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martedì 19 giugno 2012

Secondi pensieri - (104)

zeulig

Anima - Nella Cabala i devoti ricevono il venerdì un’anima nuova, vergine e angelica, per il nuovo inizio sabato. È una forma della continuità, l’antico rituale di dare sfogo ai repressi. È un caso di riutilizzo dei materiali, nel quale eccellono gli americani. Anche i romani praticavano i prestiti, alla morte dell’imperatore sostituivano le teste del defunto sulle statue con quelle del nuovo.

“Un’anima senza germi è un’anima sterile”, obietta Lou Andreas Salomé a Freud a protezione di Rilke – che la superba analista, inattingibile a Nietzsche, aveva iniziato all’amore, a letto.

Una delle chiavi è la teoria delle due anime, inaugurata da Gor’kij per la Russia alla vigilia della rivoluzione, poi divenuta spagnola (anima europea, anima oceanica), lusitana (idem), indiana, te-desca naturalmente, e italiana. Gor’kij poneva il Sud a Oriente, “sfera di predominio dei principi emotivi e sensibili su quelli della ragione”. L’orientale si compenetra alla natura e vi si adagia, come farà il negro di Senghor, mentre l’europeo s’ingegna di “studiare le forze della natura, farla operare per l’uomo, liberare l’individuo dalla prigione del dogma, le superstizioni, i pregiudizi, la morsa del lavoro coatto”, e di “trasformare l’energia fisica liberata in energia spirituale”.

Capitalismo - Porre l’origine del capitalismo nelle religioni è un oltraggio – per questo Weber, che fu persona di tatto, oltre che scienziato, non la pone. Il capitale è sottrazione: un tanto si mette, un tanto si toglie, e se qualcosa resta si accumula. Il resto è demoralizzazione dell’Occidente a opera dell’Occidente, questo singolare morbo, poiché le religioni di cui si parla sono ebraismo e cristianesimo: cosa c’entra la religione col comprare e vendere che forma il capitale? Le eresie germinavano tra le professioni produttive, primi i tessitori, gli studiosi lo sanno, Febvre, Cantimori e Marc Bloch. La cosa presto si estese ai ciabattini, i mugnai, i vagabondi e i ladri, durante e dopo la Riforma. Senza contare che erano bravi pure i muratori e i falegnami: il capitale è come la rivoluzione, si vuole manuale.

La Riforma non è nata capitalista, anche se se ne fa vanto. La Riforma non è il Rinascimento e anzi lo interrompe, Nietzsche lo spiega più volte e Weber lo saprà: il servo arbitrio è abominevole. Può soddisfare l’istinto beghino, sacrificale. Non può fondare il capitalismo, se esso si vuole libertà e democrazia. Che la Riforma escluda la Rivoluzione, come vogliono Carlyle e Hegel, questo è un altro discorso: se la Riforma mancata implica una politica dimezzata, senza la libertà, la Riforma non la esclude del tutto, escludendo la politica?
Per Thomas Mann è invece opaca la politica in Francia e Spagna, in Belgio, Austria, Portogallo, opacissima nella libertina Italia, e con lui tutto si fa chiaro: all’opera non è Weber ma il pregiudizio anticattolico, antilatino - la storia della Riforma non è migliore di quella della Controriforma. Ciò che si imputa a Weber sono le “forme di vita borghese” di Lukáks. Che dice borghese “il primato dell’etica nella vita, della vita dominata da tutto ciò che ritorna secondo un sistema e una regola, da ciò che si ripete secondo un dovere, da ciò che dev’essere fatto senza riguardo a voglia o malavoglia. In altre parole: il dominio dell’ordine sull’emozione, del durevole sull’effimero, del lavoro sulla genialità, la quale si nutre di fatti sensazionali”. Forme che Mann compiaciuto sintetizza: “Tedesco e borghese sono una cosa sola”.

