Morì di troppe pasticche il 12 luglio 1926, a Bagdad, la notte dopo una cena
ufficiale. Era indebolita, da malaria, bronchite, pleurite. Forse reduce da una diagnosi, a gennaio dello stesso anno, in visita in Inghilterra, di cancro ai polmoni - era grande fumatrice. In lutto per la morte del fratello Hugo, di tifo. Di sicuro si sentiva isolata, benché onorata in Iraq. Isolata nel femminismo, che non condivideva - si era opposta al suffragio femminile. Mark Sykes, eminenza grigia al Foreign Office, quello dell’ultimo imperialismo coloniale europeo (l’accordo Sykes-Picot, anglo-francese, per la spartizione del Medio Oriente) la disprezzava perché donna - Gertrude non ne fu sopraffatta perché Sykes morì di spagnola, a Parigi per i colloqui di pace (e di spartizione dell’impero ottomano). Della insorgenza araba tutto il merito veniva dato a T.E.Lawrence, di venti anni più giovane, e sempre indeciso.
Molto
si è scritto sul fatto che viaggiava per il Medio Oriente semidesertico e “inesplorato”
con vere e proprie spedizioni, di servitù per ogni funzione, bagagli innumerevoli,
e l’esibizione di mise vestimentarie e cosmetiche più variate e
aggiornate. Volendo, si potrebbe argomentare, conoscendo poco poco il mondo arabo,
specie quello tribale e nomade, che non lo faceva per eccentricità ma per
manifestare i segni del potere, necessari, tanto più a una donna. Ma viaggiava a cavallo, in sella anche per molti giorni, per molte ore al giorno. E amava le montagne: nel 1911, quando si apprestava alla terza spedizione in Medio Oriente, a 43 anni, contava dieci prime scalate nelle Alpi Bernesi. In quella spedizione, nel 1913, si avventurò nel deserto del Negev, il Quarto Vuoto della penisola arabica, una dei tre o quattro europei sopravvissuti alla traversata, fino a Hayil, quartier generale di Ibn Rashid, potente emiro d’Arabia, fedele agli Ottomani - che presto sarà sopraffatto, morendo in battaglia, da Ibn Saud.
La prima donna laureata a Oxford. Che è stata in
Persia a venti anni e ne ha scritto a ventisei. Solidamente: il primo libro
moderno (contemporaneo) sull’Iran, repertorio di molti successive, anche per la
parte politica. Specie l’inconsistenza del potere imperiale, se non nelle forme
di accettazione rituali – si era devoti allo scià come oggi alla Guida Suprema,
come si lacrima per Husseyn a metà del mese di Moharram, tra un pasticcino e
una chiacchiera.
La prima, moderna, fattuale, scrittrice di viaggi. La
sua opera prima, nel 1894, “Ritratti persiana”, mantiene una singolare vivacità
e veridicità ancora oggi, un secolo e quasi mezzo dopo. Id è il primo racconto del Medio, o Vicino,
Oriente dal vivo, di cose viste. Racconto ferace, battistrada di Robert Byron,
Vita Sackville-West, Schwarzenbach, Chatwin, Peter Levy – dopo Richard Burton
naturalmente. “L’Oriente guarda se stesso: non sa nulla del mondo esterno di
cui sei cittadino, non ti chiede niente di te e della tua civiltà”. Valeva
allora, 1894, forse meno di quanto valga ora. Anche perché Oriente e Occidente,
anatomizzati, sono concetti storici più che geografici, poco congruenti e anche
poco consistente. E tuttavia con un fondo di verità. Una donna iraniana, pur
dopo un secolo di modernizzazione, e libera sessualmente, fino al sighé, il
matrimonio a tempo, resta ritrosa e in difficoltà alla stretta di mano, tanto
più all’abbraccio e bacio di saluto. Ancora più vero ai capitoli sui nomadi, la
civiltà maschile, l’anderun, luogo femminile della casa, “di infelicità,
di esistenze insulse”. E i deserti, i qanat, le torri del
Silenzio, il fumo al qalyān (narghilé), profumato, i giardini
segreti. In un Oriente “segreto” per modo di dire – l’Oriente di cui più non si
può più dire dopo Edward Said (sottacendo il fatto che Said è un palestinese,
cioè un arabo “occidentale”, anche nella critica).
