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venerdì 14 aprile 2017

Il mondo com'è (301)

astolfo

Alimentare – Alberto Savinio trovava la cucina il segno distintivo della civiltà italiana già settant’anni fa, quando redigeva la “Nuova Enciclopedia”, ben prima del boom culinario e stellato che ingombra i media da qualche anno: “L’alimentazione da noi è diventata forma di civiltà”, per la preparazione, la “pulitezza”, il “decoro”, e per “l’onestà con cui le varie derrate alimentari sono presentate nei nostri mercati e nei nostri negozi di alimentazione”.

Germania-Italia – Una partita interminabile. A calcio e nell’opinione. La Germania è il paese europeo con il quale la storia dell’Italia si è più legata. Più, per molti aspetti, che con la Francia o la Spagna. Più proficuamente. Inutile fare il confronto con la Spagna, Manzoni non ha sbagliato il tiro. Mentre della Francia, tolti i Normanni, che poi non erano francesi-francesi, l’esperienza è stata terribile: col terribile Carlo d’Angiò, quello di Corradino, che fece decapitare in piazza Mercato a Napoli, poi di Manfredi, e infine dei Vespri Siciliani, quindi poi con Carlo VIII, e infine coi due Napoleoni, più cattivi che buoni.
Nessun italiano ha mai fatto guerra alla Germania, o l’ha occupata. Nemmeno a voler considerare l’Italia l’erede di Roma. Al tempo dell’impero, non più dopo il tradimento di Arminio. Mentre varie – ordinarie - sono state le “discese” sul campo dell’Italia, armate e non in dribbling.
Ciò malgrado, malgrado cioè la Germania, la storia è questa. L’impero romano finì in Germania, dopo le distruzioni barbariche. I Longobardi furono i migliori dei peggiori. Carlo Magno e gli Ottoni furono provvidi. Lo stesso predatore Barbarossa avrebbe potuto esserlo. L’unità d’Italia modellò quella tedesca, che ancora non aveva un progetto, indirizzandola contro l’Austria-Ungheria e contro i principati. L’alleanza con la Prussia del 1866 portò le Venezie. La guerra franco-tedesca del 1870 liberò Roma – che non è cosa da poco come sembra: senza la vittoria della Germania, la Francia avrebbe continuato a occupare Roma in difesa del papa, e l’Italia si sarebbe fermata alle porte di Roma, che sembra inconcepibile.

Garibaldi, e anche Mazzini, furono per generazioni gli idoli dei sinceri democratici. Garibaldi era, in Italia e più a Londra, a Parigi, in Svizzera, in Germania (e in Germania per il cancelliere di ferro Bismarck), “l’eroe rivoluzionario europeo”. Ancora a fine Ottocento, nell’“Interpretazione dei sogni”, Freud per dare un’immagine affettuosa del padre morente, l’unica che gli concede in tutti i suoi ricordi, dice che “assomigliava tanto a Garibaldi”. Anche Cavour fu a lungo popolare, seppure presso un altro pubblico, specializzato.
Engels, nel tardo “Ludwig Feuerbach e la fine della filosofia tedesca classica”, del 1886, descrivendo le diverse vie attraverso le quali le borghesie nazionali si erano affermate in Europa, attesterà che l’Italia era singolarmente portata ad esempio a Berlino: per un buon decennio, fino a Sadowa nel 1866, al crollo dell’impero austriaco, si incitava la corte a prendere esempio dalla Realpolitik del conte di Cavour e dell’Italia dopo il ’48 e nel 1959-60. Gian Enrico Rusconi dà più riscontri di questo fascino nel recente “Cavour e Bismarck”. Il vecchio rivoluzionario Ludwig August von Rochau, autore nel 1853 dei seminali “Grundsätze der Realpolitik”, i fondamenti della Realpolitik,  che inventarono la categoria, è un ammiratore di Cavour e dell’“esempio della Sardegna”, della sua “grande originale operazione nazionale”. Dopo la scommessa riuscita della guerra di Crimea (1853-1856) Max Duncker, lo storico della Prussia, scriveva al coautore, e storico famoso della Guerra dei trent’anni, Johann Gustav Droysen: “Come andrebbero diversamente le cose in Germania se i nostri amici politici berlinesi potessero essere rimpiazzati da Cavour e d’Azeglio! Ma verranno anche i nostri tempi”.
Lo stesso Bismarck fu affascinato dagli eventi del 1860, che visse da inviato prussiano alla corte di Pietroburgo. L’opinione pubblica era per l’Austria, ma il futuro cancelliere era apertamente ostile e per questo vicino all’Italia. A dicembre lo dichiarò anche pubblicamente: “Per la Prussia è bene che si formi uno Stato italiano». E dopo l’unificazione, in una lettera al suo ministro degli Esteri, Albrecht von Bernstorff, ribadiva: “Avremmo dovuto inventare noi il regno d’Italia, se non fosse già nato per conto suo”. 

Italia – È l’erede dello Stato pontifico più che del Piemonte di Cavour? O allora del Piemonte sabaudo e non di quello cavouriano di cui si pregia. Lo Stato italiano, questo Stato quello della Repubblica che fa ormai metà della storia dell’Italia.

Roma – È capitale suo malgrado? Non fece nulla per diventarlo, anche se ci voleva poco. E non perché preferisse lo Stato pontificio, per rassegnazione o indifferenza. Nel 1859 Edmond About, ospite a Roma dell’Accademia di Francia a Villa Medici, lo nota per prima cosa, avviando quello che sarà il libro di viaggi “Roma contemporanea”: “Nessun popolo è meno capace d guidarsi da sé. Fecero la Repubblica, ma accettarono contenti il ritorno del papa e il vecchio ordine”. Vivono in pace coi nostri soldati, il cronista francese si meraviglia dell’occupazione, ormai da dieci anni, “non celebreranno mai dei Vespri Siciliani”. E sarà vero per altri dieci anni: Roma non fece nulla per unirsi all’Italia.

Settantasette – Si celebra, lo celebrano le istituzioni, la Rai e l’Istituto Luce, come “L’assalto al cielo”, mentre fu un’esperienza del più bieco sovietismo, l’ultimo sussulto al di qua della cortina di ferro, di violenze di ogni tipo. Dal sindacalismo intrattabile, all’antiparlamentarismo – è a quegli ani rimonta l’impossibilità di fare le leggi e lo svuotamento del Parlamento. Al terrorismo. Da cui invano il Pci prendeva le distanze, tutti sapevano, e i berlingueriani per primi, da dove veniva quella violenza. Con un effetto distruttivo. Caratteristico anche se involontario: di gettare fango su tuta la storia del comunismo, che non è da buttare. È il colpo di coda del vecchio che avanza, che si è impossessato dell’Italia e non la molla: dell’oltranzismo e della superficialità. Finiti il buon governo e la buona amministrazione.
Si celebra il Setantasette anche per infangare il Sessantotto. Che invece fu un movimento di civiltà e di libertà, dall’abbigliamento al diritto di famiglia e alla pedagogia. Che i “genitori” del Settantasette hanno tentato di monopolizzare già dal 1969. Ma già nello squallore – lo stesso “autunno caldo”, visto retrospettivamente, in prospettiva storica, era già un attacco al lavoro e a lavoratori. Da parte del gruppo dirigente della Cgil e non solo – il punto unico di contingenza per tutti, in cambio di rinnovi contrattuali ai minimi, di 10-20 mila lire mensili, 10 euro. Con l’effetto, immediato, di un’inflazione a due cifre, pagata dai lavoratori.

astolfo@antiit.eu

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