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giovedì 13 luglio 2023

Il mondo com'è (464)

astolfo


Elisa Chimenti
– Una signora di Napoli, dove nacque nel 1883, la prima di quattro sorelle, che visse in Marocco una vita, a Tangeri, fino al 1969, dove scrisse molto e aprì una cuola italiana, la prima in Africa. Riscoperta recentemente, il 5 aprile, da Natascia Festa sul “Corriere della sera-Corriere del Mezzogiorno” l’edizione napoletana. Poliglotta, scrisse però in francese, e per questo forse è stata dimenticata – non una menzione alla morte, pur in epoca molto attenta alla cultura, e a Tangeri. Era anche stata nominata Cavaliere al Merito dal presidente Gronchi con decreto 30 maggio 1957. E nel Palazzo delle Istituzioni Italiane a Tangeri, che tuttora esiste, una sala le era stata dedicata in vita, “Elisa Chimenti”. Che tuttora ospita una Fondation Méditerranéenne Elisa Chimenti.
Il padre medico, Rosario Ruben, garibaldino, si era stabilito con la famiglia a Tunisi quando Elisa aveva un anno. Ultima di sei figli, un fratello e un fratellastro di nome Roberto, e tre sorelle, Mara Ester, Mara Giulia e Mara Dina. Alcuni anni dopo la famiglia si sposta a Tangeri, in Marocco. Qui  il padre si lega alle origini ebraiche, e fa educare Elisa alla Alliance israélite della città. Dove l’insegnamento è tenuto in francese, in arabo e in ebraico. Elisa cresce così cosmopolita e poliglotta – si vuole che conoscesse e parlasse speditamente ben quindici lingue, di cui buona parte dialetti araco-berberi, oltre a francese, tedesco, spagnolo, portoghese (non l’inglese). Col padre, medico di corte del sultano del Marocco, Muley Hassan I, frequenta la miglior società marocchina, ma anche le tribù berbere dell’Atlante, della Montagna: segue il padre nelle visite periodiche tra le popolazioni più povere, come interprete e per l’auscultazione delle donne.
Una vita divenuta più romanzesca alla morte del padre, nel 1907. Elisa è mandata a proseguire gli studi in Germania, a Lipsia. Qui pubblica i suoi due primi romanzi, “Meine Lieder” nel 1911 e “Taitouma” nel 1913. Nel 1912 si è anche sposata, con un conte polacco naturalizzato tedesco, Fritz Dombrowskij, ma il matrimonio finisce presto: il conte ha crisi di follia e tenta anche di strangolarla - successivamente si legherà a Si Ahmed Fekhardji, algerino, interprete di corte, senza sposarlo.
 Nel 1914 è di nuovo a Tangeri, dove fonda con la madre una scuola italiana. Multiculturale e multireligiosa. Finanziata dal 1924 dal governo italiano, da Mussolini. Che però successivamente impone un suo direttore. Elisa resiste, e resiste anche alle pressioni per prendere la tessera del fascio. Nel 1928 è licenziata, Riprenderà la direzione della scuola alla caduta del fascismo, nel 1943. Chiederà allo Stato italiano e otterrà un risarcimento per la “nazionalizzazione” della scuola negli anni di Mussolini, per la somma di 30 mila franchi francesi – che però non verrà mai pagata. Vivrà di giornalismo e di scrittura, soprattutto di cose marocchine, storiche o etniche. È morta, a Tangeri, il 7 settembre 1969.
Mara Pia Tamburlini, udinese, insegnante all’estero, anche a Tangeri, e cura l’archivio di Elisa Chimenti,  per l’“Enciclopedia delle donne” ne fa un ritratto lusinghiero, di “scrittrice eclettica e feconda, imprenditrice ante litteram, antropologa, ecologa, poliglotta, studiosa delle differenti culture e credenze presenti nel nord del Marocco – cristiana, musulmana, ebraica, animista”. Un solo suo romanzo,”Al cuore dell’harem”, risulta tradotto, nel 2000.
 