Intellettuale – Figura recente, è curiosa. Essendo concrezione della nostalgia del non democratico Platone, il dittatore del sapere, lui per primo dovrebbe sapere di non sapere – in quanto depositario di verità è, al meglio, Epimenide cretese.
L’irrilevanza non è dell’impegno, l’impegno lascia tracce, ma dell’impresa intellettuale. L’aneddoto celiniano è perfido ma è sintomatico: lo scrittore crede all’unicità della sua opera. Venga la guerra, la peste, l’olocausto, per l’autore essenziale è la sua opera. Questo è giusto, ognuno si fa valere per quello che sa fare, ma è sciocco. Se la scrittura è memoria. Di che? Della malinconia di Proust, ottima memoria. Della teologia di Dante, profonda. Dell’aneddoto raccontato dal conte di Foxa, l’ambasciatore spagnolo, a Malaparte, che ne ricavò il meglio di “Kaputt”, l’armata che svanisce nel ghiaccio (altra fonte sono i “Capriccios”, proprio così, mezzo italiani mezzo spagnoli, del generale Grüninger, come subito Jünger li rifece nei “Diari”). Vero, anche se probabilmente mai accaduto. Ma nulla a che fare col destino dell’uomo e le masse. A meno che esso non sia fantasia. Ma fantasia non sono le malattie, i debiti, la fame, la fine cruenta dei miliardi di uomini non memorizzati nelle scritture.

Il “lavoro intellettuale” di Sartre e Fortini è niente, se non è una vergogna. È come dice Schmitt: “L’intellettuale fu rappresentativo solo in un’epoca di transizione, nella ribellione alla Chiesa”. L’intellettuale di Platone è un dittatorello. Quello “organico” sa di rifiuto – Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito-Chiesa. L’intellettuale ama rappresentare la sua funzione, con ricorso aperto sulla scena all’omissione e l’ipocrisia, ma questo ne fa un cantante d’opera più che una autorità. Il suo è un lavoro, usurante.

Scienza – Sapere di non sapere sarà il su unico risultato? È il proprio della ricerca: restare in attesa (ricerca) di un evento cognitivo risolutivo, che però sa non ci sarà mai. Sapere di non sapere non è neanche una novità.

Storia - Il bello della storia è che se ne può fare a meno. La storia non c’è, o meglio si dissimula. La storia va e viene, le città nascono e muoiono, i popoli, le culture. Può concepirsi solo a n dimensioni, direbbe Braudel. È la scienza di Epimenide, che dormì per 57 anni. O il lungo sogno di Dio di Scoto Eriugena e il vescovo Berkeley. Che ogni tanto si prende una pausa e lascia fare.

Ogni conoscenza è memoria, e dunque lo è ogni novità? Memoria volontaria, quella di Proust, “che è sopratutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dà del passato che facce senza verità, ma un odore, un sapore ritrovato sì”. Il tempo è rovine, si dice in un racconto di Franco Lucentini. Ma c’è un tempo in cui il tempo non decade? Non un tempo storico – passato, presente, futuro. Ma questo tempo non tempo non può esserci stato, altrimenti non ci sarebbe il tempo. La modernità è assolutamente antica, direbbe Oscar Wilde. Di antico, cioè di stabile - reale - c’è solo quanto è moderno. Anche la tradizione che la modernità inventa, la quale altrimenti non esisterebbe.

Oggi la memoria va molto, ma non c’è memoria senza l’oggi. Anche se non si può dar torto a Nietzsche, ogni atto dell’andare avanti è tornare indietro. E a Spengler, per cui i fatti storici essendo fatti psichici, la storia non può fare a meno del concetto di causa. E quando diventerà più complessa della natura? I suoi tempi senz’altro sono più veloci della natura, catastrofi comprese. Gentile vede a tratti un’attività vuota: un cielo lampeggiante d’infinite luci, che splendono un momento e subito si spengono, “restando immota e immutabile solo l’enorme volta appena soffusa del tenue chiarore prodotto dalla sfuggente luminosità di tutte quelle stelle cadenti, spettacolo da fermare ogni cuore più animoso”.

Tempo – “Il tempo passa, il Tempo temporeggia” sarebbe proverbio rumeno. Il Tempo del moto circolare, senza deperimento.

zeulig@antiit.eu

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