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sabato 27 settembre 2025

L’ebraismo italiano e Israele

Si discute molto nell’ebraismo italiano sulla guerra. A leggere il giornale, ma è anche ovvio. Ma con un cambiamento che invece non viene rilevato. Non c’era molto sionismo (passione per Israele) nell’ebraismo italiano, non sicuramente in quello romano, nel 1967, al trionfo nella Guerra dei Sei Giorni – “quelli sono pazzi”. E ancora nel 1973-74, alla quasi sconfitta con l’Egitto. Israele sembrava un altro mondo. Anche Primo Levi, era molto distante da Israele.
Poi le cose sono cambiate: ci sono matrimoni misti (alleanze familiari) tra le due sponde del Mediterraneo, qualcuno nel “ghetto” ha imparato l’ebraico, molti nomi ebraici sono adottati, ci sono investimenti israeliani. L’Unione delle Comunità Ebraiche ha il miglioramento della conoscenza e dei rapporti con Israele nel suo statuto. La stessa presidente dell’Unione, Noemi Di Segni, eletta già dieci anni fa, è israelo-italiana, economista, ufficiale di complemento in congedo della intelligence israeliana.

Grosso modo il cambiamento coincide con i due lunghi, entrambi prestigiosi, rabbinati romani, i cinquant’anni di Toaff e i venticinque di Di Segni. Non tutti sono sionisti, non Liliana Segre, non Edith Bruck. Ma Israele è una corda viva nell’ebraismo italiano. L’Italia – come la Germania – ha qualche problema storico a prendere le distanze da Israele, ma nella prudenza del governo c’entra anche il rispetto verso il sentimento della comunità ebraica. L’Italia è pur sempre il paese che organizzava (p.es. da Santa Cesarea Terme nel Salento, a opera di Ada Ascarelli Sereni) gli imbarchi semiclandestini di ebrei verso la Palestina quando gli inglesi li avevano proibiti.

Altrove, soprattutto in America, l’ebraismo ha preso le distanze dal sionismo. In Italia, dove non era sionista, lo è diventato.

Blair a Gaza e il Quartetto

Blair governatore di Gaza non è solo l’ultima estemporanea di Trump. È un’idea suggerita a Londra nel recente soggiorno regale che tanto ha lusingato il presidente americano. Avanzata, perché no, dall’MI 6 britannico, il servizio segreto oltremare, giacché è fotocopia del progetto con cui lo stesso servizio vent’anni fa propose lo stesso Blair, allora primo ministro, in difficoltà politica in patria per la guerra andata male in Iraq, quale risolutore dei problemi di Gaza. Allora divisa tra Fatah (Autorità Palestinese) e Hamas: Blair avrebbe dovuto impedire a Hamas di consolidare il sopravvento preso a Gaza. Successivamente, il “Guardian” avrebbe documenato le pressioni di Blair su Fatah per “finirla con Hamas” – secondo gli indirizzi di Israele e degli Stati Uniti.
In parallelo Blair fu coinvolto nella “Road Map” disegnata dal presidente americano Bush jr. nel 2004 per portare la pace tra palestinesi e Israele. La realizzazione della Road Map fu affidata al “Quartetto”, tra Onu, Ue, Usa e Russia, che era stato costituito due anni prima, il 10 aprile 2002, a Madrid su iniziativa del premier spagnolo Aznar. Nel 2007, dovendo lasciare Downing Street, Blair fu nominato a capo del Quartetto, e della Road Map – lo stesso giorno, 27 giugno, in cui rassegnò le dimissioni da premier. Si dette un po’ da fare. Organizzò dopo un anno un incontro tra uomini d’affari palestinesi e israeliani poi saltato – troppi odii reciproci. In contemporanea annunciò un piano “per la pace e i diritti dei palestinesi”, cui nessuno prestò attenzione. Due anni dopo avere accettato l’incarico, agosto 2009, si produsse in una proposta di negoziato che vedesse la partecipazione anche di Hamas e Hezbollah, fino ad allora (e tuttora) considerate formazioni terroristiche, alla sola condizione che fossero rappresentate dai rispettivi leader religiosi. Poi niente più.
Blair ha mantenuto l’incarico di animatore del Quartetto fino al 27 maggio 2015 – quando rischiava un processo in patria per “crimini di guerra”, per la guerra all’Iraq – la Corte suprema gli eviterà nel 2019 l’incriminazione (il Quartetto esiste ancora, per cinque anni gestito da Kito De Boer, olandese, ex consulente McKinsey, dal 2020 da John N. Clarcke, un professore americano di storia).

C'era del metodo in Kirk, socratico

“Le società tendono a decadere rispetto alle radici che le hanno create. Per esempio, qui nel Regno Unito avete inventato la libertà di parola, l’avete donata al mondo, ma oggi non l’avete più: trenta persone al giorno vengono arrestate per post offensivi”. “Perché le società prosperano e poi cambiano? Perché la prosperità porta alla decadenza: non hai più binari morali, non hai più gratificazione differita…”. “Se elimini gli assoluti finisci nel relativismo morale, e il relativismo produce più sofferenza e più nichilismo”.
Come e cosa pensava il giovane attivista di destra americano ucciso da un coetaneo, mentre discuteva con gli studenti di una università dello Utah. Nel dibattito riprodotto dal quotidiano Kirk discute con un’assemblea studentesca agguerrita, antipatizzante su tutti i temi sollevati, di Cambridge. Sull’aborto. Su Trump naturalmente. Sulla guerra di Israele. Su Russia e Ucraina - entrambe hanno colpe, ma “la Russia è peggiore dell’Ucraina” (e “l’Ucraina è un paese molto corrotto, il più corrotto d’Europa. Non ha mai soddisfatto gli standard per entrare nella Nato”.
“Il metodo del confronto”, con questo occhiello “il Foglio” presenta Kirk nell’inserto dell’edizione del week-end. Uno su tutta la linea di destra, ma argomentativo, e sempre pacato - il metodo della verità, socratico.   
“Prove me wrong” – Dibattito con Charlie Kirk, “il Foglio”

venerdì 26 settembre 2025

Scoppia la Cina, d’immobili e automobili

Dopo la bolla immobiliare, la bolla automobilistica? Serpeggia da un anno circa, e ora è scoperta: crisi da sovrapproduzione. I piazzali sono sempre pieni, i prezzi gareggiano al ribasso.
Una bolla più diffusa, e pericolosa, di quella, per l’occupazione e la politica dei redditi, dei lavoratori dipendenti e dei concessionari. Ha cominciato Byd, il maggior costruttore, a ridurre i prezzi per svuotare i magazzini, e ha messo in crisi gli altri costruttori. Che reagiscono allo stesso modo di Byd, con la guerra dei prezzi, anche quelli che non hanno scorte così eccessive - e in più hanno aperto una controversia giudiziaria contro Byd, il maggior prenditore, quasi monopolistico, dei sussidi statali – alla transizione verde, all’occupazione, etc.
L’economia di Pechino, sempre “trionfante”, passa di crisi in crisi. Pagata dalle finanze pubbliche. La Cina si magnifica, con la propaganda – ma viene magnificata più di quanto si magnifichi, a leggere il “Global Times”, che pure è il giornale di partito: non nasconde le cifre e la portata della sovrapproduzione.
Di questo ingorgo però, curiosamente potrebbe fare le spese l’Europa, i costruttori europei: Byd ha già puntato decisamente sul Vecchio Continente per sgonfiare la bolla, a prezzi che nessun costruttore europeo può fronteggiare. E le altre case seguono. L’Europa e non gli Stati Uniti, dove vigila il Trump dei dazi.