Sacagaweha
– Una squaw Shoshona, “moglie “ di un trapper franco-canadese, un cacciatore di animali da pelliccia, si può dire la scopritrice dell’America, del wild West.
La via verso il West fu aperta negli Stati Uniti nel 1804, dopo l’acquisto della Louisiana dalla Francia, dalla spedizoione (Meriwether) Lewis e (William) Clark. Che non conoscevano i luoghi verso cui si indirizzavano né le lingue delle tribù che andavano a incontrare, lungo il Missouri e attraverso le Montagne Rocciose, gli Shoshona, gli Hidatsa, i Mandan. Si appoggiarono quindi a un avventuriero francese di nome Larocque. Dal quale però presto ricevettero richieste eccessive. Assunsero allora come guida-interprete  un aiuto di Larocque, Toussaint Charbonneau, un francese del Québec, trafficante in pelli di discendenza mista, francese e irochese, che aveva anche il pregio di due mogli, Otter Woman e Sacagaweha, “donna uccello” – entrambe donne Shoshona, prese prigioniere dagli Hidatsa, in una incursione contro gli Shoshona. “Mogli” incontrate o rapite  nell’odierna Washburn, in North Dakota. Lo assunsero in qualità di interprete. Charbonneau aveva lavorato per altre spedizioni, ma era nota solo la brutalità: mentre lavorava per la North West Company come trapper, venne registrato nei diari della compagnia per essere stato accoltellato da una donna Saulteaux, di cui aveva stuprato la figlia.
Presto anche Charbonneau decadde nelle grazie di Lewis e Calrk, classificato come “un uomo di nessun merito”. Litigioso anche con le “mogli”, tanto che dovette essere rimproverato ufficialmente dopo un diverbio con Sakagawea. Delle due donne indiane Sakagawea divenne di fatto la vera interprete, e anzi la direttrice della spedizione: conosceva molti luoghi e molte persone, sapeva muoversi ta la varie lingue tribali. Salvò carte e documenti dal rovesciamento di una baca male manovrata da Charbonneau. Salvò molte situazioni tese con le tribù che incontravano. Alla fine della spedizione cedette la sua cintura di “grani blu” (turchesi) n cambio di una invidiatissima pelliccia di foca che la spedizione volle portare indietro come regalo per il presidente Jefferson.
Una donna oggi centrale negli studi storici, misconosciuta fino a recente. Sempre riferita da Clark nei diari come “moglie di Charbonneaux”, “donna indiana” o “squar” (non squaw). Il rapporto era ufficialmente mantenuto con Charbonneaux. Che risulta pagato al termine della spedizione, nell’agosto 1806, dopo19 mesi, 500 dollari, più un cavallo e un alloggio. Ma nei diari dello stesso Clark, durante la spedizione e dopo, non c’è che lei. Ora accreditata dagli storici della parte migliore del lavoro della spedizione, un percorso di migliaia di miglia, dal Nord Dakota al Pacifico: era il cardine dei contatti con i nativi americani, risultò l’unico membro della spedizione in grado di spiegare tutti i fatti naturali, vegetazione, fauna, ambienti, che incontravano, i passaggi da lei individuati e utilizzati per attraversare le Montagne Rocciose sono quelli rimasti poi in uso. È una delle personalità più onorate, con statuee e monumenti di ogni tipo dalla National Americam Woman Suffrage Association.
 
Fratelli Vivaldi – Ugolino e Vadino (Guido) Vivaldi, genovesi, navigatori, sono ricordati da Fabio Genovesi in “Oro puro”, il romanzo della scoperta dell’America, come precursori di Cristoforo Colombo. Della teoria che navigando verso Occidente si raggiungesse l’Estremo Oriente, l’India e il Cathay, la Cina, con le loro ricchezze. E della pratica: i due fratelli si avventurarono oltre “le colonne d’Ercole”, e se ne persero la traccia.
Precursori già due secoli prima, perché partirono nel 1291. Partirono con due galee, “Allegranza” e “Sant’Antonio”. Finanziati da mercanti e patrizi genovesi, tra essi un Doria, Tedisio. Una spedizione, come da contratto, “ad partes Indiae per mare oceanum”. Con l’intento però non di arrivare in Oriente navigando verso Ovest ma di arrivarci circumnavigando l’Africa - la rotta che seguitranno Bartolomeo Diaz e Vasco da Gama due secoli dopo. Sono dati per dispersi nelle cronache successive,  dopo capo Juby, dove oggi finisce il Marocco, al confine con la Mauritania. La loro fine, personale e della spedizione, è controversa. Una delle spedizioni organizzate per la ricerca, quella di Lanzerotto Malucello una ventina d’anni dopo, accertò che le galee avevano toccato le Canarie, e poi proseguito, fino alla foce del fiume Gambia (Senegal). Dove una delle due galee fece naufragio.La missione proseguì, nel racconto dei nativi, caricando equipaggio e viveri sull’altra galea. Nel 1455 Antoniotto Usodimare, anche lui genovese, scriveva di avere incontrato nei pressi del Gambia “un giovane della nostra stirpe”, che capiva e parlava genovese, qualificandosi discendente dai superstiti della spedizione Vivandi.
Franco Prosperi, regista cinematografico di documentari naturalistici, ideatore con Gualtiero Jacopetti del cinema detto Mondo movie, di formazione zoologo (ittiologo) ed etnologo, animatore di molte spedizioni etnologiche della Società Geografica Italiana, in una di queste, nel 1950, trovò e fotografò, incisa su una roccia lungo il corso dello Zambesi, al confine con la Rhodesia-Zimbabwe, in un tratto poi sommerso con la costruzione della diga di Kariba, la scritta “V.V. ad 1294”, che dedusse essere di Vadino Vivaldi.
Il progetto dei Vivaldi rientrava nella ricerca di una via commerciale verso l’Oriente dopo l’interruzione della via terrestre, con la caduta di San Giovanni d’Acri e delle altre piazzeforti cristiane nel Levante.


astolfo@antiit.eu

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