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venerdì 25 novembre 2016

Tarantolato a Manhattan

Parole in libertà - un rap primitivo o un delirio da acido. Parafrasi di canzoni, o introduzioni alle stesse – all’epoca aveva  vent’anni e ne aveva già scritte settantacinque. È la prima settimana a New York del menestrello di Duluth, uno dei tanti nowhere  d’America.  Incontri di strada, voci, rumori  - “Lo schianto della notte nera” è raccontato sei volte, sette con “Lo stomp di Mae West”. Di un “Mister Incapace (che) dà l’addio alla fatica e incide un disco”. La presentazione originaria evocava “gusto del nonsense e saggezza zen”.
Bob Dylan ha avuto da subito la vocazione di scrivere parole, anche senza la musica. Ma in modo avventuroso, e quasi marinettistico – post- naturalmente, cioè in ritardo, e di poco interesse eccetto la curiosità. Riedita dopo il Nobel, con la traduzione rivista (ma è fatica di Sisifo) e l’originale a fronte, questa “Tarantula” si completa con un centinaio di pagine di guida alla lettura, tante quasi quanto quelle del testo. A cui Dylan lavorò nel 1963, due anni dopo l’approdo a Manhattan, al Greenwich Village. Nel 1966 il libro era pronto, in bozza definitiva per la stampa, che fu distribuita in anteprima ai giornali. Dylan però si eclissò, dopo aver chiesto all’editore di soprasedere, e il volume uscì nel 1971.
Per i fan un regalo. Ma non è un esercizio prosastico, e nemmeno un divertissement: è una sfida alla prosa, e alla stessa lingua, una continua sottolineatura del sensato-insensato. Che è anche l’unica chiave di lettura, niente altro, storie, antistorie, immagini, sonorità. Sensato dietro le apparenze, insensato nella sintassi – la contiguità, il significato. Il tarantismo non viene bene in area metropolitana? Le liriche con cui il menestrello chiude alcuni dei pezzulli hanno però forma curata e consistenza.
Bob Dylan, Tarantula, Feltrinelli, pp. 345 € 10

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