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lunedì 10 luglio 2023

Letture - 525

letterautore

Adelphi – La casa editrice è una miniera, di inventori. Ogni poco una scoperta. Ora Di Stefano fa la scoperta di Claudio Rugafiori, che “faceva” i libri con Morante e con Calvino. E ha creato il marchietto. Dopo Luciano Foà. Dopo Calasso. Dopo Bazlen, in memoriam.
Però fa piacere che personaggi dell’editoria abbiano due pagine sul “Corriere della sera”, anche se non belli, molto meglio di influencer, volti tv (?) e cantanti, che solitamente riempiono il giornale: sanno di esotico.
 
Cimiteri italiani
– Sartre li adora, in una pagina insistita di “Le parole” (74) sui morti in famiglia e sui funerali. Perché danno un senso di continuità, della morte vivente: “Per questo motivo ho sempre amato, amo tuttora i cimiteri italiani: la pietra vi è tormentata, è tutto un uomo barocco, un medaglione vi si incrosta, inquadrando il defunto, che richiama il defunto nel suo primo stato”.
 
Corneille
– Sartre adulto (“Le parole”, 128) ne fa un ritratto cattivo, descrivendo la sua decisione a dieci o dodici anni di diventare scrittore – di diventare scrittore di successo, non più epico, “un Pardaillan invece di Corneille” (i Pardaillan erano il ciclo di maggior successo dello scrittore di successi  Zévaco): “Trasformai Corneille in Pardaillan; conservò le gambe storte, il petto stretto e la faccia di quaresima, ma gli tolsi l’avarizia e il gusto del guadagno”.
 
Cookies
– Oggi una delle mille idiozie che la privacy fa pagare per non avere nessuna privacy - siamo seguiti e registrati fin nel sonno, oltre che al bagno, per non dire in camera da letto  - è termine culinario, per dolcetti. L’inutile richiesta affligente di consensi a non si sa che cosa aprendo un qualsiasi sito è già in “Lance”, il racconto “fantascientifico” di Nabokov, che non amava la fantascienza e i gialli (“Lance” in realtà il è Lancillotto del “romanzo medievale” franco-germanico, annota lo stesso Nabokov, che opportunamente nel Novecento naviga tra le stelle), e ne concludeva la critica in questi termini: “Sono come i dolcetti assortiti che differiscono l’uno  dall’altro solo in forma e ombreggiatura, con le quali i loro abili manipolatori irretiscono il consumatore goloso in un folle mondo pavloviano, dove, senza sovrapprezzo, variazioni di semplici valori visivi influenzano e gradualmente  sostituiscono il sapore”.
 
Manzoni
– De Giovanni (“La Lettura” di ieri) lo vuole liberare, anche lui. Ma per un motivo plausibile: “Se fossi Manzoni chiederei soltanto il piacere di essere letto come romanziere. È qualcosa che ha a che fare con la tragica modalità con cui la scuola propone la narrativa, che è come spiegare il sesso attraverso la dissezione degli organi genitali, una cosa ributtante”.
 
Misteri
– “I romanzi fanno paura ai misteri”, può titolare “La Lettura” una lunga conversazione con i due giallisti principe, Lucarelli e De Giovanni. De Giovanni fa un esempio: “Inventare una trama narrativa può aiutare, per esempio, a capire cosa accadde a Ustica”. Se non che cosa accadde a Ustica è noto da subito – cosa accadde veramente. Il dopo-Ustica pure. Il romanzo avrebbe potuto imbellire, forse, le due vicende: impossibile rappresentarne la sordidezza, sono senza respiro - mancherebbe la necessaria catarsi. I misteri sono irredimibili.
 
