modelli grafici - l’Einstein della grafica - che attraggono e ispirano fisici, matematici, logici, uno dei tre pilastri del monumentale “Gödel, Escher, Bach, un’eterna collana brillante” del fisico-matematico e logico Douglas Hofstädter. Ma non ne ha cura: né Morano né gli altri luoghi dove Escher soggiornò e lavorò, Pentedattilo, Scilla, Tropea, Rossano, la superba Rocca Imperiale, che pure ha un castello federiciano da valorizzare, se ne sono ricordati per i cinquant’anni della morte fra due mesi – se ne è ricordata solo Genova, dove Escher fu per caso, per poche ore, scendendo la prima volta dall’Olanda.
È vero che i calabresi sono poco cordiali – si dicono ospitali, ma non subito, sono diffidenti. Almeno a giudizio di Escher. Che in gita con tre amici nell’entroterra di Melito Porto Salvo, a piedi e affardellati, non disponendo di un mulo, “sudando maledettamente e molto affaticati, dopo una stancante escursione sotto il sole cocente”, trova alla locanda un’accoglienza ostile: “Conoscevamo da tanto tempo il modo di fare poco socievole dei calabresi, ma una reazione ostile come l’abbiamo conosciuta quel giorno non l’avevamo fino allora mai vissuta. Alle nostre domande amichevoli non ricevemmo altro che risposte scontrose e incomprensibili”, etc.
Il problema è che non è diverso pur non essendo Escher.

leuzzi@antiit.eu


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