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lunedì 8 febbraio 2010

Amarsi per odiarsi, il lager di Blanchot

Il titolo non tradotto da Marina Bruzzese in questa edizione presto scomparsa venticinque anni fa, e mai più ripresa, “Après coup”, è il post-fatto. È il titolo che Blanchot ha dato alla riedizione nel 1983 di due racconti del 1935-36, “L’idillio” e “L’ultima parola”. Di cui il primo si voleva che prefigurasse Auschwitz. Blanchot è imbarazzato a dire che no, e quindi teorizza l’autore fatto dai suoi scritti, con molto ingegno. È così che la postfazione, “Après coup” e “L’eterna ripetizione”, fa premio sui due racconti, che invece sono dei gioielli. È una postfazione specialmente ricca delle agudezas che ingombrano la migliore letteratura francese del secondo Novecento: “È la produzione che produce il produttore”, “È, semplificato, l’insegnamento di Hegel e anche del Talmud: il fare premia l’essere, che non si fa che facendosi”, “Dal «non ancora» al «non più», sarebbe questo il percorso di ciò che si chiama scrittore”, l’autore è Euridice, tentato di guardare la sua opera, benché la “legge” lo condanni a sparire, “se l’opera, per quanto minima, è a tal punto distruttiva che impegna l’operatore all’equivalente del suicidio”, “Ci sono le apparenze, non ci sono che le apparenze, e come fidarsi?”, et al.
I racconti sono entrambi concentrazionari. Ma d’impianto surrealista, seppure alla maniera di Kafka. Dal significato “storico” aggiornabile a varie situazioni attuali. “L’idillio” Blanchot avvicina nella postfazione all’opera successiva di Camus, in particolare allo “Straniero”, dell’esilio nel posto più civilizzato. E in effetti è l’anticipazione dell’immigrazione contemporanea, in un posto civilizzato come l’Europa. Ma sceneggia anche, aggiornato alla parità dei sessi e alla reciproca distruttiva comprensione, il vecchio tema del matrimonio come prigione: meglio la morte che la liberazione attraverso il matrimonio – “non potevano che continuare ad amarsi per continuare a odiarsi”.
“L’ultima parola” è nel titolo: un mondo che non ha più la “parola d’ordine”, una cifra, un senso, e non ha più biblioteche per ricostruire la parola, “ciò che succede quando si è troppo a lungo vissuto nei libri”. Un mondo dove, non essendoci più “parola d’ordine”, chiave di lettura, “la lettura è libera”, cioè inconcludente – mentre la letteratura è una vecchia megera. È un grande gioco linguistico del gioco linguistico di Wittgenstein, un gioco alla seconda potenza, se non è pratica talmudica: “L’ultima parola non può essere una parola, né l’assenza di parola, né altra cosa che una parola”. Perché “l’ultima parola non è già più una parola e tuttavia non è l’inizio di altro”. Anche se in italiano il gioco ha poco senso, non essendoci due parole diverse per due termini così diversi come parole e mot, e in inglese, in tedesco e in altre lingue. Una delle parole d’ordine è “fino a che”, ciceroniana.
Ma sono entrambi due racconti, ben sceneggiati, di stampo surrealista. “L’Idillio” fu subito letto e apprezzato da Bataille. “L’ultima parola” doveva uscire su “L’âge d’or”, la rivista del surrealismo, che però Henri Parisot nel 1936 chiuse provvisoriamente, essendo stato scomunicato da Breton. La scomunica politica che colpì Blanchot, con Bataille e altri, scrittori classificati di destra, ha oscurato poi a lungo la sua produzione pre-guerra.
Maurice Blanchot, L’eterna ripetizione e Après coup

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