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giovedì 17 novembre 2016

Gli scoraggiati della politica

Al trionfo di Putin ha partecipato il 48 per cento dei russi aventi diritto – e meno ancora nelle metropoli: il 33 per cento a Pietroburgo, il 35 a Mosca. Si astengono gli ungheresi dell’agitatore Orban: al suo referendum anti-immigrati ha votato solo il 43 per cento. Si astengono i francesi: all’ultimo voto, a inizio anno, per le regionali, si è astenuto al primo turno il 50 per cento dell’elettorato (al secondo il 70 e oltre per cento). Si astengono i lavoratori: nei primi dieci quartieri di Parigi a maggioranza salariata l’astensione al primo turno è stata tra il 60 e il 70 per cento. Si astengono anche i tedeschi: alle ultime ragionali al 38 e più per cento – alle comunali di Hannover al 44,5.
Si astengono gli italiani: il referendum potrebbe vincerlo l’astensionismo. Non in senso tecnico – il referendum comunque sarà valido – ma politico: potrebbe vedere una partecipazione miserevole. Le premesse ci sono, nei sondaggi, e nella parole d’ordine che corrono nei vecchi partiti. E non sarebbe una novità. Nemmeno uno scandalo, l’astensione è uno dei modi di fare politica. Ma sì nel quadro di fondo, che porta sempre più e sempre in più paesi all’astensione: quasi dappertutto il “primo partito”: come se gli elettori lasciassero scoraggiati il mercato politico - così come molti, dopo troppi fallimenti, smettono di cercare lavoro, gli “scoraggiati”.
È il trend in Italia
Il fenomeno è universale – nel piccolo universo europeo. In Italia è un trend sempre più robusto. Per il sindaco di Milano si sono astenuti, malgrado una campagna elettorale vivace, il 45 per cento degli aventi diritto – erano stati il 24 per cento alle politiche nel 2013. E come a Parigi, l’astensione è stata superiore nei quartieri di salariati, un 53 per cento (59 a Rogoredo, 58,5 al Corvetto, 56 a Quarto Oggiaro, 57 al Giambellino). Anche a Torino, il successo di Appendino è frutto dell’astensione, al 45 per cento al primo turno.- con tassi superiori nei quartieri operai: Villette al 54, Mirafiori Nord al 55, Madonna di Campagna al 51. O in Liguria per le regionali l’anno scorso: in due anni l’astensione è passata da poco più del 25 al 50,5 per cento – con tassi più alti nei quartieri operai: 58,8 a Marassi, 53,3 a Cornigliano, 52, 6  Bolzaneto.

Nell’Italia che votava sempre e comunque, la tendenza si può anzi dire storica. Fino alle regionali del 1976 l’astensione era fisiologica, attorno al 10 per cento. Alle politiche del 1979, la prima sconfitta del Pci, è salita al 13,1. Nel decennio successivo ha oscillato sul 16 per cento. Negli anni 1990 sul 20 per cento - la fine della “Prima Repubblica” si compensava con la mobilitazione per la “Seconda”, specie a destra. Nel 2001, vittoria di Berlusconi, e quindi della destra, è però salita al 25 per cento. Nel 2013, trionfo di Grillo, al 30. Tredici milioni di elettori, una volta e mezzo il voto del Pd, o di Grillo, o della coalizione di destra. Necessariamente di elettori salariati, per due terzi o quattro quinti. Con un tasso di astensione triplicato in quattro decenni, con progressione costante. Nelle elezioni locali successive l’astensione ha raggiunto il 50 per cento e oltre.
Impoverimento
Le ragioni sono molteplici. Il non voto di protesta. La frustrazione per le aspettative non realizzate. Le nuove stratificazioni sociali, imposte dal mercato o globalizzazione, e dalla crisi persistente, ormai quasi da un decennio. La difficle integrazione etnica.
Questa, da tempo aperta negli Usa, è una questione nuova in Europa. Negli stessi Usa ha una recrudescenza, paradossalmente proprio sotto la prima presidenza di una minoranza, per l’immigrazione clandestina massiccia da una dozzina d’anni a questa parte: 43 milioni di arrivi nel millennio, legali e illegali, su una popolazione di 320 milioni, a fronte dei 21,1 entrati nella Ue con grande scandalo, su una popolazione di 507 milioni.
La frustrazione non è una novità, ed è inerente alla politica. La novità è che è estesa e stratificata, consolidata. Le nuove povertà sono una novità, evidentemente, il nome lo dice, ma una novità tanto più insopportabile per venire dopo l’affluenza, come impoverimento.
Tutti questi fenomeni solitamente inducono alla mobilitazione: sociale, etnica, nazionalistica. Retrograda o progressista, ma nel senso di una maggiore partecipazione. È il caso in Francia col successo crescente del Front Natioanl, in Italia col successo nel 2013 di Grillo, e ora a Torino e Roma, in Germania con quello di Aternative für Deutschland. Tutti movimenti interclassisti, ma con una coloritura decisa anti-immigrati e anti-europei. Ma sempre più la rivalsa cede alla demoralizzazione. Evidente in questo scorcio di millennio: le rivalse, come se sbattessero contro un muro inerte, sembrano agire da emolliente e spingono al disarmo morale, al ritiro. La globalizzazione potrebbe avere alzato la linea del conflitto ad altezze che masse crescenti ritengono di non potere più condividere in qualche modo, perdenti, vincenti o semplici partecipanti.

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