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giovedì 9 febbraio 2017

Il dio delle donne

“Le Baccanti” sono l’irruzione dell’irrazionale – altrettanto indigesta che l’allitterazione. E uso celebrare l’irrazionale, lo stesso regista lo fa nelle note di presentazione, come un allargamento a dismisura delle possibilità espressive. Nelle forme della possessione e della rivelazione, che sono il divino traslato nel mondo. Questa rappresentazione lo fa in vario modo, con le immagini scenografiche, i costumi e le evoluzioni del coro, una recitazione più spesso allusiva – di grande qualità – che non parlata. Ma le parole dette sono quelle di Euripide, che oggi suonano in tutt’altro verso, di un femminismo antifemminista. Anche per la regia – inavvertitamente?  
Sottile, non detta, o detta in forma vittimistica, delle donne vittime del dio, ma costante è la caratterizzazione delle menadi insensibili, orgiastiche, distruttive. Che sono nell’originale di Euripide, ma non come genere – sono le matrici che si ribellano al loro destino creatore. Salvo ne accentua la carica distruttiva prospettandole superficiali più che vittime, quasi spensierate e allegrone mangiatrici d’uomini, il dio, il re di Tebe Penteo, il nonno Cadmo, lo stesso Tiresia, per quanto protetto dalla divinazione e la cecità. Quello femminile si rappresenta come tutti i poteri: se al naturale, incontrollato, allora sfrenato.
Mito – religiosità? Ma, opera laica oppure religiosa, la sua storia è di un femminismo feroce. Ci sono tante letture di Euripide. Una è se non volesse riaffermare con “Le Baccanti” l’inevitabilità del sacro, o l’obbligo (“convenienza” la dice il saggio Cadmo) per gli umani di non misconoscere la divinità. L’altra, più consistente, è se non sia stato un laico precoce, che l’irruzione religiosa legge come distruttiva. Oggi, in questa chiave, non si può non leggerlo come antifemminista: le Baccanti del ventunesimo secolo, l’impellenza del sacro essendo cessata, sono donne tutte in un modo o nell’altro, amanti, sorelle, madri, comari, distruttrici e autodistruttrici. 
Nei propositi del regista le Baccanti agiscono in una condizione di automatismo. In una sorta di invasamento passivo, di occupazione permanente da parte del dio. Ma sono loro ad azionare morti e distruzione, all’orlo dell’antifemminismo. Il dio è costretto a spiegarsi all’inizio – in questa tragedia ha la funzione di Prologo - e a scusarsi alla fine.
La distinzione-collocazione del dionisiaco è sempre stata macchinosa. È un tentativo anche di ipostatizzare il male in qualcosa di diverso dal dio, cui invece lo steso nome di Dioniso riporta. E il mito non ha altra funzione che di esorcizzare, anch’esso – paure, minacce, disgrazie. Euripide ne fa una rappresentazione forse religiosa forse laica - è l’una e l’altra cosa – ma per uno spettatore odierno il male viene a incarnarsi nella femminilità. Al modo non maschilista ma tragico, di una distruzione irreparabile perché naturale.  
La rappresentazione è semplice e sontuosa insieme. Forse perché pensata per i teatri estivi all’aperto, a Taormina, a Siracusa, dove Salvo ha operato più volte. O è la lezione di Ronconi, di cui Salvo è stato allievo e a lungo aiuto-regista. La scena teatrale nuda si anima con video-immagini, suoni, coreografie coinvolgenti, di forte impatto sullo spettatore.
Daniele Salvo, Le Baccanti – Dionysos il dio nato due volte, Roma, Teatro Vascello

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