Congedo parentale

Sempre più s’incontrano trenta-quarantenni, a giudicare dal fisico, la barba non curata, i capelli trasandati con cura, i tatuaggi, che, dopo aver portato il cane allo sfogo mattutino tra le 8 e le 9, portano il bambino o la bambina all’asilo. Normalmente verso le nove, un po’ in ritardo – tanto non c’è orario. Bambini di due-tre anni, quasi sempre perplessi – specie i maschietti

 Probabilmente per l’uso incongruo del carrozzino, nervoso.
Ci sono asili un po’ dappertutto. Basta un appartamento luminoso, meglio se con un giardinetto – e una laurea, breve, in Scienza dell’educazione. Ora che i megaasili con parco delle suore, di cui il quartiere era pieno, sono deserti, e quelli pubblici sono uno solo. In alternativa, si vedono gli stessi genitori, tra le 11 e le 12.30, gironzolare per il parco di quartiere. Non all’angolo giochi: lì il bambino, per quanto accudito, ci mette nulla e buttarsi dall’altra parte dello scivolo, dalla torretta, o a rovesciarsi sull’altalena, per quanto bassa e bene ancorata – lì ci sono bambinaie, mamme, sorelle, e qualche nonno. Forse perché pazienti, o rassegnati.  
Al parco questi padri, si presume, giovani procedono al cellulare. E come accigliati. Per sentire meglio ciò che viene detto, o scontenti? Hanno paura? O si aggrotta sempre la fronte quando si lavora e non ce ne accorgiamo? Anche loro, evidentemente, se non sono in congedo parentale, lavoreranno da remoto - fanno smart working.

La felicità si ritrova

Il titolo è promettente e la serie pure, parte bene. Un marito e padre protettivo e amabile è accusato d riciclaggio, con mobilitazione vasta di forze dell’ordine, e per questo si eclissa – non prima di promettersi innocente. L’accusa non offusca gli orizzonti delle donne di casa, moglie, figlia e madre. Che, perduti gli agi milanesi, si spostano in un angolo remoto di Romagna, “Marina di Romagna”, dove ricominciare una diversa vita. In realtà dove cercare e trovare le prove che scagionano il fuggiasco.
Un intreccio semplice, elementare. Ma brillante sempre, per qualche motivo vivace. Campiotti ha fatto in pochi anni su Rai 1 risultati disparati, compreso il lutulento “M.” qualche mese fa. Ma evidentemente si trova bene con i personaggi femminili, Chiara Lubitch, “la sposa”. Forse perché assecondano duttili la sceneggiatura, a beneficio degli spettatori. Qui Capotondi, la moglie ancora giovane malgrado l’età ma non scema, Mascini, Valeria Fabrizi, Valentina Ruggeri al loro meglio, caratterizzate, sempre misurate, molto espressive in variate situazioni – sospetto, rifiuto, amicizia, generosità, e anche svaporatezza. Nonché le giovani Valentina Ruggeri e Nicky Passerella, che non disdegnano di “recitare”, dare spessore al ruolo, per quanto sempre di adolescenti problematiche. Vanno sul velluto anche i (pochi) personaggi maschili, nelle tre generazioni: Omar Diagne, naturalissimo ragazzotto svogliato e beniamino delle ragazze, Franceschini, il maresciallo dei Carabinieri che sa già tutto (ha esordito una quindicina d’anni fa proprio con Campiotti) e Andrea Roncato resuscitato.
Giacomo Campiotti, La ricetta della felicità, Rai 1
 

giovedì 25 settembre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (607)

Giuseppe Leuzzi


Si sono affrettati a Santa Fiora, ad Abbadia, ad Arcidosso, i comuni dell’Amiata, ad appropriarsi la memoria di Camilleri, che ha usato per qualche 
anno villeggiarvi, con i familiari – a farsene luogo del cuore. Ad Arcidosso passava l’estate anche il messinese D’Arrigo, il tormentato riscrittore perpetuo di “Horcynus Orca”. La vacanza di montagna non può essere siciliana.

O non può essere meridionale? Anche W. Pedullà ci passava l’estate, lì vicino, in Umbria. E Corrado Alvaro, a Vallerano, dove gli hanno intitolato un apprezzato premio letterario, l’Alvaro-Bigiaretti.  
 
Il giudice Gratteri, reclutato da Urbano Cairo, l’editore del “Corriere della sera”, “la 7”, “La Gazzetta dello Sport” e un nugolo di periodici, che lo celebrano en masse, ci assicura un ventennio buono di celebrazione delle mafie. Che cosa gli ha fatto di male il Sud perché lo opprima così tanto? È una risorsa del Nord, questa narrazione del Sud. A spese del Sud. A opera di meridionali – giudici, giornalisti, Carabinieri.
 
Del giudice Gratteri si ricorda uno dei primi libri, un elenco dei mafiosi paese per paese, della provincia di Reggio Calabria. Un sacco di scemenze. Col bollo, evidente ma non dichiarato, delle “informative” dei Carabinieri. Chiacchiere, in genere vecchie, che sono “meglio di niente” - i marescialli devono pur dimostrare di lavorare. Semplice, no? Economia circolare.
 
Il giudice Gratteri probabilmente non ne ha colpa, ma da capo della Procura a Napoli ormai da due anni come mai si lascia scarcerare un’intera famiglia di camorristi acclarati, i Moccia, tre generazioni, perché la condanna non è intervenuta a tempo – secondo Instagram “la notizia più ignorata dell’estate” (è avvenuto tra luglio e agosto)? Sempre in armi, perché non si applica ogni tanto a fare condannare le mafie, quelle vere – non i suoi soliti elenchi sterminati e fantasiosi?
La madre del clan, Anna Mazza, era stata pure la prima donna a finire al 41 bis, qualche pericolosità questi Moccia ce l’avevano.
 
Sfogliando le vecchie annate dell’“Espresso”, che il calabrese Scalfari cogestiva, colpisce al quinto anno, 1959, l’inchiesta “L’Africa in casa”, del futuro direttore Livio Zanetti, di Bolzano (“il Direttore più colto”, f.to Sciascia) e del fotografo Carlo Bavagnoli, di Piacenza. Con le immagini che “scolpiranno” il Sud, e ancora lo fissano: donne in nero, sfiorite, ragazzi macilenti, contadini ingrugnati, case porcilaie. Mentre non fanno testo le stesse immagini trent’anni dopo, tra Lombardia e Veneto, de “L’albero degli zoccoli”. Che racconta fine Ottocento, certo, ma le ragazze calabresi che negli anni di Olmi sposarono triveneti fuggirono inorridite, alla fatica, al freddo, e al letame.
 
Chiede Felice Cavallaro a Salvatore “Sal” Palella, imprenditore siciliano d’America, “inventore” dei monopattini Heilbiz, che ha comprato il quotidiano di Catania, “La Sicilia”: “Affari e nostalgia della Sicilia?” “Insito nella domanda il sospetto su una Sicilia piena di insidie, mafia compresa. Lo faccio perché spero che nessuno ponga più questa domanda fra cent’anni”, la risposta.
Cavallaro insiste: “Una domanda echeggia: chi c’è dietro?” “A volte sento cadere ingiustamente su di me il peccato originale di essere nato in Sicilia”.
Bisogna giustificarsi di esistere – la conversazione si svolge sul “Corriere della sera”.
 
“A Roma ariva l’autentica cucina siciliana, firmata dal figlio del fotografo di Falcone e Borselino” – “Gambero rosso”. Una cucina d’autore – Falcone e Borsellino facevano ditta, e avevano un fotografo?
 
La capitale immorale - capitali e morale
Si scopre al risiko bancario, tra Unicredit di piazza Gae Aulenti che è straniera, e Crédit Agricole che invece è italianissima, che la “capitale morale” di Scalfari è niente. Solo un agglomerato. Di affaristi ricchi. Di generazioni di successioni ereditarie. Il risiko la scopre chiusa, impacciata, inconsistente, arresa al primo pretendente. Oppure furba, al modo antico dei “bravi” - mafiosa.
Difficile dire che Milano ha generato del buono nella storia d’Italia. Giusto le fiere commerciali, come usava già nel secolo XIImo, quello dei “lombardi” in giro per l’Europa.Tutta la tecnica, compreso il cinema e fino alla telefonia mobile, l’ha sviluppata Torino – “morta” Torino, l’Italia non inventa più nulla. Le arti, design compreso, sono di non-milanesi - Milano ne è solo il mercato. In politica, dopo Mussolini, ha impostato il terrorismo, di destra e di sinistra, a partire da piazza Fontana, i servizi servizi deviati (a partire da Valpreda e compreso qualche commissario poi santificato), la caserma Pastrengo e i golpisti, Bossi, “Mani Pulite” e la giustizia politica. Si vuole patria dell’illuminismo, in virtù di Pietro Verri, ma che lascito hanno dato, compreso il “nipotino” Manzoni?
 
Scalfari non andava più a Milano. Dai tempi di Cefis e la Montedison – o di Cefis e il “Corriere della sera”, così di sinistra (per “comprare” il Pci a Cefis). Dell’aborrita “razza padrona”. Non sopportava Camilla Cederna – l’aveva accettata perché l’aveva voluta Arrigo Benedetti, il molle lucchese patito di Milano. Aveva accettato il titolone, a piena pagina dell’“Espresso” formato “lenzuolo” – in parallelo con la successiva “Capitale corrotta, nazione infetta” - per rianimare le vendite. Uno dei tanti titoli a effetto di cui Benedetti si gloriava - come “L’Africa in casa”.
 
Calabria e Toscana, sanità e inquinamento
Succede l’estate di passare un mese in Toscana, tra Forte dei Marmi e Marina di Massa, e uno in Calabria, sull’Aspromonte tirrenico. In una rete di servizi inappuntabili, si penserebbe, e in una di sfaceli. La sanità per esempio.
L’Inps certifica che la Calabria è per la sanità la peggiore, o la quasi peggiore, d’Italia. Non dice che sono statistiche del 2019, cioè dopo dieci anni di commissariamento della sanità – a beneficio di generali e prefetti pensionati nominati pomposamente commissari per tagliare le spese. D’altra parte il “Giornale di Calabria” fa quotidianamente campagna, all’insegna di “Calabria, risvegliati!”, o “alza la testa!”, qualcosa del genere, ammucchiando casi sulla medicina pubblica che non c’è o funziona male. Il giornale è del Pd e quindi fa campagna anche elettorale, contro il governo regionale, che è di destra, in vista delle elezioni tra un paio di serrimane, ma nessuno obietta: la sanità in Calabria va male.
Se non che una caduta accidentale nel mese di Toscana ha portato al pronto soccorso all’ospedale di Massa. Con un’attesa da mezzogiorno alle sette di sera, dietro codici di amicizia, amici degli amici, parentela, conoscenza fra infortunati e personale, e solo dopo una mezza sfuriata si ottiene di passare. A ortopedia il medico vede che non c’è frattura scomposta, ordina un tutore e scompare. Un’infermiera applica il tutore, e indica l’uscita. Se non che il tempo di arrivare a casa e i dolori diventano acuti. Che fare?
L’ortopedico di fiducia da Firenze dice di prendere l’antidolorifico che l’ospedale ha dato o ordinato. Ma l’ospedale non ha dato né ordinato nessun antalgico. “Impossibile”, tuona l’ortopedico di Firenze, “vada al Forte, da Di Ciolo (storica farmacia del Forte, n.d.r.), dica a nome mio, glielo daranno”. Al Forte Di Ciolo naturalmente è chiuso, e non c’è campanello. Rapido consulto con qualche passante: “Provi alla Croce Verde, è all’inizio del Forte”. Subito, ma sono le nove e il medico è andato via: “Deve andare alla guardia medica”. “Dove”? “A Querceta”. A Querceta è facile, è dietro l’angolo, ma dov’è la guardia medica? Non si può nemmeno chiedere, le strade sono deserte – un ciclista solitario, richiesto alla voce in piazza, si dà alla fuga. Girovagando s’incorre in uno spiazzo mezzo illuminato. Pieno di ragazzi. Un po’ stravolti. Spaccio? Ma non c’è altri a cui chiedere. È una discoteca. I ragazzi non sembrano sentire, ma uno dice con la testa: “È qui”. Indica davanti a lui, verso un fogliame. Sotto il fogliame c’è una porta a vetri. È fatta. Ma no. Illuminandolo con la torcia del cellulare la porta ha un pulsante: guardia medica. Ma nessuno risponde. I solleciti, ripetuti, lunghi, cadono a vuoto.  Si sente vociare dentro, ma a ben sentire è di televisione, qualcuno ascolta la tv a volume elevato. Un consulto col buttafuori della discoteca risolve la questione. Guardia medica non gli dice nulla, ma con quattro pugni alla porta cancello ottiene l’effetto. Una donna scarmigliata appare irritata. È la dottoressa. Scrive la ricetta e fa per rinserrarsi – non ha detto una parola. “A quale farmacia?”, si lancia. “A Vittoria Apuana”, rilancia senza voltarsi.
A Vittoria Apuana è tutto buio, specie la farmacia. Il bar dell’incrocio non sa se l’hanno riaperta: “L’avevano spostata. Si, è quell’edificio di dietro”. Dove il buio è più fitto.
Si son fatte le 2. Al Forte c’è ancora vita, ma non si sa a chi chiedere. Il giornalaio dice che Di Ciolo fa anche servizio notturno. È fatta. Ma no, da Di Ciolo non c’è campanello su via Carducci, e solo una porticina sul retro. Dove bussare risuona a vuoto. Niente da fare. Finché il giornalaio svela l’arcano: sulla porta posteriore il campanello c’è, solo che lo coprono con una pianta, per evitare che qualcuno si diverta a suonare giusto per divertimento. Dietro la pianta il campanello c’è, e qualcuno dopo lunghi momenti si sente ciabattare.
La storia è lunga, ma non è tutto.
In paese a mezzo Aspromonte, nella Calabria disastrata del “Giornale di Calabria”, c’è la guardia medica. Come in ogni paese. Illuminata. Col medico vigile. E i medicinali di pronto intervento disponibili. Pare che ci sia anche un servizio di fisioterapia. E di trasporto urgente, una sorta di ambulanza.

(continua)
 
Cronache della differenza: Napoli
La mostra “Invisibili” a Roma, sulle donne protagoniste del cinema in Italia ai primi del Novecento, s’illustra soprattutto per alcune figure napoletane, Elvira Coda Notari, una vera industriale del cinema, produttrice su larga scala e regista, e l’attrice comica Nilde Baracchi, famosa per la serie “Robinet e Robinette”, originata a Torino e poi molto cresciuta in Francia.
 
A un certo punto, dice una mini-didascalia della mostra “Invisibili”, le produzioni di Elvira Notari furono distribuite solo nelle regioni meridionali. E nelle comunità emigrate nelle città americane – nelle Little Italy, suppostamente siciliane e\o napoletane. Il leghismo viene da lontano.

Stabilisce lo storico primato dell’illuminismo in Italia lo storico francese Gilles Pécoud, l’autore del fortunato “Il lungo Risorgimento”: Giambattista Vico per primo, poi Antonio Genovesi, poi Pietro Verri. Mancano dall’elenco tre nomi altrettanto importanti, ma sempre nella proporzione di due a uno per Napoli: Gaetano Filangieri e Mario Pagano, Cesare Beccaria.
 
Rivisitato a distanza, benché da un pittore del linguaggio come Paolo Cirino Pomicino – allora solo giovane medico – il colera a Napoli nell’estate del 1973 fu un caso di resilienza, si direbbe oggi, di senso civico e non di degrado. “I morti in città furono 19, non ventimila”. E “ci fu la prima vera mobilitazione di Napoli. Ognuno… garantiva la pulizia nel proprio spazio vitale. Anche i bassi erano lavati quotidianamente col disinfettante”.
 
Si celebra per i 2.500 anni dalla fondazione (ma non era stata fondata nel 721 a.C.?). La celebra pure Confindustria, nominandola Capitale della Cultura d’Impresa 2025, dopo Torino. La prima città a sud del Garigliano a ricevere il riconoscimento. Una primizia secolare. Millenaria.
 
Può vantare comunque un pil pro capite, 31 mila euro, superiore alla media nazionale – senza contare il “nero”. Avendo la regione Campania cumulato nel triennio 2022-2025 un incremento del pil, 5,6 per cento, poco meno del doppio delle regioni centro-settentrionali.
 
Ma si è arricchita all’improvviso, dopo che per decenni era visitabile solo in pullman da Roma, o in visite ferroviarie senza nulla addosso, meglio senza neanche la giacca con le tasche. Con un capitale d’attrazione immenso, naturalistico, artistico e storico, e il fatalismo al furto. Nemmeno più tanto con destrezza. È bastato un po’ di ordine pubblico.
 
Prima dell’improvvisa svolta nell’ordine pubblico urbano era come se a Napoli i Carabinieri parteggiassero per i delinquenti. Non era così, naturalmente. Ma il denunciante veniva inquisito, per primo. Ma non solo a Napoli, in tutto il Sud è come se difettassero gli sbirri.
 
La quasi totalità del pil cittadino deriva dai servizi: commercio, accoglienza, assistenza. Era città industriale, è diventata una “città di camerieri”. La cosa indignava e impensieriva Mariano D’Antonio, l’ultimo dei suoi grandi economisti: per lo sdegno, quando chiusero Bagnoli e, un po’, Pomigliano, se n’era andato a Roma, ma evidentemente la cosa oggi funziona così.
Però, si sono industrializzati il casertano, che sembrava il profondo West alla porta di Napoli, e il salernitano interminabile – ha solo 5 mila km², la tredicesima provincia per superficie, ma è lunghissima, interminabile a chi fa la Salerno-Reggio Calabria, più dell’interminabile cosentino.
 
La città si pone ora anche al centro dell’innovazione, con le start-up, e con le 3 “academy” della Apple, dove si formano giovani di tutto il mondo. Classi annue di 300 iscritti, in sedici anni le Apple Academy (a San Giovanni a Teduccio) hanno formato 3.500 giovani.
 
Carlo Rovelli, il fisico, veneto, a 15 anni chiese e ottenne dal padre il permesso di “scoprire il mondo”, spiega su “7”: “Sono arrivato a Roma e mi sono fatto rubare tutti i soldi”. Probabilmente da borsaioli napoletani, secondo i Carabinieri. Ha voluto proseguire per puntiglio, e a Napoli è stato accudito senza soldi. Economia circolare? “Sì, se hai i soldi te li levano, se non li hai te li danno… è il mondo come vorremmo che fosse”.

leuzzi@antiit.eu

Quando Hemingway si antivedeva

Il racconto, del 1936 (su “Esquire”, ripreso dalla rivista nello speciale dei suoi cinquant’anni nel 1973, scaricabile, anche in traduzione), rivisto casualmente nella sua prima trasposizione al cinema è un sorprendente Hemingway, che si racconta trentenne come un fallito, malgardo la celebrità e l’autorevolezza raggiunte, e senza futuro, se non di scoramento. Una sorta  di introspezione autopunitiva. E quasi un programma.
L’Hemingway di Gregory Peck accentua il realismo del racconto, essendo un falso Hemingway. Li occhi inevitabilmente sorridenti. Innamorato non di questa o di quella ma di Ava Gardner e Susan Hayward. Un set dichiaratamente falso, teatrale, che accentua il senso delle riflessioni. Che si presentano in forma di confessione a futura memoria: Peck-Hemingway, a caccia grossa in Africa, ferito a morte, racconta alla seconda non amata moglie, una donna ricca e volitiva, i suoi fallimenti: l’alcol, l’amore, la scrittura, “un solo libro buono” in tanto scrivere, la nostalgia dei primi anni a Parigi, spiantato e ammirato, due mogli e un amore vero rifiutato da giovane, un padre che per questo  gli profetizza sventura, e lo congeda regalandogli una carabina, arma che poi sarà fatale, la Spagna, la guerra. Il male di vivere.
Una vita vista come incapacità, fallimento, disperazione. In amore, nella scrittura, nell’alcol, e nella caccia grossa come sfida – invito – alla morte.
Impressionante, sembra un testamento, che Hemingway si sarebbe poi impegnato a rendere valido in ogni punto.
Henry King, Le nevi del Chilimangiaro, TV2000
The snows of Kilimajaro, https://classic.esquire.com/article/1973/10/1/the-snows-of-kilimanjaro
(leggibile anche in italiano)

mercoledì 24 settembre 2025

Secondi pensieri - 569

zeulig


Autorità - È fe
mminile, come genere grammaticale, e come etimo. Se viene dal latino “augeo”, che è ben maschilista, mi arricchisco, ma originariamente femminile, cioè “accresco”, “genero”, “sviluppo”, “do la vita”. Della funzione generativa, giusto Cicerone: in rebus omnibus iis, quas natura alit, auget, tuetur, in tutte quelle cose che la natura, nutre, fa crescere, e conserva. Liberale più che repressiva, aperta più che chiusa, accrescitiva più che coercitiva.

