Cerca nel blog

venerdì 21 ottobre 2022

Thomas More santificato da Shakespeare

Il caso di Thomas More, lo sceriffo di Londra assurto a cancelliere (primo ministro) del capriccioso  Enrico VIII, rispettato a corte e in tutta Europa, celebre inventore di “Utopia”, amico da sempre di Erasmo di Rotterdam, fatto decapitare dallo stesso re perché si opponeva al divorzio e al successivo matrimonio con Anna Bolena, “una condanna che sconcertò  il mondo” (Nadia Fusini – cioè l’Europa, occidentale), visto dalla parte della vittima – ora santo della chiesa. Un dramma a più mani, Anthony Munday, ideatore, Henry Chettle, Thomas Dekker, Thomas Heywood, e da ultimo Shakespeare, di fine Cinquecento-primi Seicento, regnante Elisabetta, la figlia di Enrico VIII. More ne esce “affabile, geniale, divertente, oltre che fine studioso e umile servitore dello stato” (Nadia Fusini). Segno di grande libertà di espressione, malgrado i sospetti perduranti di “papismo” tra i cattolici, o le posizioni in qualche modo assimilabili a quelle dei cattolici.

Il dramma non andò mai in scena. Per le ripetute richieste di modifiche del Master of the Revels, il maestro delle feste, di fatto il censore, documentate nel manoscritto superstite dell’opera, e poi per il fallimento della compagnia che lo aveva in repertorio. Le censure sono singolarmente senza cattiveria: vertono non tanto sulla persona di Thomas Moore, sull’apologia che il dramma ne fa, quanto sul suo ruolo nel primo atto, di pacificatore, in qualità di sceriffo, della rivolta popolare londinese detta “Malo Calendimaggio”,  Ill May-Day”, del 1517, contro gli stranieri. Un migliaio di persone, folla allora considerevole, protestò contro gli stranieri, gli immigrati diremmo oggi, saccheggiandone fondaci e abitazioni. More domò la rivolta parlando, così vuole il dramma (in realtà tredici rivoltosi furono impiccati, e 400 processati, poi perdonati): ascoltando i rivoltosi, spiegando loro le ragioni morali e di convenienza di non assaltare i negozi e le abitazioni degli stranieri. Solo l’anno prima aveva pubblicato, in latino, dopo lunga riflessione, la sua celebre “Utopia”. Il metodo More piaceva naturalmente al censore, ma la rivolta del 1517 lo turbava, avrebbe preferito che non se ne parlasse. Era meglio, a suo parere, non farla rivivere: ogni rivolta è contro l’autorità – la corte, il re, il regno.

Il dramma segue Thomas More dall’Ill May-Day all’ascesa al potere, alla disgrazia, con rispetto sempre della persona, anzi con ammirazione: un’agiografia. Oggetto di molta filologia (anche in Italia, con una prima traduzione che questa edizione apprezza molto, nel 1981, a opera degli anglisti  Vittorio Gabrieli e Giorgio Melchiori), è stato scarsamente rappresentato.

La lettura è piana. Sorprendente appunto in quanto rivaluta il cancelliere decapitato, saggio qui in tutte le occasioni, a corte come in famiglia, anche nella disgrazia finale, chiuso nella Torre, come già nella rivolta del Calendimaggio. È una dramma storico. Sorprendente in questa edizione più per il paratesto, delle curarici e traduttrici Nadia Fusini e Iolanda Plescia.

L’introduzione di Nadia Fusini, che intitola il suo saggio “Il puro folle”, di Thomas More che incarna il “puro folle” di Erasmo (una sottolineatura che egli stesso fa in una lettera familiare, ricordando che il suo nome in greco, moros, significa folle), fa emergere la storia sorprendente della rivolta contro gli stranieri, per gli stessi motivi che oggi si agitano contro gli immigrati: hanno abitudini strane, anche nel mangiare, rubano il lavoro, violentano le donne. Spiega i tortuosi procedimenti del Master of the Revels, del censore – che si ritiene anche autore, comunque partecipe del business teatrale, che non è opera d’autore isolato quanto industria,  commercio culturale. A un certo punto consiglia – il censore qui sempre “consiglia” – di dire gli stranieri del 1517 “tutti lombardi”, evitando di dirli cioè “lombardi e francesi”, perché ora la politica regale è di avvicinamento alla Francia. Tutte sottigliezze di questo genere, mentre resta indiscussa l’apologia di Thomas More.

