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sabato 10 gennaio 2015

Nuovi coloni e vecchi islamici in Nigeria

Sono vite intrepide, nell’ordinario. Si curiosa, di minute e gravi cose allo stesso modo poiché quello è l’orizzonte. Non è un limite culturale, l’ultima casalinga di manovale italiano sa le differenze, ma il modo d’essere nella vita: non ci sono grandi eventi se non ci toccano, né piccoli eventi se non ci lasciano indifferenti. La filosofia lo sa: l’uomo è misura delle cose. Gli espatriati pure, i lavoratori dell’Ente all’estero, e le loro mogli.
Le confidenze sono partite a Kano, col panettone, lo spumante Asti, torroni di Cremona, Torino, Bagnara, crostate e pastiere fatte in casa “col grano sottovuoto”, la teglia di lasagne e l’arrosto, perché il rischio è stato concreto di passarvi Natale. Il presidente generale Gowon ha requisito l’aereo che doveva riportare a Milano gli ospiti giornalisti, a Kano per una parentesi culturale dopo i campi petroliferi, i pranzi coi manager e i briefing, sul Delta, la malaria e il petrolio. Un tedesco, un inglese, due texani, Andrea, il fotografo silenzioso della Luce che ringiovanisce con gli anni, tutta gente che la prese con filosofia, non fosse stata Grazia, l’inviata milanese intrepida e madre o amante trepida, in ansia pure per la difficoltà di telefonare. È così scattata la solidarietà delle mogli.
I viaggi dei giornalisti sono un’occasione sociale per le mogli espatriate coi consorti. L’Africa è fatta così e non vale spazientirsi, nulla vi è prevedibile, in Nigeria ancora meno, siamo espatriati ma non stranieri, il mondo sappiamo a fiuto, per anni di allenamento. Si dice di Gowon che deve fare il pellegrinaggio alla Mecca, ma non è praticante, forse non è islamico, anzi non può esserlo, l’islam padroneggia il Nord, Kano e Kaduna, ma il presidente federale non dev’essere confessionale, forse è a Londra, chissà, a Zurigo. Fela Kuti, che l’afrobeat ha imbattibile, ha sposato in una sola cerimonia ventisette donne – e la cosa fa ridere, non si sa se per invidia, la trasgressione piace nell’ordinario. Si dice per non pagarle – mantenere una persona consente ancora in Africa di non pagarla. Ma delle donne, che forse sono ventotto, si è preso pure i figli. Fela Kuti ha fatto dono al governo di una copia della bara della madre, che l’esercito avrebbe buttato dalla finestra una volta che attaccò la sua repubblica indipendente di Kalakuta, con la canzone “Una bara per il capo dello Stato”. Kalakuta, presa dall’esercito più volte, è sempre attiva. Fela Kuti è stato incarcerato un centinaio di volte, che sembrerebbe impossibile.
L’imprevedibilità nasce dal khat, assicura l’ingegner Colombo:
- Per lo stordimento che dà la masturbazione mentale. Il khat dà visioni che non si sanno comunicare, come l’hashish. L’ha studiato la Difesa inglese: hanno provato varie droghe sui soldati, senza benefici, né in lucidità né in combattività. - L’anziano ingegnere è stato confinato al cerimoniale, e alla fine, via Abidjan, ha tirato giornalisti e accompagnatori fuori da Kano, liberi di festeggiare Natale a casa: - È più semplice fare buchi nel delta – commentando: - In questo mestiere l’equazione è a infinite variabili, tutti vogliono qualcosa. – L’ingegnere ha le stesse incombenze del professor Osaniegu, con altra qualifica, dopo un’esperienza di quasi morte. Ha visto l’aldilà per una febbre violenta, uno dei malanni tropicali di cui la decolonizzazione ha eliminato la cognizione, hanno lasciato morire Coppi, che aveva solo la malaria. Un coma, la diffusa corta malattia: - La quasi morte è argomento comune. Una ciarlataneria: chi ne parla è quasi sempre uno yoruba, basta una febbricola. – Ma ricorda fenomeni di luce che non riconosce nello spettro, nei quali ha navigato senza ansie, anzi in pace. Ne ebbe distinta percezione, pur non vedendosi, in uno stato generale di benessere. È l’eternità quale ce la figuriamo, la pace nei verdi pascoli? L’ingegnere non risponde, non ne parla volentieri.
Ha imposto con la flemma, alla corte dell’emiro, le precedenze:
- Non c’è motivo per non onorare le regole e i poteri locali – si è schermito, e i posti sono stati liberati su Abidjan. Altri nel suo incarico hanno facilitato l’entrata di dirigenti e ospiti senza la dichiarazione valutaria, per evitare le code alla dogana, dopodiché hanno dovuto pagare grosse somme per sanare l’irregolarità, l’ammenda più la bustarella. O li hanno presentati a personaggi della National Oil Co., l’Ente locale, o della banca centrale, o a contatto con la Noc o la banca, per affari più o meno leciti, dal carico spot di petrolio alla squillo, per i quali si paga subito l’anticipo, talvolta per ineseguiti. Le due cose, l’infrazione e l’affare, si legano in Nigeria. Non senza logica, spiega un capo redattore politico al Freedom Daily di Lagos: “Sono predoni”, dice degli stranieri, “colludono coi potentati per distruggere la Nigeria”. Un ex deputato, di quando c’era il Parlamento prima di Gowon, ne fa un caso di resistenza: “I truffatori dovrebbero essere incoraggiati”, dice, i truffatori a danno degli stranieri.

