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giovedì 10 ottobre 2019

La sbronza di Finnegan – o il racconto di Lucia

Una follia, il testo, e la traduzione. Che ora si porta a termine, per gli ottant’anni della prima pubblicazione dell’originale. E a quasi quaranta dall’avvio, “all’inizio degli anni Ottanta”. A cura di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, al quale si deve una corposa introduzione. E di una lnghissima serie di referenti, compreso il presidente dell’Irlanda, il laburista poeta Michael D. Higgins.
Si dice “Finnegans” l’impossibilità della traduzione. E invece è il paradiso del traduttore, che deve senza più trucchi solo riscrivere il testo, reinventarlo. Magari dotandolo di glosse golose, come in questa edizione: quest’ultimo volume ha quattrocento pagine di varia filologia per 150 di testo. Un racconto dei traduttori, Luigi Schenoni fino al 2008, alla morte, per I libri I e II, poi Terrinoni e Pedone. Un racconto doppio, l’originale tradotto, e il racconto della traduzione. Una traduzione che soverchia l’originale -  necessariamente poiché è illeggibile, in nulla fruibile - la fantasia e gli umori sovraccaricando di filologia.
Come Joyce lo intendeva è stato già detto:
La concisa premessa di Bartezzaghi, “La Bella Addormentata nel Chaosmos”, dice anche tutto. Apparentando il “finneganese” alla lingua del Johan Padan di Dario Fo, un miscuglio di idiomi diversi – diverso dal grammelot, l’imitazione delle sonorità di una lingua che non si conosce. Il joyciano Nabokov disprezzava “Finnegans”: “Letteratura regionale, scritta in dialetto”. Che invece, da cultore in proprio dei giochi linguistici, avrebbe dovuto apprezzare.  “Finnegans Wake” è una parodia, spiega lo specialista dei giochi, ma di tipo particolare. Non beffarda, o non soltanto: “Non riguarda solo la ballata folk” su cui s’innesta, “La veglia di Finnegan”, “investe temi mitologici, storici, filosofici, antropologici”. Vasto disegno.
Si può dire “Finnegans” il Genesi e la Bibbia di un Joyce profeta ghignante. Il progetto c’è, ovvio: una storia universale, tra Vico e Mark Twain, le parole composte. Modellata su Vico, riferimento costante in Joyce: “Io non credo in nessuna scienza, ma quando leggo Vico la mia immaginazione fiorisce come non fa quando leggo Freud o Jung” – l“Old Vico Roundpoint”, la rotatoria Vico, l’ “Ordovico or viricordo”. La storia di una caduta – della Caduta, in continuo.
Una storia di cui però non si viene a capo. Nemmeno sotto l’aspetto del piacere linguistico, infantile, di lallazione, tra filastrocche e calembour. La traccia è minima. Un abbozzo, continuamente “estraniato” (ribaltato, denunciato), di epopea o leggenda irlandese, di cui una prima traccia è nei dieci racconti brevi raccolti nel 1923 sotto il titolo “Finn’s Hotel”. Una parodia – nel frammento la parodia si dichiara e non si dissimula. Che mette in burla, nel gioco di parole incontenibile, la storia patria, dopo la capitale Dublino nell’“Ulisse” - “il passato, il presente, l’assente e il futuro”, come in “Finn’s Hotel” si progetta.
Alla fine si conviene con Giorgio Melchiori, che benediceva l’avvio della traduzione nel 1982 con un “La banalità diviene memorabile” – ma l’inverso è più vero. Un testo che un suono più che una prosa, forse articolato ma senza prosodia, un rumore. Una scrittura sonora, e un suono inordinato. Della “scrittura” (sonorità) che una volta si diceva “in automatico”, o del “flusso”, perfino “di coscienza”. Un praticante di lingue che tutte storpia, anche la sua. Di sonorità più che di sensi o significati. Come si figura una conversazione fra sbronzi.
La chiave tecnica potrebbe essere Lucia. Lucia Joyce era psicotica, col padre James, amorevole, parlavano una lingua significante ma chiusa a loro due. La tematica è di un racconto zuzzurellone sulla morte. Per il senso della morte peculiare di Joyce, della ballata popolare di metà Ottocento dalla quale deriva il titolo, del suo celebre racconto “The Dead”, e dello stesso “Ulisse”, che ripercorre tra i vivi il “Finnegan’s Wake” della ballata popolare, la veglia e il lamento funebri. Che sono la recitazione di una vita, della vita.

Lui, Joyce,l’opera così licenziava scrivendo a Livia Svevo, la vedova, il 15 maggio 1939, in giocoso triestino: “Giovedì sarà publicado el mio libro a Londra e in Ameriga. Ze anca la festa de Santa Moniga se mi ricordo ben, al quatro. Moniga son stado mi forse (La mi scusi, siora) che go meso disdoto ani dela mia vita a finiri quel mostro de libro. Ma cossa La vol? Se nasse cussì”.
James Joyce,  Finnegans Wake, III (§§ 3 e 4), IV, Oscar, pp.687 € 24

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