Una voce svanita, da qualche tempo. Luisa Muraro, l’ultima che se n’è occupata, 2012, con la minuscola, “autorità”, alla fine non sa che farsene - trascura anche l’etimo. Sulla procreazione sì, in questa chiave ne fa l’esclusiva femminile, e sulla prima, stretta, cogente “educazione” – l’educazione come nutrizione. Una deriva femminista, forse inevitabile, non c’è andito immune, e niente più.
Hannah Arendt nel 1954, avendo esaurito la complessa anamnesi del totalitarismo, è la ultima che cerca di dirimere il quesito, “Che cos’è l’autorità?”, in una lunga riflessione che poi pubblica nella raccolta “Tra passato e futuro”. L’autorità non è la violenza, naturalmente: anzi, “esclude qualsiasi coercizione esteriore: dove s’impiega la forza, l’autorità ha fallito”. Ma non si adagia nemmeno sulla persuasione: “Dove s’impiegano argomenti di persuasione, l’autorità è messa a riposo”. E lo spiega con Platone, che la prospetta necessaria nella polis, negli affari pubblici. In alternativa proprio ala persuasione, che era come greci facevano politica nel foro. Ma anche alla violenza, che era il modo come facevano politica estera. L’autorità è in qualche modo gerarchica. Morale, come a Roma. Un quarto di secolo prima della “disobbedienza civile”, che ne avrebbe alterato le percezioni, in senso libertario non eversivo, H. Arendt era suggestionata dalla lezione di Alessandro Passerin d’Entrèves. Italianista a Oxford per ragioni di cattedra, ma filosofo dello Stato, Passerin d’Entrèves fu l’unico intermediario tra sé e Hobbes che Arendt dopo la guerra trovava, il quale l’Auctoritas riconduceva al mito fondante di Roma. Una forza liberale più che repressiva, aperta più che chiusa, accrescitiva più che coercitiva. La forza mista all’autorevolezza, l’Auctoritas, la romana legittimazione. E da queste altezze il mondo vede grigio: “Vivere nella sfera pubblica senza l’autorità (e quindi senza la consapevolezza della trascendenza della fonte di tale autorità rispetto al potere e ai detentori di questo) significa trovarsi ad affrontare daccapo, senza più fede religiosa in un principio consacrato, e senza la protezione offerta da criteri di comportamento tradizionali, e perciò assiomatici, i problemi più elementari suscitati dall’umana convivenza”
 
Non se ne parla, il “discorso” è fermo dove lo ha lasciato Luisa Muraro, “autorità”, minuscola, una quindicina d’anni fa, nel 2013. Minuscola per la scoperta che Muraro aveva fatto nel 1991, in “L’ordine simbolico della madre”, dell’autorità “in quanto forza che agisce in maniera inconfondibile dal potere e dal diritto”. Nella differenza femminile: è la funzione materna (generazione, gestazione, lingua, cibo, cura) che genera autorità - “Il senso dell’autorità inizia con la relazione materna”. E viceversa, l’autorità arricchisce (sostanzia) la funzione materna. La riproduzione.
L’argomento può cozzare contro le tante specie di autoritarismi che l’Europa ha vissuto nei fascismi, ma è un’altra cosa. È un esito della differenza sessuale. Che ora, un paio di decenni dopo, è incontestata – la donna in carriera non è tutto e non il più importante (fare la marine, per esempio, è del tutto inutile, e forse dannoso). A nche se a Muraro non basta(va): “La semplice presenza fisica personale non basta a modificare tradizioni e istituzioni che rispecchiano una visione mutilata del mondo”. Stampelle?
Muraro si muove tra Galileo, nel nome della natura, che le figlie, le femmine, metteva al convento, e Montaigne, nel nome dell’io. Qui con più fondamento: “Il «fondamento dell’autorità», nelle parole di Montaigne riprese dal suo lettore Pascal, è un genitivo soggettivo: significa che l’autorità è fondante, non fondata”.
Simone Weil, alla fine del percorso che Muraro segue, conclude perentoria in “Radici” che l’ordine dell’autorità “è sempre gerarchico”. Che è vero, specie in pedagogia, ma Luisa Muraro lo rifiuta. Paradossalmente, essendo Muraro nata pedagogista antiautoritaria, con “L’erba voglio” e Elvio Fachineli. Con Hannah Arendt concorda sull’essenziale, che “la vita pubblica senza l’autorità e senza l’indipendenza che questa dà nei confronti del potere, toglie alla politica «dignità e grandezza»”. Ma non sull’origine “fondativa”, tradizionale, dell’autorità. Per concludere: “Senza cultura dell’autorità, l’esperienza di una qualche superiorità altrui genera invidia, dipendenza o ribellismo, e il principio di uguaglianza diventa piatto: si traduce in un’accanita ricerca della parità, e rischia la sterilità simbolica, come una pianura in cui le acque ristagnano”. La rivoluzione dells controrivoluzione?
 
Cicli
–Si (ris)scopre (periodicamente) l’oblio, la compassione, la socievolezza, l’amicizia, la fede, la stessa natura, etc. tutte le cose che il mondo psicoanalitico ha celato. Col cervello inventivo, lo storione personale, il sonno-sogno, che è inerte, il lapsus e l’oblio (il rimosso), eccetera. Per un insopprimibile ritmo ciclico dell’esistenza – la storia?


Narrazione
– “Questa è l’epoca del racconto”, dice il drammaturgo Massini, “per cui tutto esiste solo nella misura in ci diventa narrazione. Anche in politica, in maniera trasversale. Scegliamo i nostri rappresentanti non più sula base della ragione, ma dell’empatia, scegliamo chi sembra essere come noi. Così Trump, grandissimo spaccone e abilissimo venditore, non potava che svettare. Ma qualcosa di simile era successo anche con Obama”.
Oggi o dai tempi di Cesare e Cicerone? O dei tribuni, i Gracco, Silla, Pompeo, Crasso. Della  pubblicità a lungo nel secolo ventesimo – dei “persuasori occulti”. Della propaganda – anch’essa, documentata, fuori della “Fattoria degli animali”. Della informacija e della disinformacja. Trump ha specialisti dei linguaggi social che ogni mattina hanno l’incarico, e ci riescono, di farlo protagonista della giornata.


Relativismo
– Papa Ratzinger, Benedetto XVI, che molto ci ha riflettuto sopra e ne ha scritto, sarebbe stato oggi, solo pochi anni dopo, semplicemente dismissivo invece che argomentativo, talmente intacca le categorie logiche.  Che sembra logico. E ha immediata controprova nella woke culture, così perentoria, affermativa – e o politica o, ingenuamente, fideistica.
Non è l’incroyance del Cinquecentoche invece era una forma di ateismo – limitata cioè alla fede r religiosa, in un Dio.
 
