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lunedì 18 giugno 2012

Letture - 99

letterautore

Corretto – Il politicamente corretto attacca il politicamente scorretto come troppo facile, opportunista, conformista. È esercizio facile, di speciale ha solo che emerge vent’anni dopo “La cultura del piagnisteo” di Robert Hughes. Ma la tenzone è aperta, su “La Lettura”, da Sandro Modeo, che non è un opportunista, e forse nemmeno politicamente corretto (Modeo ce l’ha col “Foglio”: sarà una querelle tra giornalisti?). Ma il conformismo è corretto o scorretto?

Dante – È giudice definitivo e senza appello – giudice morale. Montherlant lo apprezzava per questo. Maestro di disprezzo per chi che merita disprezzo, e di rispetto e ammirazione per chi merita rispetto. A prescindere dalla fondatezza storica dei suoi giudizi: li motiva incontestabilmente.

È scienziato e cosmologo, oltre che teologo e filosofo, uomo politico, poeta. Molti studiosi recenti convergono su questo aspetto. Mary Ackworth Orr, Mark Peterson (“Dante and the 3-sphere” è consultabile online). Robert Osserman, “La poesia dell’universo”, Horia-Roman Patapievici, “Gli occhi di Beatrice”.

Si può dire giallista, perché no, del genere noir. La maggiore dantista inglese di metà Novecento è stata Dorothy Sayers, dopo T.S.Eliot (con Pound naturalmente) e C.S.Lewis, la scrittrice di gialli. Buona cattolica e traduttrice della “Commedia”, che considerava il suo miglior lavoro. La bibliografia dantesca di D. Sayers è impressionante: la traduzione delle tre cantiche e tre raccolte di saggi, ”Il poeta vivente nei suoi scritti”, 1954, “Gli eredi e i predecessori”, 1957, l’anno della morte, “La poesia della ricerca e la poesia dell’affermazione”, postumo nel 1964.
Questi studi contano molto nelle università britanniche. Nessuno degli studi danteschi di D.Sayers è stato tradotto.

Kerouac – Esemplare si ritiene di scrittura da strada, un graffitaro precoce. L’equivoco vale per lui più che per Allen Ginsberg e altri beatnik, perché impersona il bello giovane maledetto della pubblicità. La scrittura di strada è infatti ammiccamento puramente pubblicitario. Lo spirito dell’epoca si voleva peraltro nomadico e trasgressivo: l’aneddotica beat è quindi sul consumo di benzedrina, peyote e alcol, e sulla promiscuità, ma “eravamo governati”, dirà Carolyn Cassady, moglie di Neal, madre di tre dei suoi figli, e amante occasionale del suo miglior amico e ospite Kerouac, “da ideali vittoriani”.

Tutta la scrittura beat è colta e anzi iperletterata, anche dei minori – Corso, Ferlinghetti, lo stesso Cassady, e Edie Parker, la prima moglie a vent’anni di Kerouac. Di autori vivi solo in letteratura, lettori onnivori, dall’enorme capacità di assorbimento. Kerouac non ha fatto altro che scrivere. Ha scritto sempre. Dapprima in francese: un paio di romanzi e alcuni racconti rimasti inediti. Scrisse il primo libro poi pubblicato, postumo, “Gli ippopotami”, nel 1941, a diciannove anni, con Burroughs, il più sofisticato, cerebrale (benché decerebrato) scrittore americano di metà Novecento. Ma ne aveva scritto già un altro, ancora inedito, da solo, “The Sea is my Brother”. Dopo essere emigrato a New York col fine esclusivo di scrivere. Dove frequentava solo letterati (Gore Vidal si vanta nel sue memorie di essersi “fatto” il bel giovane, “davanti e didietro” - il che sarebbe irrilevante, se non dicesse che negli Usa, con tutte le vite romanzate, la strada, i fumi e le revolverate, i letterati se la fanno coi letterati perfino in quelle cose).

A lungo, e più per i beatnik, ha imperato in letterartura il vitalismo americano (Whitman, Twain), dei poeti che dai quindici ai vent’anni sono stati braccianti, taglialegna, lavapiatti, in vari stati dell’unione, ebanisti, macchinisti, delle ferrovie, di teatro, di cinema, e cacciatori, di donne e di uomini, e sempre duri, anche nella deiezione: chierichetti e ladri d’elemosine, bevitori, sniffatori, assassini di vecchi indifesi. L’eroe dumeziliano in autostrada, meglio sulla Cadillac, col pisello per spada e un pieno di avventure. Di cui non s’avverte la vertigine, perché sono iperletteratura.
La miniera inesauribile di foto di cui si facevano oggetto li documenta tutti belli, anche Ginsberg, ben nutriti, Kerouac frequentava la Columbia University gratis in quanto giocatore emerito di football, ben vestiti, blasés. Per nulla maledetti, ma determinati concorrenti al titolo.

Ci sono varie “maniere”, la più proficua è quella negata, superata, sbriciolata. Inventata: “Il primo pensiero è il migliore” di Kerouac pare una scemata ed è business, prosa spontanea senza Freud. Partendo dalla professata “new-old Zen-Lunacy poetry”, coi mezzi haikù che infiorettano “Sulla strada” e i derivati, “dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo”, “e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro”, “è il mondo troppo vasto che ci sovrasta, ed è l’addio”, “tutto va bene, Dio esiste, noi abbiamo la nozione del Tempo”. Con esiti diversi dalle intenzioni – se si legge ancora con piacere “Sulla strada” o, come a Cannes ultimamente, se ne apprezza il film “a prescindere” (mentre Parigi ne espone autografi e cimeli). Kerouac ha creato ritmi e linguaggi nuovi, che hanno nutrito la seconda metà del secolo, avanguardia tra le avanguardie, discreta e all’apparenza incolta, non accademica cioè, ma efficace. Né è minor esito che, con Budda e l’haikù, abbia dato materia alle avanguardie europee dieci anni dopo.

Lettura – “Ogni 7 secondi, 24 ore su 24, qualcuno nel mondo sceglie un romanzo di John Locke”, dice la pubblicità Rizzoli. Non sapendone niente, John Locke non sarà uno scherzo?, uno si sente a disagio. Ma la grafica fa di più, ne intima la lettura con la canna della rivoltella che una procace figura punta verso il lettore. È così, e si capisce che la lettura sia in confusione. Molti di più magari leggono, ma molti di meno apprezzano.

Ora si vuole rapida – il genere giallo (Camilleri, re del genere, si legge in due ore). Prima è stata politica – il neo realismo. Precedentemente si voleva calligrafica – rondismo, etc. O di avanguardia – di ricerca, innovativa.
È da molto tempo che non va più: non ha lettori – acquirenti – quella saporosa, al limite di una sola riga. Quella che sollecita l’immaginazione lasciando un’impronta – il classico. Ora non si vuole un’impronta ma un passatempo: si legge come si fa un puzzle, o una partita a scopa. Dal tempo dell’editoria come industria: il lettore è un consumatore, che va catturato subito e comunque, anche con prodotti di scarto, purché rientrino nel trend.
Il giallo è la scrittura rapida per eccellenza, anche dove non c’è sorpresa, né un mistero da risolvere, giudiziario, criminale, magica. Borges disse il giallo l’erede del grande romanzo dell’Ottocento. Qualcuno sì, molto sono irrileggibili. Ma tutti sono rapidi, non vogliono molta attenzione, non incidono nella memoria.

letterautore@antiit.eu

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