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mercoledì 24 aprile 2013

Palermo viene male all’unità, l’Italia peggio

Periodicamente emerge, come una sorgente carsica, questa memoria non rivista dei giorni palermitani di Nievo, democratico, garibaldino, vice-intendente della prima amministrazione italiana della Sicilia. Perché Nievo è scrittore vivace. E perché la Palermo che gli si presenta, in questi appunti e nelle lettere che scrive, specie in quelle animatissime alla cugina acquisita Beatrice Melzi d’Eril, “Bice”, è subito senza speranza. Ma con sua sorpresa, Nievo non è prevenuto. A differenza degli altri amministratori, emigrati di ritorno, quale il messinese La Farina, il suo capo. Inviato da Cavout nell’isola per mettere fuori gioco i garibaldini, e dunque a Palermo impegnato soprattutto a contestare i conti dell’intendente Nievo, garibaldino. Che alla fine sloggia. Nievo parte sempre fiducioso. Salvo scoprire che a Torino, in Parlamento, Cavour ha già montato il “processo ai garibaldini”. Ridiscende a Palermo a raccogliere la documentazione a difesa, ma al ritorno affonda col piroscafo davanti a Napoli.
Beppe Benvenuto, che ripropone la piccola raccolta, sfaccetta la personalità complessa del giovane scrittore-patriota. L’ardimento politico. La capacità di scrittura. La finezza linguistica, che ne fa un’eccezione nello sconsolante “italiano dell’Ottocento”. La capacità critica, benché da nobile di campagna, conservatore, di capire la povertà rurale. Ma se ne può dire di più. Nievo, che sarebbe stato il nostro Stendhal, se non fosse sparito come Majorana giovane sul malefico vapore per Napoli, dice moltissimo, su tutte le esperienze che ha vissuto, e più sull’unificazione dell’Italia, in questo modesto diario e nelle lettere alla cugina amata.
I Mille, che erano ottocento, sarebbero stati “la seconda edizione aumentata e ingrandita di Pisacane e Capri”, se i napoletani non se la fossero squagliata, che poi erano austriaci e bavaresi. C’erano i soliti figuranti, “un barone di Marsala a cavallo di un asino”, “un frate guerriero da Castelvetrano a cavallo, col Cristo in una mano e la spada nell’altra”, e due compagnie di picciotti, sì, ma agli ordini dei parrini, due frati di Partinico - molto aiutò Garibaldi in Sicilia la leggenda che fosse un frate travestito da guerriero. Nessuna ribellione, in nessun posto. “I palermitani sono occupatissimi a ripararsi dalle bombe”, benché adusi alle rivolte, ne hanno sempre fatte tante, e i picciotti “amano la guerra, ma senza pregiudizio dell’integrità personale”. Tutti chiedono a Nievo posti e pensioni, benché misere: “Principi e principesse, duchi e duchesse a palate agognano venti ducati al mese di salario”. Siamo quello che eravamo. “I siciliani sono tutti femmine, hanno la passione del tumulto e della comparsa”, scriveva il nostro Stendhal, la rivoluzione è opera di “briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari”. Il profittatore Depretis dava ogni sera da mangiare ai nobili a Palazzo Reale: “Il voltafaccia di questa gentaglia mi stomaca, ne pronostico del male, la servilità non dà speranza di eroismo e neppure di costanza”. Al plebiscito i no all’Italia furono venti su 32 mila votanti.
La campagna tra Marsala e Palermo gli appare abbrutita. La capitale invece scintillante, e molto aperta, anche al contatto fisico – di “sensualità diffusa”, dice Benvenuto. Senza fargli perdere il senso critico: tesoriere e pagatore, confrontato giornalmente a torme di “principi e principesse” in cerca di raccomandazioni e sussidi, Nievo sa vederne il lato debole: la supponenza mista all’indigenza – invece del solito feudalesimo, su cui ancora Sciascia indugia. “Io sono annoiato di Palermo che nulla più”, scrive a Bice, “è una serenità che annoia, un complimento continuo che stanca, una servilità che ammazza”. L’Italia manca soprattutto di verità, ora come allora.
Ippolito Nievo, Diario della spedizione dei Mille, Mursia, pp. 101 € 9

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