La prima funzionaria militare britannica. Per di più
nel settore intelligence, ingaggiata dal governo nel 1914 per la
sua conoscenza del mondo arabo, e subito addetta all’Arab Bureau al Cairo,
insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la resistenza contro l’impero ottomano,
alleato in guerra degli imperi centrali. Creatrice nel primo dopoguerra
dell’Iraq, in ogni senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito
degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti
dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla
Mecca, dall’Arabia poi Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini - che in qualche misura reggono, malgrado le
persistenze tribali indistruttibili.
(3. fine)
George
Augustus Polgreen Bridgetower – (Galizia, ca 1779 – Peckam 1860) –
Violinista mulatto, esordì come enfant prodige, affermandosi a Londra, primo
violino dell’orchestra del principe di Galles (il futuro re Giorgio IV). In tournée in Centro Europa a 25 anni, nel
1803 fu a Vienna, dove strinse amicizia con Beethoven. Che gli dedicò la Sonata
per violino e pianoforte op. 47 – poi nota come “Sonata a Kreitzer”. Con una
dedica scherzosa. “Sonata mulattica composta per il mulatto Bridgetower, gran
pazzo e compositore mulattico”. Il rapporto fu scherzoso anche nell’esecuzione
della sonata, a maggio del 1803. Il compositore Carl Czerny annotò:
“Bridgetower suonava in modo molto stravagante. Durante l’esecuzione della Sonata,
con Beethoven ridevamo di lui”.
La
Sonata era stata approntata però in fretta, sia la composizione che l’esecuzione.
La parte del violino del primo movimento fu pronta solo qualche giorno prima.
Il secondo movimento Bridegtower poté leggerlo sol sullo spartito del pianista,
non essendoci stato il tempo per copiare lo spartito. In calce alla copia della
sonata in suo possesso Bridgetower aveva introdotto una cadenza al “Presto” del
primo tempo, che Beethoven aveva accolto entusiasticamente, Ma non ne tenne pi
conto nel pubblicare la sonata, nel 1805, quando risulta dedicata a Rodolphe
Kreutzer, grande violinista francese,da Beethoven conosciuto a Vienna già nel
1798. Con una dedica molto lusinghiera: “Una buona e brava persona di cui ho
molto goduto la compagnia durante il suo
soggiorno a Vienna. La sua modestia e la sua naturalezza mi sono più care di
tutto quanto esteriore o interiore nella maggior parte dei virtuosi”.
Come
s’era interrotto il rapporto amichevole di Beethoven cno Bridgetower? Secondo il musicologo australiano J. R.
Thirlwell – non una fonte affidabile - c’era stata una lite per via di una ragazza.
Probabilmente Giulia Guicciardi, la nobildonna austriaca , nata in Polonia, che
era stata allieva di pianoforte di Beethoven, futura contessa von Gallenberg.
Kreutzer
non gradì l’omaggio e non eseguì la sonata, scusandosi che era troppo difficile,
e che comunque era già stata eseguita. Secondo Berlioz aveva trovato a sonata
“oltraggiosmente inintelligibile”.
Bugatti – Ritorna la Bugatti, un prototipo, a ricordo della bellezza che contraddistingueva
il marchio - una hypercar, da 26 milioni. In precedenza si erano fatte, su richiesta,
500 Chiron, numero chiuso, e 250 Tourbillon. La nuova Bugatti si chiamerà Brouillard,
la nebbia, ha solo 1.600 di cilindrata, ma un apparato bijoux.
È un “emigrato” milanese, Ettore Bugatti, l’ideatore
dei modelli che fecero epoca tra le due guerre e il fondatore della casa
automobilistica col suo nome, nel 1909 (cesserà l’attività nel 1973, venticinque
anni dopo la sua morte). Aveva cominciato presto a Milano Bugatti, a 14 anni, quando,
iscritto all’Accademia di Brera, montò su un triciclo Prinetti e Stucchi un
motore De Dion-Bouton. Tre anni dopo aveva abbandonato l’Accademia per entrare
nella fabbrica – Prinetti e Stucchi faceva biciclette e macchine da cucire. E
con i modellini di triciclo da lui adattato partecipava alle prime corse. Nel1898,
a 17 anni, metteva a punto la prima, Tipo 1, di una serie lunga di Tipo – che
era anche la prima macchina a montare gli pneumatici Pirelli: un triciclo, cui
applicò un motore da 4 cv, con il quale partecipò a due corse, la
Nizza-Castellane in Francia e la Verona-Brescia-Mantova-Brescia, vincendole
entrambe. Era il 1899. L’anno dopo era in grado di aprire una officina propria,
e di costruirci la prima vera automobile, che chiamò Tipo 2. Si procurò il capitale
necessario costituendo una società con due ricchi fratelli di Ferrara, i conti
Oberto e Olao Gulinelli, allevatori di purosangue. La Tipo 2 volle già “lussuosa” – ma corse e
vinse nel 1901 il Gran Premio di Milano.
