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venerdì 26 aprile 2013

Il plebiscitarismo della spesa

È l’ultimo tabù del partito Democratico, e quindi esulerà dal programma di Letta, ma sbancherebbe un referendum: l’elezione diretta dell’esecutivo, in forma di repubblica presidenziale (preferita) o di un primo ministro. Invece di un presidente del consiglio dei ministri senza alcun potere. E quindi dei governi delle pastette, delle correnti, del non governo, della crisi.
I referendum maggioritari e decisionisti del 1990-91 sono stati trasformati in regini elettorali a livello locale, Comuni, Province, Regioni – qui col consenso d tutti, il Pd è ancora il partito degli amministratori. Ma peggiorando la situazione – il non-governo o il sottogoverno - invece di risolverla: senza un analogo potere di governo centrale, i poteri locali plebiscitari sono diventati dei centri di spesa incontrollati. La politica locale è prevalentemente un image building dell’eletto, sindaco o presidente. Roma ha avuto un sindaco che ogni giorno doveva “uscire sui giornali”, come lo scià di Persia o un qualsiasi reuccio del Terzo mondo, per un gesto eclatante, dotare l’orfanella, i Nobel al Campidoglio, McCartney al Colosseo. Si è ingigantita così quella disfunzione che l’esecutivo stabile doveva governare, la proliferazione incontrollabile della spesa.
La riforma è impossibile per nessuna ragione. Si dice: Berlusconi. Come già si diceva: Craxi. L’esecutivo che governa, investito dal voto, acculando sempre alla P 2, che non vuole dire nulla. No, è il vecchio gioco della politica, o il gioco della vecchia politica, che si tiene i feudi riservati. E la passività ormai congenita del Pd, che si fa ingravidare dal primo passante del “faccio tutto io”, generazionale, radicale, goliarda, Renzi, Grillo, un sostituto Procuratore qualsiasi.

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