Fusini dà un’identità agli autori. Munday, “il miglior plotter” dell’epoca, ideatore di trame, a cui altri autori si rivolgevano per avere un intreccio su cui lavorare, era un mangiacattolici. Fusini lo dice ”un elisabettiano a Roma”, tratteggiandolo personaggio da romanzo: “”Londinese nato nel 1560”, con More morto da venticinque anni, a scuola “sotto la direzione di un ugonotto francese rifugiato a Londra, aveva compiuto un viaggio a Roma con Thomas Nowell, di simpatie cattoliche, soggiornando presso il cattolico English College nella capitale, per poi tornare in Inghilterra e scriverne una satira feroce, The English Roman Life, nel 1582. E sempre lui diventerà una spia del governo inglese e  renderà testimonianza contro il gesuita Edmund Campion, scrivendo una serie di pamphlet contro i martiri cattolici”. Resta la curiosità: scrisse la trama di “Sir Thomas More” su richiesta di un autore papista, magari solo in petto? In altri tempi si sarebbe detto di sì, anzi si sarebbe detto che il papista nascosto era Shakespeare, ma gli studiosi di Shakespeare da qualche tempo sono cauti – è perfino finito il gioco “Shakespeare era un altro”.

La parte di Shakespeare è stata identificata nell’argomentazione di More ai rivoltosi dell’ll MayDay, la scena 6, 155 versi su 265 – aggiunta al copione in appendice, l’app. 2. Che rimanda Iolanda Plescia a Lampedusa, agli sbarchi oggi: “Imagine, dice More: «Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati,\ coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli,\ che arrancano verso le coste e i porti per imbarcarsi…»”. Più altri 21 versi alla scena 8, sulla verità del potere. Una riflessione, nota Plescia, analoga a quella di Ulisse in “Troilo e Cressida”, cui Shakespeare si applicava nello stesso arco di tempo. Al discorso di Ulisse che anticipa Hobbes, sul “lupo universale”, il potere che finisce per divorare se stesso, avendo divorato ogni preda possibile - o non rinvia piuttosto alle argomentazioni oratorie di Antonio nel “Giulio Cesare”, dove anche c’è da venire a capo di una sommossa popolare? Un’argomentazione tutta secentesca, del disordine che chiama disordine: “Secondo questo metodo\ nessuno di voi arriverà alla vecchiaia:\ altri furfanti, in balia delle loro fantasie,\ con quello stesso pugno, le medesime ragioni, lo stesso diritto,\ come squali vi attaccheranno, e gli uomini come pesci famelici\ si ciberanno gli uni degli altri”.

Un histyory play, spiega Fusini, “un «dramma storico», un genere essenzialmente elisabettiano”. Che la studiosa fa derivare da Boccaccio, dalla “tradizione del De casibus virorum illustrium”, di cui girava una libera traduzione di John Lydgate dal titolo “The Fall of Princes” – libera in quanto tradotta da una traduzione francese. Iolanda Plescia spiega la preziosità del testo in quanto è “uno dei pochi drammi” elisabettiani “che ci sia giunto in forma manoscritta”.

Un’edizione in inglese e in traduzione, con molte note di contesto, una nota al testo, di come si presenta nel manoscritto, e da che mani è redatto, una nota bibliografica del dramma, dettagliata, comprese le rappresentazioni, una bibliografia essenziale altrettanto dettagliata degli studi ultimi su Shakespeare, e dei cenni biografici. Brevi questi ultimi, ma abbastanza per far capire che Shakespeare è Shakespeare, non uno del centinaio di altre impersonificazioni che se ne sono fatte.

L’unica rappresentazione italiana, a Verona nel 1994, ha avuto Raf Vallone nel ruolo. 

William Shakespeare, et al., Sir Thomas More, Feltrinelli, pp.319 € 12

Nessun commento: