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sabato 30 agosto 2025

Problemi di base bellicosi - 878

spock


Viene prima Hamas oppure Israele?
 
Il colonialismo è buono o cattivo?
 
Il tribalismo è buono o cattivo?
 
O non sono le guerre tribali le vecchie faide di sangue, fino all’ultimo triscugino, immemore?
 
Molti nemici molto onore, anche il mondo intero?
 
A ogni azione una reazione uguale e contraria, oppure no, Newton è troppo vecchio?

spock@antiit.eu

Il primo Céline, o un vaccino contro l’antisemitismo

È la radice dell’antisemitismo di Céline, che dieci anni dopo esploderà con i libelli dichiaratamente antisemiti. “Sola opera teatrale scritta e pubblicata da Céline, «La chiesa» costituisce in qualche modo una ripetizione generale del «Viaggio al termine della notte»”, così la vuole l’editore Gallimard che l’ha ripresa da Denoël e ce l’ha in edizione. Non si direbbe. “Quando l’antisemitismo non era peccato”, aveva potuto intitolarne la recensione questo sito dieci anni fa – negli anni 1920, prima di Hitler, quando era diffuso e blando.
Non una grande lettura. Ma è utile nella reviviscenza del pregiudizio antisemita, giustificata che sia dalla politica di Israele. Qui per un motivo minore, il carrierismo alla Società delle Nazioni.
La “farsa” ha, tra i luoghi comuni sulle massonerie, l’ebreo cinico Yudenzweck (“la cosa ebraica”), uomo senza emozioni. Un personaggio, questo spregiativo Yudenzweck, su cui sembra ricalcato il tardo Solal di tanti libri di Albert Cohen - anch’egli per qualche tempo ginevrino, anche alla Società delle nazioni (all’Ilo, l’organizzazione del lavoro). Ma per questo motivo una lettura istruttiva. Il sionismo, per quanto invadente sui media, specie quello colonialista di Netanyahu, non è il mondo ebraico, o l’“ebraismo” (non, p.es., in America, dove ha molti più critici e anzi avversari che sostenitori). E bisogna stare attenti – una lettura come un vaccino.
È probabilmente il primo testo letterario del dottor Destouches, il futuro Céline, nel 1926, contemporaneo al “Progresso”. Due abbozzi di commedia, definiti dall’autore farse. Dove però non si ride, al più si ghigna: due testi satirici. Uno contro il vizio del voyeurismo, proprio dell’autore, “La chiesa” contro il carrierismo alla Società delle Nazioni, oggi Onu, all’insegna ipocrita della pace e lo sviluppo, ambiente che il dottore conosceva per averci lavorato a più riprese per un decennio (a quella che sarà l’Oms, l’organizzazione per la sanità). E lo dichiara: “Il tema della farsa è esplicito: sollevare il velo sulle buone intenzioni degli uomini chiamati a compiti di responsabilità negli organismi internazionali che si occupano dello sviluppo e del progresso delle popolazioni più indigenti”.
A “La chiesa” Destouches-Céline ci teneva. Ne propose il manoscritto all’editore Gallimard, che non lo pubblicò ma lo apprezzò. Sei anni dopo, a seguire al successo del “Viaggio al termine della notte”, lo stampò Denoël, l’editore del “Viaggio”. Dullin e Jouvet, massimi teatranti dell’epoca, presero la farsa in considerazione. Ma fu rappresentata solo a Lione, nel 1936. Senza successo. Quando già Céline aveva rinunciato al teatro. Per non saper fare i dialoghi, scriveva agli amici.
No, i dialoghi li sapeva scrivere, per esempio nei romanzi e nei libelli. Ma era troppo animoso: la ragione per cui non si ride alle sue farse è che la satira è insistita, cioè piatta.
Louis Ferdinand Céline, La chiesa, Irradiazioni, pp. 150 pp.vv.

