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venerdì 9 gennaio 2015

Quando l’islam scese in Nigeria

I discorsi, brevi, sono finiti, e gli arredi subito svaniti. Per curiosità più che avidità, il desiderio di una bandiera, d’un pezzo della tela rossa che fasciava il palco, appena contenuto dall’urgenza di abbrancarsi a un elicottero per ripartire. I soldati prevalgono nella corsa sui dignitari e le madame, con la prestanza fisica e il calcio dei mitra. Hanno aspettato che gli stranieri passassero, facendo ala col sussurrio montante “dollars, dollars, bakhshish, bakhshish”, e si sono scatenati: spingendo, volteggiando, hanno occupato i due elicotteroni che avevano portato le autorità di Lagos e non ne scendono, ammassati l’uno sull’altro, le portiere aperte. I notabili locali, ancora imparruccati, si riempiono le tasche di sandwiches.
I soldati s’incontrano già in aeroporto, all’arrivo a Lagos. A differenza dei vecchi dello Zaire, in Nigeria sono reclute, emergono a schiera e chiedono il bakhshish con voce distinta, solo lo sguardo è ugualmente atono. Si va da una sigaretta, i timidi, a un biglietto in dollari, cifrato: c’è chi ne vuole cinque, e chi venti. Una teoria vuole che ognuno dice il numero che conosce. La Nigeria è sempre il Paese del futuro, gli Usa neri. La stampa è libera, il mercato aperto, pagando, la gente vota, i generali ruotano. “Nigeria First” voleva Nnamdi “Zik” Azikiwe, la prima scoperta alla biblioteca del Commonwealth. Ma la patria per ora viene dopo.
Ci si mette in salvo dalle paludi del Niger, al di sotto delle quali il petrolio s’è formato leggero, quasi benzina. Dopo l’inaugurazione solenne del terminale d’imbarco del petrolio, tra Port Harcourt e Bonny. Che hanno storia decorosa, nel delta impaludato dello schiavismo. Port Harcourt è il nome che John Lander, inglese, diede nel 1830 al terminale, allo sbocco del Niger, del commercio degli olii di palma, in concorrenza con lo scalo dei monopolisti, Bonny. Gli altri terminali tra le mangrovie e le acque nere hanno nomi altrimenti evocativi: Forcados è il campo della Shell, Escravos quello americano, le paludi puzzano anche nei ricordi.
Il Grande Progetto è localmente rilanciare il Biafra, ossia la Nigeria cristiana, con un’offensiva civile dopo la guerra, poiché è in Biafra che si trova il petrolio della Nigeria. Ma è rimasto non detto, i mussulmani hanno già occupato i capisaldi. Sono scesi dal Nord non con le armi ma con i soldi dello stesso petrolio, più veloci, e munifici:
- L’islam è mondano, e i poveri amano i ricchi - spiega il vescovo anglicano al Presidente, gli occhi lampeggiando celestiali sull’incarnato delle guance, che lo zuccotto e la mantellina accendono:- La maestà vuole i suoi simboli. Dicono che l’islam si espande sulle gambe dei credenti, consolante sarebbe la fede semplice. Ma la religione deve segnalarsi, la povertà respinge. - Il Presidente borbotta, l’inglese avendo precario, e sta di tre quarti, per invitare i collaboratori a interloquire con le nasalità dell’anglicano. Non si sa che dire a un vescovo, a uno bianco in Africa, anzi roseo. Ma è vero che l’islam è religione politica, fa le leggi e cura la rappresentanza: l’islam scende con marmi, sete, campi di polo, cavalli, frustini, e il saldo presidio maschile, coi soldi sauditi del petrolio.
Il colonialismo lo sapeva, che fu soprattutto espansivo in campo gentilizio. Per la superfetazione della storia in forma di tradizione, e la fabbrica dei nobili. Ci sono esempi nell’esercito, la scuola, lo sport, per l’epica della caccia e la guerra, e nel terziario. Il trafficante ci tiene, e lo ufficiale, il funzionario, il giudice, l’agricoltore - il medico e l’ingegnere no, che si applicano, né il negoziante, che è greco, asiatico, ebreo, ed è concreto, il commercio è genere faticativo, ingrato. Lo scoprirono con gioia gli stessi socialisti quarantottardi o comunardi, deportati in Algeria o al Capo: divenuti agricoltori si atteggiarono a gentiluomini di campagna. Tutti nobili gli africani dopo le colonie, è il lascito più durevole: pochi stimano la libertà, l’autostima dei lavoratori. L’invenzione della tradizione vi fu fertile, degli anziani contro i giovani, gli uomini contro le donne, una tribù contro l’altra, e c’è un pedigree pure per gli ascari.
Gli inglesi, cui venne naturale identificare tribù e aristocrazia, nelle colonie non hanno portato i loro sport popolari, non il rugby, dove gli africani sarebbero imprendibili, né il calcio, che giocherebbero con eleganza, o la boxe, hanno invece sancito e diffuso il cricket, il golf e il polo. La loro indirect rule non era truffaldina, non del tutto, ma una proiezione dello spirito eletto, di apertura se non di utopia, non c’è forse scrittore inglese dopo Shakespeare, da Aphra Benn in poi, che non sia stato coloniale – mentre non ci sono colonie nel grande romanzo francese, con l’eccezione di Ourika della riluttante Claire de Duras, l’amica di Chateaubriand. L’emiro di Kano e Kaduna manda al Sud cavalli arabi e crea club chiusi, su prati di erba smeraldina, tra i pantani e la polvere. Ci sono così due Afriche, nel rapporto con l’Europa. La colonizzazione è stata la stessa, ma il risentimento è diverso: gli africani condividono, col linguaggio, l’umanità degli europei, ma quando l’islam arriva subentra la riserva mentale. La stessa del Nord Africa e il Medio Oriente, una rivalsa che osteggia l’amicizia. È sempre la crociata per l’unico Dio. Oppure gli arabi, come i tedeschi, sono risentiti per non avere ancora vinto la guerra.
(da Astolfo, “La morte è giovane”, romanzo in via di pubblicazione).

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