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sabato 24 agosto 2019

Letture - 394

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Albinati – Su “La Lettura” confessa l’autore de “La scuola cattolica”, pagine 1.294: “La traduzione inglese del mio romanzo mi ha indotto a ricominciarlo. A pagina 600 volevo mollarlo, poi ho provato orgoglio”. È il parere, curiosamente, pubblicato lo stesso giorno, del critico del “New Yorker” Paul Elie, che recensisce la traduzione: “Il romanzo gratuitamente lungo di Edoardo Albinati ….”. Elie ne fa peraltro un test di genere, così cominciando la critica: “Un lunghissimo romanzo come quello di Edoardo Albinati ci complica il senso di cosa sia un romanzo. Oltre mille pagine, qualcosa come un milione di parole: un romanzo così fa sembrare “Ulisse” poca cosa” – Elie non è ben disposto e continua con le contestazioni, tra le quali una spesso dimenticata: “Il romanzo lunghissimo è ancora più gratuito in italiano che in inglese” - la nota tesi di Jumpha Lahiri (e di Calvino) che l’italiano ha adottato l’arte del racconto (“no Cervantes, no Richardson or Fielding, no Dumas or Hugo”.

Mitteleuropa – Una nostalgia controversa, almeno fra trentini e triestini. Quinto Antonelli, “I dimenticati della Grande Guerra”, che al Museo storico del Trentino tiene l’archivio della scrittura popolare, sa di che si trattava: c’era l’istruzione obbligatoria ma nel Trentino dominava la pellagra, e l’età meda era di 33 anni. In Galizia, area non piccola, c’erano solo ignoranza e miseria. Ognuno aveva diritto ai documenti nella sua lingua, ma la lingua era un ghetto: comandavano austriaci e ungheresi. E comandavano duro. C’era la censura politica. C’era il clericalismo. C’era un razzismo pronunciato, specie nell’esercito, contro gli italianofoni, e anche contro i boemi e gli sloveni.
Paolo Rumiz, che in “Come cavali che dormono in piedi”, soccombe anch’egli al mito, ne ha una nostalgia anch’essa ambivalente. C’erano i grandi treni, per Vienna, per Budapest, che adesso non ci sono più – non sono grandi capitali, non attraggono traffico. Ma sa che era un mondo diviso, e gerarchico. Viaggiando col “berretto di foggia militare austriaca, buono per la pioggia”, sa “che non è facile da portare. In patria già mi guardano come un «austriacante» anti-italiano. In Francia mi prenderebbero per un filotedesco e in Germania per un italiano originale. In Ucraina rischierò di essere preso per un nazionalista antirusso, una testa calda pronta a menar le mani, e in Serbia, se ci andrò, potrei anche diventare un nazista e sollecitare reazioni «partigiane»”. A Divača (Divaccia), “la porta dell’Europa”, dove è salito commosso per prendere il treno da Capodistria, “non c’è niente e nessuno”.

Randaccio - È nome non raro – Livia Randaccio è giornalista, Roberto Randaccio pittore, etc. È anche il nome di un “pittore italiano” di uno dei racconti di Miss Marple di Agatha Christie. Che potrebbe averlo mediato da D’Annunzio: “Gabriele D’Annunzio porge omaggio alla salma dell’eroico Maggiore Randaccio” è la copertina della “Domenica del Corriere dell’1 giugno 1917. Giovane irrendetista, morto in guerra con l’esercito italiano. Per Rumiz, “Come cavalli che dormono in piedi”, è “uno che D’Annunzio manda a morire per tesserci su un elzeviro”.

Scrivere – È solitudine, e follia per Marguerite Duras, “Scrivere”. Che si rifà a Blanchot: “Ha la follia che gira attorno a lui. La follia che è anche la morte” – mentre Bataille “ne è al riparo” (“perché Bataille era al riparo del pensiero libero, folle? Non saprei”).

Ungheria – Terra di poeti, morti. Si direbbe leggendo Gianni Toti, il saggio che premette a Miklós Radnóti. “Ero fiore sono diventato radice”. Morti prematuramente, cioè, spesso di morte violenta. Lo stesso Radnóti è morto a 35 anni, fucilato nella ritirata del settembre 1944 dai tedeschi per i quali faceva il lavoro forzato in un lager. “Una fine tragica è sorte comune a molti poeti, scrittori e artisti ungheresi”, premette Toti. Attila József è morto suicida, a 32 anni. “Il primo martire intellettuale, l’italiano San Gherardo, vescovo di Csanad, diffusore della prima poesia ungherese, fu trucidato dai pagani ungheresi. Il poeta umanista Janus Pannonius morì fuggendo davanti ai mercenari di Mattia Corvino. Balint Balassi, il primo grande poeta in lingua nazionale, morì da soldato sotto le mura di Esztergom alla fine del Cinquecento”. E così via: Miklós Zrinyi nel Seicento. “Nel Settecento il poeta giacobino Lázlo Szentjóby Szabó morì in carcere”, mentre altri, Ferenc Kazinczy e Jànos Batsány, furono carcerati, nello Spielberg e a Kufstein. “Il poeta nazionale Sándor Petófi morì sul campo di battaglia trafitto dalla lancia di un cosacco; il grande prosatore riformatore István Széchenyi si suicidò nel 1860 in un manicomio austriaco”. Morirono giovani nel secondo Ottocento “il primo scrittore populista, il contadino Mihály Tácsics”, di fame, e di malattia o suicidio Gyula Reviczky, Jenó Komjathy, Endre Ady, Árpad Tóth, Gyula Juhász, Attila József, Arthur Elek. Della seconda guerra mondiale furono vittime Miklós Randnóti, e “un’intera generazione di poeti e scrittori ungheresi, da György Bálint ad Antal Szerb, da Gábor Halázs a György Saközy”.

Yiddish - È nato come lingua delle comunità ebraiche centro-orientali, è divenuto la lingua degli ebrei orientali, dell’aallora Galizia e Lodomiria, capitale Leopoli, oggi Polonia e Ucraina, e della Russia. Una lingua tedesca, il segno più tangibile dell’integrazione delle stesse comunità nella nazione germanica. Nel “Viaggio in Polonia”, che effettuò nel 1925, come inchiesta giornalistica tra gli ebrei polacchi, una comunità da cui lui stesso era originario, Alfred Döblin rimarca in più punti l’attaccamento allo yiddish. A Lublino racconta di una rivolta di piazza quando il governo della ricostituita Polonia, dopo due secoli di dominio tedesco-russo, chiede che almeno il presidente della comunità ebraica parli il polacco: gli ebrei ortodossi rivendicarono il diritto di parlare soltanto yiddish, cioè tedesco, e per questo interruppero i rapporti con i rappresentanti del governo di Varsavia, come se fossero una comunità allogena.
“Viaggio in Polonia” è, più che un reportage sul nuovo Stato, un viaggio di studio sugli ebrei in Polonia, che non piacque. È il libro di un medico, rivoluzionario, scrittore pienamente e solidamente tedesco. Dell’ebraismo polacco solo apprezza le comunità chassidiche, come una sorta di anticipazione della società rivoluzionaria.


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