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sabato 10 gennaio 2015

Quando Kohl impiccò l’Italia all’euro – 3

Un libro di storia sui venticinque anni dalla caduta del Muro è solo benvenuto, ma l’essenziale manca. E anche sul resto ci sono mancanze. La rappresentazione è minuziosa, circostanziata, ma come è prassi ormai da qualche tempo per le opere di giornalisti, che coprono le verità dei fatti, che non capiscono o celano, sotto il cumulo delle circostanze. Si vede dal primo capitolo, che dettaglia le manovre italiane per entrare nell’euro e le resistenze tedesche, all’euro in sé e all’Italia nell’euro. Ma si muove in ambito Seconda Repubblica, se non ulivista, Ciampi-Dini-Prodi. Trascurando il lavoro precedente al trattato di Maastricht (1992) fatto da Draghi e Carli per conto di Andreotti. Ben altra squadra, con percezione reale degli interessi in campo. Castronovo è uno di quegli storici che non hanno ancora scoperto la Dc in Italia? Sicuramente non l’ha scoperta in Europa, quella di Kohl, Merkel & co..
La ricostruzione, apparentemente fedele per il gran numero di dettagli, ha discontinuità gravi. Della corsa affannata di Ciampi-Dini-Prodi trascura peraltro l’essenziale – già subito, insomma. L’Italia ha scelto di aggregarsi al carro germanico, e tale scelta è ancora impegnata a onorare. A questo punto anche per evitare i danni che il riflusso provocherebbe – staccarsene non è più possibile. Ma non aveva messo in conto i costi. È stata una scelta in linea con quelle, sempre Dc, che hanno deciso positivamente il destino dell’Italia nel dopoguerra (la Nato, il Mercato Comune). Ma in questo caso presa alla leggera: l’euro è una moneta e una contabilità, non negoziabili (mercanteggiabili). Leggendo – in altre pubblicazioni - le sciocchezzuole di Draghi, negoziatore dell’euro per conto di Andreotti, di Carli, e perfino di Ciampi, sul “vincolo esterno” non si sorride più, c’è solo da arrabbiarsi.
L’euro è stato per l’Italia un azzardo. Una scelta epocale, ma azzardata: è andata bene per un periodo e poi malissimo. Avevano ragione i tedeschi, Tietmeyer e la Bundesbank in testa, che vivamente consigliavano all’Italia di tenersene fuori. Castronovo ne registra le resistenze, ma come una sorta di albagia teutonica, mentre erano argomentate, a favore dell’Italia. Quanto a Kohl, Castronovo riporta la battuta del “Financial Times”: “Se l’Italia entra, Kohl esce”. L’Italia infine fu ammessa agli accordi finali sull’euro, e Kohl perse le elezioni, dopo quattro mandati, a fine settembre 1997. Le perse perché con la riunificazione, che aveva voluto da grande statista, aveva impoverito la Germania nel complesso. Ma è vero che aveva anche lui voluto l’Italia nell’euro, contro tutti i suoi consigliori, da vecchio europeo – o da nuovo tedesco, con la riserva mentale? Questa invece è una mancanza grave: la nuova Germania. L’euro fu apprestato, dopo il trattato di Maastricht, mentre la Germania mutava natura. Senza più i russi a Berlino – la Germania, nel 1989, era ancora sotto occupazione. Senza più dover dipendere da Parigi, che peraltro dopo Mitterrand si inabissava. Né dall’Italia, per dire, e in Italia dal Pci, consigliere e stanza di compensazione nei confronti di Mosca. Berlino non è Bonn. La Germania non è più una popolazione e un’economia alla pari con la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia, seppure più efficiente e produttiva: è una popolazione, un mercato e una struttura produttiva una volta e mezza ognuno dei paesi maggiori. È insomma un’altra Germania: già quella del quarto Kohl, dopo la riunificazione, era un’altra rispetto a quella del secondo-terzo.
Ma tutta la componente internazionale, preminente nella vicenda europea, è desultoria. E quando c’è, è rituale, di maniera. È la geremiade dell’Europa che avrebbe bisogno di una guida tedesca e della Germania che non vuole o non sa. Mentre invece l’inverso è vero – basta leggere la stampa e la pubblicistica tedesche. È la geremiade, ormai remota, che Barbara Spinelli ha impiantato per facilitare il recupero dei buoni tedeschi nell’Europa unita – tanto buoni, diceva Barbara, che recalcitrano a prenderne la guida. Senza nessun riscontro in Germania, dove anzi, senza complessi e senza arroganze, si discute sempre apertamente di ciò che è e fa l’interesse tedesco. La Germania, già prima della riunificazione, con i cancellieri Schmidt e Kohl, e ancora di più dopo, ha voluto un ruolo dominante e ha lavorato e lavora per questo. Scorrendone gli studi, i commenti, le analisi, anche di uffici e istituti pubblici, e la sociologia critica (Beck, Habermas, Offe, Streeck, Henderlein), questo non solo è palese, è il fatto. Con i governi di centro destra, di Kohl e di Merkel, e con i governi di centro sinistra, di Schröder e della stessa Merkel.
L’essenziale che manca è il vantaggio comparato che l’euro sbilanciato offre al blocco germanico. Che il blocco germanico alimenta, con tutta evidenza, portandosene beneficiario, anche con le maniere forti. Tanto più l’Italia paga caro il suo debito, grazie agli allarmi quasi quotidiani da Berlino e da Francoforte, tanto più la Germania risparmia sul suo, l’aritmetica dello spread la può capire anche lo storico.
Valerio Castronovo, La sindrome tedesca. Europa 1989-2014, Laterza, pp. 295 € 24

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