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domenica 16 ottobre 2022

Una vita in attesa, della morte assistita

Una vita scandita nell’arco di quattro generazioni – qual è l’aspettativa di vita. Il primo amore che che si ricorda tutta la vita - con i genitori in baruffa continua, è la loro forma di intesa. L’uscita di casa, con la sorella che si annega e il fratello che dà in escandescenza al chiuso in aereo – i genitori sempre in baruffa. La maturità, fra lo studio da oculista, la bambina a scuola, la moglie isterica che per gelosia se la fa con chi capita, la separazione, e il padre condotto a “morte assistita”, cioè indotta. Una breve vecchiaia, con la figlia che muore in una scalata in montagna, dopo aver partorito una bambina generata con uno sconosciuto africano, la vita con la nipote, le notti al circolo, e una rapida morte,  anche questa indotta, con tutti gli amici e parenti che vengono ad assisterlo, nella “casa di famiglia”, al mare in Sardegna. Il tutto accompagnato da ritorni in parallelo al primo amore.
Un soggetto a cinque mani, che dal romanzo di Veronesi mutua il titolo e poco più. Un montaggio affastellato, a tratti perfino incomprensibile. Solo raccordata da un ruolo improbabile di Nanni Moretti (già protagonista di un altro fallimento tratto da un romanzo di Veronesi, “Caos calmo”) , psicoterapeuta-psicopompo. Forse un film di produttori, con troppi primi ruoli, Favino, Moretti, Smutniak, Béjo, Ceccherini  e altri. E molto promozionato, ai festival di Toronto e Roma fuori concorso, e il giorno dopo in tutti i cinema. Ma i pezzi di bravura degli interpreti, raccordati da un Favino sempre più camaleontico (la sua versatilità è stupefacente, in questo film dà faccia a quattro o cinque persone diverse nello stesso personaggio), non bastano.
Sarebbe la storia di un uomo che come tutti fa il colibrì, sempre in moto per stare fermo. Colibrì è però anche “l’uomo nuovo” in giapponese, viene spiegato. E allora sarà un manifesto in favore della morte indotta. Alla maniera flebile come viene assunta da certa borghesia intellettuale – un film lungo due ore in cui incredibilmente non ci sono altri che borghesi abbienti, nemmeno un tassista, un cameriere. Una corsa mesta verso la morte, senza nemmeno il riso sardonico – quello accertato da Vladimir Propp, “Teoria e storia del folklore”: “Tra l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”. 
Il tema è semplice ma non politico, di leggi, di anime in pena. È frequentato dagli utopisti, p. es. da Thomas More, un santo, quando il dolore è insopportabile, e dalle persone semplici  nel loro privato. Ma è melenso, prima che malinconico, eretto a bandiera di chissà quale progresso.
Francesca Archibugi, Il colibrì

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