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domenica 24 maggio 2020

La peste nell’anima

In un ricordo che accompagna la riedizione del “romanzo” critico di Giacomo Debenedetti, “Il romanzo del Novecento”, Mario Andreose si sofferma su un particolare non insignificante: mentre, “a metà degli anni Sessanta”, si litiga molto, “tra tradizione e innovazione”, lui “scrive”. Scrive appartato: “Trascurando i giganti dell’arte del Novecento, si sofferma su Franz Marc, un pittore animalier. Un po’ particolare: si tratta bensì di un pittore di animali, precisa Debenedetti, ma non di un ritrattista di animali”. Uno spunto che viene naturale mettere in rapporto con l’animalismo del Tozzi delle “Bestie” – Tozzi deve molto a Debenedetti, il suo “scopritore” nel secondo Novecento.
In questi racconti, per quanto numerosi, 120, di bestie ce ne sono poche: qualche gatta, cani spersi, un’asina non materna. Ma gli uomini sono altrettanto muti - dietro il dialogare fitto, che ne agevola la lettura: dicono che fa caldo e fa freddo, e si interrogano sul perché hanno gioie e dolori, nei pochi momenti in cui non si odiano, per nessun motivo, niente altro.
La raccolta riunisce in uno, con una nota di Marco Marchi i due volumi messi su da Glauco Tozzi, il figlio che ha fatto le fortune postume di Federigo, per l’edizione vallecchiana disegnata da Bob Noorda, nel 1963, già nella Bur nel 2003, a cura di Luigi Baldacci – dopo una ripresa parziale nella Biblioteca Vallecchi, dallo stesso curata, nel 1976, con una presentazione di Moravia. Lo scrittore senese fu riscoperto dal grande pubblico molto tardi, negli anni 1960. Probabilmente a causa dell’errata interpretazione delle sue opere, notava il figlio Glauco, presentate in un primo momento come veriste. Finché la lettura di Debenedetti non prevalse, negli inediti – materiale di riflessione  - pubblicati postumi nel “Romanzo del Novecento”. Una lettura poi sviluppata da Baldacci, con l’ipotesi di una scrittura di stampo psicologico, semmai di tipo simbolista, e avvicinamenti a Čechov e Joyce, a Dostoevskij e Kafka. Coronata da Mengaldo, con la notazione: “Certi suoi racconti sono superiori a quelli di Kafka”.
Una raccolta che un po’ toglie il respiro. Monocorde, monotona. Nel respiro, nel tono, nei tempi. Che le forme esageratamente localistiche dell’espressione accentuano – di isolamento, di soffocamento. Nell’impegnata prefazione all’antologia dei racconti del 1976 (non ripresa nella raccolta dei saggi, “L’uomo come fine”), Moravia lo dice “scrittore fisiologico” – che fa pari con gli animalia del pittore di Debenedetti. E senza una visione del mondo, tra personaggi marionette, per quanto individuati: tutti agiti, senza mai uno scarto, né di sensibilità e nemmeno di intelligenza. Un viluppo di umori grigi. Eccetto che per gli ultimi, pochi, racconti romani, di Maccarese (ora Fregene), d’estate, con Orio Vergani “ventenne e bello” e altri amici pazzerelloni, del Soratte, con i quattro conventi e il frate pazzo, dei lungotevere, dei ponti.
“Miseria”, “Un’osteria”, “Una sbornia”, “Contadini”, “Colleghi”, “Pigionali”, “La matta”, “La cognata”, storie di non storie, di niente. Molti pranzi in trattoria, molte stanze d’affitto. Folte di contadini, d’impiegati. Dimesse nella presentazione: storie di poco conto e nessuna sorpresa. Segnate, per programma, storie di disgrazie. Atone, non commoventi, non coinvolgenti. Un mondo piatto, senza orizzonte. Uno stallo, verrebbe da dire stallatico, putrido. Realista, indubbiamente: si vive male più che bene. Ma senza sociologia. E senza nemmeno, malgrado Debenedetti, letteratura.
Senza pietà, curiosamente, per un scrittore di fede professa, profonda. Tozzi è vittima della spagnola, a Roma, nel 1920. Ma è come se la peste avesse sempre raccontato. Delle anime. Le facce sono mostri, i corpi sinistri e flaccidi, i platani luminosi dei lungotevere a Roma “brutti e scortecciati”. Le donne non esistono, nemmeno per cucinare. L’unica umanità è l’ubriachezza. La notte di Natale, il marito si ubriaca e litiga all’osteria, la moglie partorisce e muore, col bambino, la cognata sferruzza. E nemmeno drammi, tragedie: il male come viene, gretto. Una racconto lungo, insistito, dello squallore.
Federigo Tozzi, Novelle, Bur, pp. 1008 € 20


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