Otto-Novecento – Il secolo del teatro l’Ottocento, il secolo del cinema il Novecento Sartre caratterizza in “Le parole”, ricordando la golosità sua e della madre per le immagini in movimento, ogni pomeriggio in tutte le sale di Parigi, quando aveva sui dieci anni: “I borghesi dell’ultimo  secolo non hanno mai dimenticato la loro prima serata a teatro e i loro scrittori si sono incaricati di ricordarne le circostanze” – il sacro sipario si leva, gli spettatori si sentono a corte, “gli ori e le porpore, i fuochi, i belletti, l’enfasi e gli artifici mettevano il sacro fin nel crimine”. Negli intervalli, “spettacoli” di nobiltà e vanità. Poi stacco radicale: “Sfido i miei coetanei a dirmi la data del loro primo incontro col cinema”. Spettacolo per tutti, al  buio, che “prefigurava la nostra barbarie”: “Entravamo alla cieca, in un secolo senza tradizioni che doveva segnalarsi per le cattive maniere”, e la nuova arte, “il cinema, l’arte plebea, prefigurava la nostra barbarie”.
Sartre, curiosamente, ha sempre provato col teatro, che seguiva, commentava, frequentava, anche fuori scena, scriveva, e mai col cinema – non si ricorda una sua critica, un soggetto, anche una sola amicizia o frequentazione , mai un’attrice, fra le tante donne che ne ingombravano la giornata. Era uno Ottocento?
 
Parodia – Ha funzione seria – seriosa – secondo il suo cultore e mistagogo Umberto Eco: “Una delle prime e più nobili funzioni delle cose poco serie è di gettare un’ombra di diffidenza sulle cose troppo serie- e tale è la funzione seria della parodia” (“Nota all’edizione 1975” di “Diario minimo”, riproposta nella riedizione corrente).
 
Pastiche – È la parodia di una scrittura, uno stile – Proust ne era maestro (le parodie raccolse in “Pastiches et Mélanges”, che tuttora sono saporite). Si attaglia al pastiche la nota di buon cuore che Eco dà alla parodia: “Non sempre una parodia si esercita su un modello che considera negativo; sovente parodiare un testo significa anche rendergli omaggio” (ib.).
 
Poetesse – Sorpresa, sono escluse dalla poesia del Novecento, dalle migliori antologie, di Gianfranco Contini, Edoardo Sanguineti, Pier Vincenzo Mengaldo, Cesare Segre e Carlo Ossola. Le più progressiste comunque, teoricamente non sessiste. Per gli editori Rizzoli, Mondadori, due volte Einaudi (Sanguineti e Ossola-Segre).
 
Riso – Il riso è proprio dei pazzi, diceva Baudelaire – e Umberto Eco concorda: “il riso è satanico, e dunque profondamente umano” (citaz. in esergo all’ “Elogio di Franti”, in “Diario minimo”). Se è vero, aveva spiegato il poeta, “che il riso umano è intimamente legato alla disgrazia di un’antica caduta, di una degradazione fisica e morale”. Di cui trovava conferma a teatro: “Tutti i furfanti da melodramma, maledetti, dannati, fatalmente segnati da un sogghigno che arriva alle loro orecchie, rientrano nella ortodossia pura del riso”.
 
Sartre – Nella autoanalisi che si fa ne “Le parole”, 1965, si dice nato “segnato”. Segnato dalla sconfitta del 1870, in una famiglia luterana di lingua tedesca che scelse la Francia, col cumulo conseguente di un bisogno permanente di giustificazione:  “Se ho commesso, in un secolo di ferro”, il Novecento, "la folle bevuta di prendere la vita per una epopea, è che sono un nipotino della sconfitta”.
 
Solo contro tutti – L’eroe duro e puro è il sogno borghese per  Sartre memorialista dell’infanzia (“Le parole”, 113): “Uno contro tutti: era la mia regola”, da scrittore imberbe a dieci anni: “Si cerchi la sorgente di questa fantasticheria triste e grandiosa nell’individualismo borghese e puritano del mio ambiente”. Ma, allora, di una borghesia prima della “borghesia” otto-novecentesca. Anzi eterna, poiché il mito ne è pieno.
 
Traduzioni – Sono rischiose. Jumpha Lahiri non cura le edizioni americane dei suoi racconti italiani, li fa tradurre da specialisti. Nabokov, invece, che traduce in americano i racconti russi, “russi” anche quando li scrive direttamente in americano, “Lolita” compresa, sembra sempre a rischio imbalsamazione: parole rare, costruzioni inconsuete, perfino i nomi propri sembrano falsi. Lo studio a più voci sulle sue traduzioni, a cura di Chiara Montini, specialista del “clan Nabokov”,  si intitola “Traduzioni pericolose (Scritti 1941-1969”- già il saggio biografico sul “clan”, sulla moglie Vera e il figlio Dmitri, Montini aveva costruito attorno alla ”traduzione”.

letterautore@antiit.eu

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