Gli europei sono ombre sul fango compatto di Kano, sbiadite. La casa è il nostro vestito, si dice, ci prende la forma. O noi prendiamo la forma della casa. Ma è il nostro primo possesso, il primo segno d’individualità. Senza, è una privazione. Tra le mura di Kano, di argilla e pietre, paglia, sterco, che il sole e il vento compattano, case che le strade sterrate dilatano, anche questa semplice verità appare svanita, ma è un inganno prospettico. A meno del colore, questa città senza divisioni apparenti richiama le architetture vivaci dei libri cinesi o tibetani, l’artificio delle forme vegetali: l’imponenza si sgrossa assottigliando il muro man mano che s’innalza. Concrezione sedentaria del nomade, la casa nasce chiusa a difesa dall’harmattan, la tramontana del Sahara che porta la polvere nella stagione secca, e per segnare l’autorità: il nomade, con la tenda aperta, è selettivo.
Allo stesso effetto concorre l’accorpamento di nuclei su nuclei, che non risponde alla viabilità, padrona del cittadino odierno. Con guizzi di luce e prospettive rotte che hanno fatto di Andrea un invasato, bagnato di sudore, i fotografi sono affardellati di pesante strumentazione:
- Sono stato paparazzo – si giustifica: fa la posta alla città come la faceva alle dive. La casa è un organismo vivente privato, sacro, nel vuoto dello spazio, uno scudo degli affetti contro il vento del tempo, la proiezione e la misura di sé. La casa fa il nomos, direbbe un tedesco, il lavoro invisibile del tempo, che il tempo rigenera, della famiglia, la stirpe, il genere umano. È il segreto dell’islam, pur nella separazione tra maschi e femmine: più l’ambiente è chiuso, più si è espansivi, senza difese.
Alcune case stanno insieme a livelli diversi, alcune sono l’una sfaccettatura dell’altra, in un ammasso che si vuole anche materialmente impenetrabile, altre se ne stanno insieme lontane. Fino alla torre Eiffel i materiali da costruzione sono sempre gli stessi, pietra dove c’è o mattoni, fango rappreso e malta, con telaio ligneo o cannicciato: la tecnica a Kano non è arretrata, è diversa. L’architettura islamica di interni, che nelle case di sogno di Cordova si organizza nella frescura, attorno al chiocchiolio dell’acqua, sotto il rampicante del cortile umbratile, è a Kano un rinvio di ombre, che chiudono senza pareti. C’è il movimento e c’è la stabilità. Il colore monocromo educa l’occhio alle sfumature. È sottile lo sguardo dei suoi uomini e delle donne – la matriarca africana sopraffa la sharià maschilista. L’abitazione avrà fini utilitari, ma è unione simbolica e intima.
L’emiro di Kano e Kaduna che mai si mostra, disdegnando l’etichetta, la impone a fini autoritari. Il suo corteo è sempre già passato, uno svolazzo nero e oro tra altri cavalieri, in coda una piccola folla a piedi. È uomo pio il venerdì, esercita la carità con le decime che esige. Gioca al polo gli altri giorni in attesa del golf, l’erba è nel deserto un trono. Nella sua città di fango dando alla scombinata federazione nigeriana potere e decoro: l’islam non promette libertà ma salvezza, agli obbedienti. Furono gli emiri di Kano a offrire il Benin alla regina Vittoria, l’ultimo impero. Kano ebbe in cambio la ferrovia, fino a Bonny e Port Harcourt, cioè ora al petrolio.
Il Benin era ricco e bello quando il Portogallo riscoprì l’Africa. Per oltre un secolo, nel Cinque e Seicento, soldati portoghesi lavorarono remunerati per il re del Benin. L’Africa fu riscoperta per la terza o quarta volta nel 1897, quando i britannici deposero l’oba del Benin, il re. Contro la regola del governo locale, l’indirect rule, che portò alla creazione di reucci anche dove non ce n’erano, ma funzionale all’appropriazione e alla rivendita del tesoro reale, oltre duemila pezzi. Non si poté più dire da allora che l’Africa è ignota. O dal 1910, quando arrivarono sul mercato i manufatti in bronzo, pietra e terracotta di Ife, del dodicesimo secolo. Dal 1933, quando il maestro elementare di Esie scoprì un migliaio di statuette in pietra di cinque secoli prima. Dal 1938, dopo la scoperta a Igbo, nello stato di Anambra, di una serie di bronzi del nono secolo. O dal 1943, quando sempre in Nigeria, a Nok, vennero alla luce terrecotte del periodo fra il 700 a.C. e il 200 d.C. Non si poté più dire se non per salvare l’“arianesimo”: la tecnica di Ife, la Delfi del Benin, Frobenius trovò tanto abile che senz’altro vi domiciliò “una razza di gran lunga più dotata dei negri”.
(da Astolfo, La morte è giovane”, romanzo, di prossima pubblicazione)

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