Religione
- È la madre della politica. Direttamente e, di più, indirettamente  - come alveo “culturale”, ma in sostanza sempre religioso, anche se non credente o incerto.
Il più rilevante riflesso odierno della religione sula politica è quello islamico, originato dal khomeinismo. Conoscendo l’Iran all’insorgenza del khomeinismo, è fuori di dubbio che esso è il portato della religione più che dell’evoluzione politica del Paese – che al contrario era dominato da  influssi laici, democratici e socialisti. Nel 1979, all’improvviso, l’Iran urbano venne sopraffatto dalle moltitudini delle moschee, che si presero la politica nel nome della religione – accendendo, quasi determinando, l’insorgenza jihadista in tutto il mondo arabo-islamico, in tutto il Nord Africa e fino alla Somalia e alla Nigeria. Un “fondamentalismo” – radicamento religioso della politica – tanto più radicale in quanto confrontato dal laicismo professo delle altre religioni, specie le cristiane.


zeulig@antiit.eu

La Gaza Riviera fa un secolo e mezzo

Il concorso Gaza Riviera lanciato da Trump viene da lontano, dal primo sionismo, quasi un secolo e mezzo fa. Il disegno non era propriamente di un resort, allora non ne esistevano, ma nemmeno di un “trasferimento”, come usava dire: era di una deportazione, come ora nei disegni di Netanyahu e di Trump. Di come e dove deportare i palestinesi, in quale paese arabo (in parallelo, ma questa è un’altra storia, si progettava di deportare i cristiani di Terrasanta in Sud America).
Allora, fine Ottocento, Gaza non esisteva, non come problema o singolo target. Ma l’idea di deportare tutti i palestinesi, allora sul milione e mezzo, forse due milioni, sì. In Siria, dopo avere studiato altre destinazioni. E anche in Iraq e Giordania, successivamente, quando un secolo fa presero forma, per due dinastie hashenite concorrenti, anche questi due Paesi. Comunque in uno o più dei paesi arabi circostanti.
“I maggiori leader sionisti”, spiega Masalha in sintesi nella prefazione alla riedizione 2012 del suo studio, “Theodor Herzl, David Ben-Gurion, Chaim Weizmann, Berl Katznelson, Moshe Sharett, Ze’ev Jabotinsky, e altri, tutti sostenevano il trasferimento. Tutti non vedevano nulla di immorale nell’idea, e gli stessi critici sionisti del trasferimento si opponevano su basi politiche e pratiche, non morali”. Senza peraltro nascondersi il mal fatto. “La mia coscienza è perfettamente pulita”, Katznelson scriveva della deportazione: “Un vicino di casa lontano è meglio di un nemico vicino”.
Ben Gurion qualche anno dopo, scrivendo nell’ottobre 1937 al figlio Amos, a proposito della deportazione forzata di cui si parlava, la lega al Progetto sionista come era venuto a delinearsi da ultimo, come continuità demografica, storica, culturale (archeologica) con la Bibbia: “Il trasferimento forzato degli arabi dalle valli del futuro stato ebraico potrebbe darci qualcosa che non  abbiamo mai avuto, neppure quando eravamo autonomi durante i giorni del primo e del secondo tempio… Ci viene data un’opportunità che non abbiamo mai osato sognare nemmeno nelle nostre fantasie più sfrenate”.
Presto ci fu anche il precedente: “Per tutti loro lo scambio di popolazioni greco-turche del dopoguerra servì da utile precedente per la Palestina. Sradicare i palestinesi e «trasferirli» nei paesi arabi – Giordania, Siria, e Iraq erano soprattutto suggeriti – era visto come un mero riallocamento da un distretto a un altro. Siccome i palestinesi avevano pochi legami (e nessun diritto) con la Palestina, i leader sionisti si dicevano, gli sradicati sarebbero stati altrettanto contenti fuori della «Terra di Israele»”. Semplice: “Il «trasferimento» e il diniego dell’identità nazionale palestinese e del diritto all’auto-determinazione erano inestricabilmente legati”.
“The Concept of «transfer» in Zionist Political Thought, 1882-1948” è il sottotitolo e l’ambito specifico della ricerca. Uno studio del 1992. Di uno storico palestinese, formato all’università di Gerusalemme, cittadino britannico, docente all’università del Surrey, direttore della rivista “Holy Land Studies”, della Edinburgh University Press. Contestato all’inizio, la documentazione e le analisi della sua ricerca non sarebbero più conetstate dagli storici sionisti, difensori di Israele, quali Josef Gorny, tra gli altri, Amita Shapira, “Land and Power”.
Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians, ebook, pp. 263 €  8,57

martedì 23 settembre 2025

Problemi di base - 882

spock


La causa è sempre un insieme di cause?
 
Non fare nulla stanca assai?
 
Fare il fatto, giocare il gioco, e pensare il pensiero?
 
Il cervello si è evoluto?
 
Vale più l’accensione del fuoco o la relatività di Einstein?
 
Non c’è evidenza incontestabile – è “giallo” infinito?

spock@antiit.eu

Quando anche la sconfitta era colpa degli ebrei

Un tradimento, non c’è altra parola per la drôle de guerre 1939-1940 sul fronte occidentale. Non per un volontario della Grande Guerra, e grande invalido. E naturalmente: come poteva essere accaduto? Perché gli ebrei comandano – comandano in America, incongruità su incongruità, e quindi in Francia, tramite logge nemmeno tanto oscure. Tradimento, quindi, con complotto: sembra di leggere il giornale.
Per questa inconsulta deriva antisemita, il quarto dei “libelli” di Céline più non si pubblica – il vero titolo è “Le belle bandiere” (“Les beaux draps”), ma Pasolini lo aveva già adoperato per una raccolta di suoi interventi. Mentre sarebbe utile oggi, che di guerra si parla come della partita di calcio, e tutti sicuri di avere in tasca il risultato.
Un titolo ancora oggi sotto doppia censura. Il libello, il più lungo e argomentato dei quattro di Céline, uscì infatti nel 1941, nella Parigi sotto occupazione tedesca, in edizione limitata, in ambienti, anche, filonazisti. Quindi come un libello disfattista. Ma la drôle de guerre francese del 1939-40 fu talmente assurda da spingere anche Jünger, richiamato nella Wehrmacht, a osservazioni sarcastiche, specie in “Giardini e strade”. Non fu una vera guerra, chi aveva sperimentato il 14-18 non poteva che sorprendersi.
Censurarlo ancora forse non ha senso, tanto potrebbe (può) circolare sottobanco. Discuterlo invece sì. Tutte le sconfitte, si sa, sono “per tradimento”. Ma in questo caso, della sicumera francese e poi dell’inerzia o inefficacia, semmai ci fosse un tradimento sarebbe istruttivo. Molti oggi, in Europa, fanno “la faccia feroce”, ma quella era una raccomandazione borbonica, dell’arte della guerra come “ammuìna”, un po’ di confusione.
“La bella rogna” prende circa i due terzi dela pubblicazione.
Lunghi passaggi sono leggibili in stefanofiorucci.altervista.org.
Louis-Ferdinand Céline, Mea Culpa-La bella rogna, Guanda-D’Amico editore, pp. 200, € 19

lunedì 22 settembre 2025

Letture - 591

letterautore


Accelerato – Era il più lento dei treni italiani – lo è stato per un secolo e più, fino all’irrompere dell’Alta Velocità, che ha rivoluzionato anche il lessico dei treni ordinari. “Una denominazione ingiustificata a giudicare dall’orario ferroviario”, doveva dirlo uno scrittore austriaco a inizio Novecento, viaggiano per curiosità fino in Calabria, Friedrich Werner von Oestéren, “Povera Calabria”: “Nemmeno il treno «misto» potrebbe effettuare un numero maggiore di fermate o essere più lento”.
Il curatore di van Oestéren, Teodoro Scamardi, spiega in nota: “La definizione di accelerato risale alla classificazione del servizio ferroviario stabilito con un apposito decreto nel 1889. L’accelerato, per lo più di sola 3° classe e con una ridotta composizione del convoglio, effettuava tutte le fermate. Negli anni Settanta l’accelerato è diventato treno locale e poi, negli anni Ottanta, treno regionale. Il treno misto, la cui istituzione risale anch’essa ai primordi del servizio ferroviario, riguardava le linee ferroviarie secondarie a scarsissimo traffico di viaggiatori. I convogli erano costituiti da numerosi carri merci con solo qualche primitiva vettura per i passeggeri. Questi treni sopravvissero nella rete nazionale sino ala fine dell’Ottocento, in alcune linee secondarie sino agli anni Trenta e in alcune linee a scartamento ridotto sino al secondo dopoguerra”.
 
