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lunedì 28 marzo 2016

Il romanzo delle parole

Anche il padre della premio Nobel fu volontario Waffen-SS a 17 anni, come Grass, che aveva preceduto Herta Müller a Stoccolma. E lo rimase tutta la vita, quando ai matrimoni si poteva sbronzare gratis: aveva un repertorio sterminato di canzoni nazi. Herta Müller comincrà a scrivere al ritorno dal suo funerale. Per poterlo raccontare, per raccontare il padre: “Un paio di giorni dopo cominciai a scrivere, anche se non ne avevo avuto l’intenzione e la letteratura non rientrava per nulla nei miei progetti”. E da allora sempre: “E siccome lo scrivere si era introdotto in questa maniera, io fin dall’inizio, e poi sempre di nuovo, ho scritto di mio padre”. Senza nostalgie. Anche se la scrittrice lo sa: “Le ferite, bisogna confessarselo, sono e rimangono legami, impetuosi e spietati”.
I temi sono i soliti delle sue narrative. Le ignominie del comunismo di cui non si parla. Il poeta rumeno tedesco – del Banato come Müller - Oskar Pastior. La madre buona tedesca: rinchiusa un giorno alla caserma di polizia, finisce per farne la pulizia. E il ricordo costante di sé bambina che pascola le mucche: “Anche qui”, dice a Stocolma, “come tante altre volte, io sto accanto a me stessa”. Che la decisione fece poi ferma di andarsene in città, e il distacco definitivo: “Il villaggio mi appariva sempre di più come una cassa in cui si nasce, ci si sposa, si muore. Tutta la gente nel villaggio viveva in un tempo vecchio, nasceva già vecchia. Prima o poi bisogna andarsene se si vuole diventare giovani, pensavo”.
In una prosa sempre tragica, di un’esperienza forse tragica, e quasi allucinata, anche in queste testi  (auto)celebrativi, in occasione dei tanti premi che hanno onorato la scrittrice, dal Nobel in giù, o di convegni di cui è relatrice. In dissidio col comunismo non solo, e con la Romania, la lingua rumena, ma anche con “i miei cosiddetti conterranei del Banato”, la “minoranza tedesca” che “nel 1960 e nel 1970, e fin negli ani successivi” continuava a cantarsi gli inni nazisti. E con la stessa Germania dell’accoglienza, fredda. Nonché con la letteratura.
Da qui la sua prosa impegnativa, molto “scritta”. Non anomala nella Germania del Novecento ma insistita, una cifra indelebile. Cercata a volte nel vocabolario, ma scolpita per sintagmi: una narrazione di parole. Qui il fazzoletto (una sorta di copertina di Linus), la neve (tradimento), il vitellino neonato (idem), il nonno che non muore per quindici anni, il camion (“un corpo tanto grande e un cuore tanto piccolo”), la fame negli occhi.
Qui, oltre che distanziarsene, recupera infine il rumeno, forse pacificata: in un saggio che magnifica Maria Tănase, giovane vecchia cantante di talento musicale naturale, finisce anzi per comparare il linguaggio rumeno favorevolmente contro il tedesco, funzionale e brusco questo, immaginativo e creativo quello. Con la citazione di molta poesia – che si legge piacevolmente nella traduzione abilissima di Margherita Carbonaro. Nell’ignominia del comunismo manca però, con Pastior, di cui ha fatto il romanzo, “L’altalena del respiro”, il dramma vero. Nel 1945 ottantamila giovani tedeschi rumeni del Banato furono deportati per ordine sovietico, in ritorsione per la guerra nazista, in Ucraina, nella zona carbonifera del Donbass, oggi semiannessa dalla Russia, per cinque anni, tra gli stenti e il gelo. Tra essi il diciassettenne Pastior e la ventenne futura madre della scrittrice. Con Pastior, perseguitato in Romania come poeta tedesco, per di più omosessuale, e ritrovato in Germania dopo l’emigrazione semiforzata, Herta Müller scrisse la storia romanzata di quella deportazione. Poi, nel 2010, dopo la morte del poeta, viene a sapere che era un IM anche lui come tanti altri scrittori, Inoffizieller Mitarbeiter, un “collaboratore informale” della polizia politica di Ceausescu, di fatto non tanto  informale, avendo un nome in codice, “Stein Otto”. Ma su questo non ha parole.
Herta Müller, La paura non può dormire, Feltrinelli, pp. 175 € 16

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