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mercoledì 16 gennaio 2019

Il populismo viene da sinistra


Professato da destra, il populismo viene da sinistra. Nel sostrato politico e anche in event recenti. Mélenchon, leader della sinistra in Francia, è populista dichiarato. Era populista all’origine e per lungo tempo il movimento di Tsipras, che si volle importare anche in Italia, con la lista di Barbara Spinelli e Curzio Maltese. Specie nella fase Varoufakis – che in Italia continua ad avere audience.
La sistemazione politica è confusa perché il populismo non ha padri, curiosamente, benché sia la novità più diffusa, e temuta, in Europa e in Nord America. Dell’America latina è ritenuta la costituzione materiale, senza meno. Al punto da non menzionarla nemmeno, è scontata: la politica vi è ritenuta, e peraltro praticata, come un susseguirsi di soprassalti, da parte di questo o quel popolo, parte di popolo.
Si può dire un sentimento politico,  non un’ideologia. Secondo ricerche di sociopolitica avallate da Yascha Mounk, giovane scienziato politico tedesco-americano, in”The People vs. Democracy”, è il trend politico dominante, specie tra i più giovani, in mezza Europa (Gran Bretagna, Italia, Germania, Spagna, Norvegia, Polonia, Romani, Slovenia) - in America invece solo negli Usa, in Cile e in Uruguay. Mounk è contestato in America per quanto concerne gli Usa: alle presidenziali del 2016 molti più giovani hanno partecipato al voto, specie nelle primarie, che in ogni altra elezione in precedenza – è l’“effetto Sanders”, la sfida di Sanders a Hillary Clinton. Ma la vittoria di Trump, un outsider con molti handicap, dà ragione a Mounk, è la vittoria del populismo.
Un sentimento politico crescente, anche se non dominante, che però non si definisce, nonché non collocarsi politicamente tra conservazione e progresso. Non ci sono partiti o movimenti politici dichiaratamente populisti. Non c’è un linguaggio populista, un programma elettorale populista (niente per esempio di comparabile alla piattaforma politica populista negli Usa tra Otto e Novecento, molto robusta e definita), una internazionale populista, al parlamento di Bruxelles o altrove, una intellettualità, editoria, pubblicistica, populista. E non per un disegno di occultamento, dato che non si parla e non si discute di altro – e i più verbosi sono i populisti dichiarati, da Trump a Salvini. Non c’è un background culturale per l’indefinitezza del concetto e dei suoi contenuti.
Ma storicamente ha una sua fisionomia. Dei quattro ingredienti del neo populismo euro-americano, tre sono almeno di sinistra: la vittimizzazione rispetto ala globalizzazione, al deprezzamento del fattore lavoro sotto l’assalto delle economie di massa asiatiche, in proprio e per conto delle multinazionali, con la delocalizzazione e l’esternalizzazione delle produzioni, per la concorrenza imbattibile sul fattore lavoro; la critica della finanziarizzazione, alla quale la politica occidentale è sottomessa; le caste e la corruzione. Il quarto ingrediente, la vittimizzazione rispetto all’immigrazione africana e alla crescita dell’islam, può basarsi su un pregiudizio razzista, e quindi è ambivalente.
Il populismo non ha una dottrina (cultura) specifica. È una reazione, all’inefficienza di quella che oggi, con Thorstein Veblen si chiama la classe dirigente (la “classe agiata”), le élites di Gaetano Mosca a fine Ottocento. Ma era così già ai tempi dei Ciompi, e poi di Savonarola. È così nella storia. È anche lapalissiano: quando le cose non funzionano c’è una rivolta.
Storicamente la rivolta populista viene da sinistra: è la delusione a sinistra. È di questo tipo il successo relativo di Sanders contro Hillary Clinton nelle primarie Democratiche del 2016 – al punto da prospettare in America il socialismo, finora escluso dalla cultura Usa . Era la delusione anche di Mussolini e del fascismo sansepolcrista. Ora risorge sul mito della democrazia diretta, anche questo progressista – uno è uno. Che fa aggio sulla democrazia rappresentativa, che si dice formale e di fatto illiberale. Nonché sulla meritocrazia, presto rigettata in quanto elitista e quindi conservatrice. A favore delle “masse”, altro residuo della demagogia populista di sinistra – anche della destra, ma più a lungo re più recente della sinistra. Sul fondamento di Rousseau, cui il movimento di Casaleggio si richiama esplicito, sul fondamento del “Contratto sociale”: “Nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti non è più libero, anzi non esiste più”. E il popolo è tutto: “Ogni legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge”. E “i deputati del popolo” non sono i suoi “rappresentanti”, non possono decidere nulla in sua vece – “non possono concludere nulla in modo definitivo”. Sono al più i suoi “commissari”.  
(continua)

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