Forte dei Marmi – “Ugliancalda” nella fantasia di Gadda. A Citati che lo invita al Cinquale  Gadda scrive il 7 luglio 1964: “Poiché credo che di “Battifredo degli Ugliancalda (Forte Ronchi) non si parlerà, Le scrivo i miei saluti, pregandola di ricordarmi a Contini, se lo vede in questi giorni”.
In “Verso la Certosa”, p. 111 – e anche in “L’Adalgisa”, p. 323: “Il Battifredo d’Ugliancalda (dunque con due grafie. n.d.r.), sapete, è il nome che Riccardo Bacchelli ha dato al Forte dei Marmi  nel suo mirabile romanzo ‘Il fiore della Mirabilis’, dove celebra, di Versilia, la dura vita, la forte gente e il paese”.
 
Giustizia – “La nostra civiltà occidentale è fondata su tre pilastri: la scienza, la filosofia e la religione. I loro tre massimi protagonisti, Galileo, Socrate e Gesù, sono stati oggetto di processi formalmente legittimi, ma sostanzialmente iniqui”. Carlo Nordio, il ministro della Giustizia, uscendo dal giubileo della giustizia, indetto dal papa Leone XIV, con Virginia Piccolillo sul “Corriere della sera”.
 
Italia – “I primitivi italiani posseggono grazia e allegria perché sono italiani” – Anatole France, “La rivolta degli angeli”, p. 51.
 
Eleonora Duse recitava in teatro in giro per il mondo, dal Pacifico a San Pietroburgo, sempre in italiano, raccogliendo testimonianze come quella di Cechov alla sorella Maria Pavlovna – l’unica accanto a quattro fratelli: “Ho proprio ora visto l’attrice italiana Duse in Cleopatra di Shakespeare (“Antonio e Cleopatra”, n.d.r.). Non conosco l’italiano, ma lei ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola; che attrice meravigliosa!”.
 
Metastasio – “Poeta roano diventato star globale settecentesca”, Masneri in sintesi sul “Foglio”. Che Roma non conosce, e a Roma non ha dedicato niente, nemmeno un ricordino in una letterina. Via Metastasio è una viuzza, dal Campo Marzio a via della Scrofa (proprio dove c’era la – vecchia? - sede del Msi). In via dei Cappellari, al n. 30, dove sarebbe nato (si sa solo che era del quartiere Regola), c’è una targa. A fine Ottocento un comitato di quartiere volle per lui una statua. Che giace irriconoscibile nell’adiacente piazza della Chiesa Nuova, luogo di san Filippo Neri.
Lo aveva scoperto giovinetto un calabrese, Gian Vincenzo Gravia, Roma non ne altra memoria che le targhe civiche: niente studi e nemmeno rappresentazioni.   
 
Mussolini – Gandhi, che lo aveva incontrato, a Roma, ne 12931: “Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano. Sembra aver fatto molto per i contadini. In verità, il guanto di ferro c'è. Ma poiché la forza (la violenza) è la base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra il capitale e il lavoro, mi sembrano richiedere un'attenzione speciale. [...] Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l'implacabilità di Mussolini, c'è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c'è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini” – in Gianni Sofri, “Gandhi in Italia”, pp. 90-91.
 
Petrarca  - È un elettrotreno, nello “schema enigmistico degli incastri” (Bartezzaghi): pETRarca – ma anche un’arca, di sapienza, un’arca veloce - “mentre una ‘chiave’, tra i ‘malli’ delle noci, circonda MaCHIAVElli”.
  
Goliarda Sapienza – A lungo moglie, convivente e collaboratrice di Citto Maselli, comunista e regista, di cinema. Di cui il film “Ruba al prossimo tuo” indignò Flaiano, recensore, a tal punto che si sentì male – dovette limitarsi al riso bollito e a mettersi a letto. Nella memoria di Masolino D’Amico, “il Venerdì di Repubblica”, 12 settembre.
 
Selfie – Ma l’inventore – dell’autore allo specchio – non è Petrarca? Cortellessa evidenzia la sbalorditiva scoperta leggendo sul “Sole 24 Ore Domenica” la nuova biografia di Petrarca, “La vita e il mondo”, di Luca Marcozzi - dopo quella che ha fatto testo per decenni dell’italianista americano Ernest H. Wilkins. Sant’Agostino dunque è l’inventore del genere, ma ad altri fini e in un’ottica non di pubblicità personale – peraltro una pagliuzza nella sua enorme “produzione”.
“Di nessuno”, riassume Cortellessa, “sappiamo quanto sappiamo di Petrarca, il quale ha accontato di sé in quaranta e passa volumi di letere in prosa ciceroniana…, più quelle spesso bellissime in versi oraziani….e le «segrete», sorprendenti ‘Sine nomine’, e poi un mare di trattati, epitome e soliloqui”.
Una costruzione di sé, progettata, artata “Insieme alla psiche del maschio d’Occidente, la più grande invenzione di Petrarca consiste proprio nel «self-fashioning» di un’autobiografia che si rimodella per ogni evenienza, e patologicamente mente su tutto”.
 
Trump –“Un uomo che è tao mille volte vicino al capitombolo, ma che poi sempre si è rialzato. Un piazzista, un colossale bugiardo che ha avuto come pochi altri l’abilità di rendere la propria leggenda la leggenda di tutti”: Massini, commediografo di successo, columnist di “la Repubblica” immune al reducismo del giornale, comune ai morenti, fa un Trump a tutto tondo, dopo averlo studiato,  a lungo evidentemente e in dettaglio, “Donald, storia molto più che leggendaria di un grande uomo” – uno spettacolo che porta in tournée, a Milano, Napoli, Genova e Firenze.  Aggiungendo: “Grandissimo spaccone e abilissimo venditore (si vede ogni mattina, scorrendo i suoi social, n.d.r.), non poteva che svettare. Ma qualcosa di simile era successo anche a Obama”.

letterautore@antiit.eu

Trump snob – o degli uomini forti

Trump estasiato a Londra, a corte. Pomposo, ma sinceramente ammirato. Da dove annuncia, imperiale, la fine di ogni contenzioso con la Cina, per gli accordi personali da lui definiti in lunghe telefonate con il presidente Xi. Dopo avere coltivato a lungo, con molteplici chilometriche telefonate, Putin. E nella passata presidenza perfino Kim Jong-Un, o come si chiama il re in borghese della Corea del Nord – figlio di Kim Jong-Il, figlio di Kim Il-sung.
Il presidente americano è un po’ snob, servile. Questa sembra essere sfuggita al drammaturgo Massini, che lo porta in scena come vantone, “Donald, storia molto più che leggendaria”. Ammira e imita persone autorevoli, forti.
In piccolo anche il legame speciale con la “piccoletta” Meloni rientra in questa passione – “una dei veri leader del mondo, ha fatto irruzione in Europa, tutti la amano”. Trump sarà stato anche sorpreso dall’ottimo inglese della pdc: non all’altezza del re Carlo, ma non gli capita con gli altri supereroi, Putin, Xi, Kim.

