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domenica 20 novembre 2016

Con Trump spesa in deficit

Dopo Waterloo, la vittoria di Trump segna anche la fine dell’opinione pubblica? Dei media, dei sondaggi, all’evidenza fuori rotta. Durante la campagna elettorale, si è detto, ma di più ora. Per l’incapacità di analizzare la sorpresa più che per la inattendibilità dei sondaggi, che sono oggi i principali veicoli di opinione. Anche dei media qualificati, con i loro analisti e specialisti. A due settimane dalla sorpresa aspettiamo ancora di saperne qualcosa.
La vittoria di Hillary Clinton al voto popolare, concentrata in California e nello stato di New York, conferma indirettamente il collasso della opinione pubblica: nemmeno il partito Democratico, e la macchina elettorale di Hillary Clinton, più potente, molto, di quella di Trump (in questo senso la vittoria dell’“arricchito” Trump è una vittoria della democrazia: i suoi fondi elettorali erano un terzo o un quarto di quelli della rivale), hanno avvertito, nemmeno subodorato, anche solo per ipotesi, la sconfitta.
Cosa attendersi è detto in America Fist. Attacchi concentrati sui media Usa – legittima difesa? Mano dura con gli Stati “canaglia”, Iran, Corea del Nord. Ma, di più, sul fronte multilaterale o della globalizzazione, che non fa più gli interessi americani. Nel quadro di una revisione degli assetti regolatori mondiali, nel commercio e nel clima. Nei quali al Cina marcia all’evidenza in regime mercantilistico, commercio, tecnologia, ambiente, lasciando gli oneri agli altri – la libera produzione di CO2 in Cina è superiore a quella del resto del mondo: i mercati si conquistano senza garanzie di qualità, se non accessorie, e senza rispetto par i diritti umani – paga e orario di lavoro.
Una revisione quindi con la Cina in speciale modo. Ma poi anche con l’Europa, il secondo maggior partner commerciale, e con i paesi confinanti, Canada e Messico. Col Messico anche per l’immigrazione clandestina – un problema che già Bush jr. avrebbe dovuto affrontare, e poi Obama: non è pensabile che il Sud America si trasferisca negli Stati Uniti. Trump vorrà riequilibrare d’imperio i rapporti commerciali – lo ha detto – a prescindere  dallo statuto europeo di fatto, di alleato indivisibile degli Stati Uniti.
Ci sarà anche meno America in Medio Oriente, in Libia, in Palestina, nella penisola arabica.
Fra i tanti paradossi non spiegati dell’elezione di Trump, il candidato impossibile, c’è la fiducia dei mercati, che gli indici di Wall Street sintetizzano. Il dollaro ha accelerato l’apprezzamento in corso da fine 2014, portandosi  contro l’euro al livello dell’1 gennaio 1999, alla quasi parità della prima quotazione. I titoli azionari hanno battuto i precedenti record al rialzo. Immediata si è prodotta una fuga consistente di capitali dai fondi obbligazionari in Asia e America Latina verso Wall Street, 7-800 miliardi di dollari in pochi giorni.
È come se i mercati puntassero su una politica di deficit spending – l’unica che si può delineare dalle confuse dichiarazioni di Trump – per rafforzare e stabilizzare la crescita. Chiudendo la fase d’incertezza che era seguita all’annuncio della Federal Reserve di ritenere chiuso il ciclo dei tassi zero e del quantitative easing.
I tassi al minimo non attiravano più gli investitori: il differenziale reale rispetto ai tassi monetari, misurato con la crescita dell’economia, non era più attraente. Una politica di deficit crescenti, in grado di stimolare meglio l’economia, è ora la scommessa dei mercati sulla Trumpenomics, la politica economica della nuova presidenza.
Era la richiesta degli economisti liberal - di sinistra. Nonché del candidato democratico Sanders, il radicale sconfitto da Hillary Clinton. Ma molti repubblicani si sono espressi in passato per un programma di stimoli all’economia, con sgravi fiscali, spesa pubblica e incentivi.
Se questo sarà il programma di Trump, il divario con l’Europa diventerà un baratro.

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