Questa vittoria lo portò all’attenzione di un importante
industriale metallurgico alsaziano, De Dietrich, che lo volle suo manager – il
contratto fu firmato dai genitori del neo designer-costruttore, ancora
minorenne. Con De Dietrich partì la seconda vita del giovane Bugatti, dapprima
in Germania poi in Francia – seguendo gli spostamenti dell’Alsazia, regione
mista di frontiera. Con De Dietrich Bugatti realizzò altre due Tipo. Ma nel
mentre era già passato a collaborare con altre aziende, la francese Mathis e la
tedesca Deutz, di Colonìa – con altri quattro modelli di Tipo. Poi prese a
lavorare in proprio, costruendo nel garage una Tipo 10, spartana, non
“bugattiana”, ma tecnicamente avanti (distribuzione ad asse a camme in testa).
In meno di un decennio fu in grado di lanciare la
sua propria casa, la Automobiles Ettore Bugatti. Macchine legger ma potenti, ed
eleganti. La fondò nel Basso Reno, a Molsheim, dove era arrivato da ragazzo con
De Dietrich. La prima Bugatti fu quindi una casa automobilistica tedesca. Diventerà
francese nel 1919, col trattato di pace.
Sempre memore dei Golinelli, che lo avevano aiutato per
primi, gli allevatori di purosangue, volle per le sue vetture un caratteristico
radiatore a forma di ferro di cavallo – e un figlio battezzò Gianroberto, come
il figlio del conte Olao. Al salone di Parigi del 1910 poteva presentare la sua
macchina, la Tipo 13, del modello che in francese fu battezzato “torpedo”, come
il pesce, due posti, scoperta e a carrozzeria filante – il tipo poi “spider”.
Una macchina sportiva, successivamente ingrandita per quattro e sei posti, con una capote a
copertura. L’attività fu sospesa durante la guerra, che vide i capannoni di
Bugatti distrutti.
Già allo scoppio della guerra, molto prima che
l’Italia scendesse in campo contro gli Imperi centrali, Bugatti si era precipitato
a rientrare a Milano. Da dove, col fratello Rembrandt, tornò al prolungarsi della
guerra in Alsazia per sotterrare tre motori da competizione che aveva
approntati primo della deflagrazione.
Furono cinque anni drammatici per Bugatti – anche per
il suicidio di Rembrandt. Tornerà in possesso della fabbrica, solo macerie, nel
1919, con la nuova nazionalità Francese. Riavviò l’attività con il ricavato
della vendita di molti brevetti ai concorrenti. Coi motori ideati prima, e
sepolti durante la guerra, costruì una 1.500 bialbero in testa, la Tipo 13,
continuando a vincere tutte le gare, nel 1920 e nel 1921.
Il designer-costruttore
era di una famiglia di artisti, di Nova Milanese. Il padre Carlo era designer di mobili e gioielli in stile “floreale”.
Rembrandt, il fratello minore che poi si suicidò, era scultore. Una sorella della
madre, la zia Luigia, detta “Bice”, era la moglie di Segantini, il pittore. Il
nonno paterno, Giovanni Luigi, era scultore anche lui, e architetto.
Giustino
Fortunato - Furono due. Il meridionalista ebbe uno zio omonimo che fece lunga
e complicata carriera in epoca borbonica, tra carboneria e incarichi pubblici, ricoperti
sotto il re Ferdinando II. Dopo essere stato uomo di fiducia di Gioacchino
Murat – e forse quello, o uno di quelli, che l’attirò alla trappola di Pozzo.
Gladstone - Il liberale
Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza dell’Irlanda.
Delle prigioni napoletane
tanto famosamente da lui screditate, confesserà che non ne aveva mai visitato
una.