L’irresistibile leggerezza di Renzi

C’è anche la foto di Renzi padrone sorridente con l’arcinemico Conte – altro personaggio inverosimile: una stretta di mano, calorosa (trattandosi di ex Dc un abbraccio sarebbe stato più verosimile, ma non si può avere tutto). He altri ci aspetta? Renzi col papa, perché no.
Calenda passi, è persona bene educata che prova a fare politica, ma Renzi perché? Perché ogni giorno dobbiamo sapere cosa ha detto e fatto? Con titoloni e larghi spazi. Solo perché si gloria di buttare giù i governi. Ma, questo non buttandolo giù, sarà un agente doppio, della Meloni?
Facezie. M è facezia un uomo solo che si gloria di buttare già i governi. Dopo avere “rottamato” chiunque nel suo partito – allora era a capo del partito Democratico - gli faceva ombra. Come si gloria di parlare l’inglese senza saperlo – senza sapere di inglese. E di promuovere la democrazia nel mondo facendo l’influencer, strapagato, dei sauditi.
Si dice: l’irresistibile richiamo del Centro? Il Centro come un cappio? Sulla democrazia, sull’informazione, sui lettori e elettori,
O sarà un piano degli editori, Cairo e Elkann, di allontanare quanta più gente dal voto?

Sessantenni e padrone, anche di se stesse

Sole, e solitarie, due sessantenni, vecchie amiche per la pelle poi in lite, su riscoprono protagoniste, in famiglia e fuori. Dopo la morte, misteriosa, della terza amica, che ha fatto sempre di tutto per riconciliarle: il miracolo le avviene in morte. Due mega ruoli per Veronica Pivetti e Carla Signoris. Il balene del titolo viene dalla protezione delle balene nella quale l’amica morta era impegnata.
Un piccolo giallo, insomma. Ma tutto femmine, femminista – gli uomini vi sono tanto presuntuosi quanto poco avveduti. A fronte dell’ingegnosità e la determinazione delle donne – anche nel rapporto figlie-figli. Per questo un avvio un po’ seduto (scontato) della serie.
A volte si ha l’impressione di una rivalsa maschilista sottile, surrettizia, tanti sono i luoghi comuni (solitamente maschili) sulle donne. Ma la sceneggiatura è tutta al femminile.
Alessandro Casale, Balene, Rai 1, RaiPlay

domenica 21 settembre 2025

Smart working

S’incontrano trenta e quarantenni a spasso col cane non più soltanto alle otto di mattina e alle sette di sera, da qualche tempo anche alle 13-14. Anche da qualche anno. Sempre accigliati, anche per l’uso generazionale della barba, necessariamente scura e cupa - parliamo di uomini, in prevalenza: portare il cane a spasso per i suoi bisogni è bene una fatica, per quanto uno ci possa giocare o dialogare. Ma come afflitti.
Lo stesso avviene per quelli, ma sono molti meno, che attorno alle 11-11,30 portano a spasso il bebé in carrozzina. Come distratti, perfino bruschi nelle manovre. Non amorevoli, e anzi infastiditi dagli anziani che fanno le moine al passaggio.
Questo si può capire, il divide generazionale è un fatto. Ma sono irritati dall’incombenza canina oppure dal non far nulla?
Però, che tanti trenta e quarantenni non lavorino, a ripensarci, non è normale. E loro stessi sembrano pensarlo e dirlo, quasi sempre attaccati al cellulare – i più vanno con le cuffie, ora invisibili, quelli che danno l’impressione a incrociarli di parlare da soli. È l’effetto covid, pare, lo smart working o lavoro da remoto che sostituì la presenza in ufficio o in azienda, e da allora è pratica, pare, comune, il lavoro a distanza, in audio e in video. Con risparmio, così si dice, per chi lavora e anche per le aziende e gli uffici, sul pendolarismo, sul parcheggio, sui pasti fuori, sui consumi di elettricità, sulla carta, sul riordino e le pulizie, etc.. O solo con la convenienza? Ma poi, si vede, soli vengono i cattivi pensieri.  

India nella morsa Cina-Pakistan-Arabia Saudita

Mentre Trump si crogiolava a Londra con i reali inglesi, a Riad il primo ministro pakistano Sharif firmava col principe ereditario saudita Bin Salman un accordo militare di reciproca difesa. Compreso lo scudo nucleare pakistano a difesa dell’Arabia Saudita.
Un accordo in chiave anti-Israele, e in linea con i disegni sauditi di acquisire autonomia dalla protezione, e dal controllo, degli Stati Uniti. Anche perché Trump, nella passata presidenza dieci anni fa, ha mostrato di non volere più garantire, unicamente impegnato a favore di Israele. Ma che mina massicciamente gli equilibri in Asia.
Nel soggiorno a Londra, dove ha trovato modo di magnificare le relazioni personali col presidente cinese Xi e degli Stati Uniti con la Cina, Trump avrebbe esposto uno scenario in cui l’Occidente, cioè l’America, si occupa dell’Occidente, con l’America Latina e l’Europa, e i paesi asiatici, cioè la Cina, dell’Asia. Se così fosse, l’India resterebbe isolata dopo l’accordo dell’Arabia col Pakistan.
L’India è stata uno dei primi grandi acquirenti di greggio saudita da una decina d’anni a questa parte, da quando le finanze saudite erano esauste e il paese minacciato dal fallimento. L’accordo militare saudita col è Pakistan tradizionale nemico dell’India, è un atto quasi ostile. Il Pakistan è anche sempre più, secondo New Delhi, un mandatario vassallo della Cina – malgrado le repressioni cinesi dell’islam.
Il presidente indiano Modi ha tentato ultimamente delle aperture verso la Cina, presenziando a Pechino alle celebrazioni cinesi della fine del secondo conflitto mondiale. Ma senza esito apparente: restano i problemi bilaterali, commerciali e territoriali (di confini sull’Himalaya), e l’alleanza di fatto di Pechino con il Pakistan - nata in chiave anti-indiana.

All’esame del letto, prima della laurea

Tra street food e aperitivi i soliti quattro amici studenti, cresciuti, universitari, e imbranati. Uno dei quali, che sta per laurearsi in Filosofia, non ha mai “avuto la ragazza”: vive nel culto della madre, morta giovane, in lite perpetua col padre amorevole, e sfidanzato. Finché la bella del liceo inavvicinabile non lo circuisce per sue piccole trame – come “uomo dello schermo” per poter uscire di notte col suo infrequentabile moroso. A causa del quale, per una serie buffissima di incastri, il giovane vergine finirà ai lavori socialmente utili. Dove uno degli “invisibili” (barboni) accuditi lo svezzerà ai segreti della vita, e un’agguerrita “Che Guevara”, ecologista irriducibile, gli scioglierà tutti i nodi. Anche quelli filosofici.
Un tentativo di rigenerare “La notte prima degli esami” vent’anni fa, le turbe e le trame post-adolescenziali – Nicolas Maupas, il protagonista, sembra un gemello di Vaporidis. Di uno specialista del genere, ma meno affilato – meno cattivo. Un bel ruolo – il folletto “invisibile” – per un invecchiato Francesco Salvi.  
Luca Lucini, L’amore, in teoria, Sky Cinema