venerdì 29 agosto 2025

Fenomeno Trump 2 - se giovani e di colore lo (ri)voterebbero

"Il Pil americano balza del 3,3 per cento”, “Import in caduta libera (- 30 per cento)”, “La Fed verso il taglio dei tassi di 25 punti”,  “Boeing, record di jet ordinati (grazie alle mosse di Trump): commesse per 200 miliardi”. “Stop ai dazi sull’industria Usa. Così Bruxelles salva l’auto Ue”.
In un solo giorno, in una sola pagina, si registrano tutti successi di Trump. Che nelle pagine politiche è sempre visto come uno scemo, se non è psicopatico, con voglie dittatoriali.
Sui giornali italiani, anche di destra, Trump è uno strano personaggio, un fanfarone, un po’cretino, che dice e disdice. Sui giornali americani, che sono quasi tutti anti-Trump, è diverso: è il presidente eletto, con una maggioranza in Congresso, che continua a sostenerlo convinta. E pericoloso per questo.
Di fatto è un presidente non discusso: mantiene il vantaggio elettorale nel favore popolare. Un sondaggio Pew tra i giovani e gli elettori di colore lo rileva popolare e votabile, specie tra i latinos e gli  afroamericani. E questa è forse la chiave del personaggio. Trump 2 è come il Trump 1, un manager e un uomo di denari abituato a decisioni rapide e all’obbedienza in azienda. Questo non va bene in politica - ma forse no, come vedremo. Ma il Trump 2 è anche altro. Quello che ogni giorno tiene salotto per tutta la stampa, insieme con i suoi ospiti del momento, domande libere, e risponde ai giornalisti a ogni partenza dalla Casa Bianca, usa su X o dove altro scrive ogni mattina uno slang  giovanile, molto appetibile ai non politici, di mestiere o di presunzione, nello spirito dei social, per farsi leggere – che è già un apprezzamento.
Questo è un altro Trump, non isolato contro tutti come il primo. Ha sicuramente uno o più spin doctor  che gli suggeriscono i temi adatti del giorno e le parole giuste, e sicuramente molti redattori dei messaggi apparentemente spontanei. Sempre affabile – che non è possibile, se non è voluto. Ha una strategia della comunicazione  (sua? improbabile, probabile che abbia molti personal trainer  del linguaggio). Compreso il tira-e-molla sui dazi, che sicuramente non è temperamentale – è una strategia commerciale, disorientare, ma con un messaggio forte all’elettore: qui decido io.
È solo in questo quadro che si può analizzarne le politiche. Se i dazi danneggiano gli affari oppure non sono una diga allo strapotere che la globalizzazione aveva concesso ala Cina – che è pur sempre un regime comunista, dirigista, fino alle virgole e su ogni centesimo, prima che un concorrente commerciale. Se l’esercizio dei poteri presidenziali non sia fuori o contro le leggi. E naturalmente inquadrare il forte messaggio conservatore di cui s’è fatto la divisa, perfino reazionario, nelle politiche sociali e culturali: quanto è pregiudizio suo e quanto risponde a una domanda.
Certamente non è una macchietta. Il presidente considerato (presentato come) il più volubile è invece quello più stabile nelle sue politiche. Dichiarate subito prima e subito dopo l’accesso alla presidenza. Un po’ d’inflazione, per allargare gli sbocchi alla produzione americana. Nuovi sbocchi alla stessa, con la minaccia dei dazi. Sradicamento del mercato illegale dell’immigrazione – che potrebbe (dovrebbe) anche essere una politica della sinistra. Aumento delle paghe basse, per evitare le doppie e triple occupazioni, quotidiane, necessarie per la sopravvivenza. E un occhio ai disoccupati, e agli abbandonati per strada, che negli Stati Uniti sono molti, e di molti generi.
C’è molto da spiegarsi se molti americani continuano a credere a Trump.

L’antisemitismo ritorna con la guerra

Una lettura per più aspetti inquietante, ma che sarebbe opportuno leggere ora. Con gli sviluppi della guerra di Israele contro Hamas e contro quelli che si rifiuta di dire palestinesi, gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania, che combatte in blocco, per quanto anonimi. Perché ogni fenomeno,  anche il più bieco, ha una causa.
Il caso di Céline è diverso. Questo pamphlet fu una sorpresa nel 1937. L’antisemitismo era la politica del Terzo Reich, e Céline era anti-boche , anti-tedesco, da volontario e invalido di guerra del 1914-1918. E non era in Francia, benché l’antisemitismo ancestrale vi fosse diffuso, nella provincia, nel basso popolo, materia di attrazione. Ma Céline sentiva aria di guerra, che temeva, che denunciò con costanza. E sul tema guerra faceva propri i “Procotolli di Sion”, il falso complotto ebraico-massonico per dominare il mondo distruggendolo. Non della pubblicazione propriamente detta, redatta e diffusa dai servizi segreti russi al tempo dell’ultimo zar, ma del sentimento popolare, comune. Era anche reduce da Mosca, dove era stato l’anno prima, la cui falsa rivoluzione aveva denunciato in un precedente libello, “Mea Culpa”, facendone una colpa ai falsi maestri del marxismo-leninismo, da lui identificati in blocco come ebrei.
Perché sarebbe utile la rilettura di questo Céline, dei suoi libelli? Per capire le false conclusioni cui  glo eventi temuti possono portare. Per capire anche, e quindi fronteggiare, la violenza dei miti, delle persone miti – le paure, e le reazioni scomposte. Compreso il vezzo, o vizio, del capro espiatorio, tanto rassicurante per le coscienze. Anche delle vittime del pregiudizio.
Oggi c’è indubbiamente un rigurgito antisemita. Ha delle cause. Che però non vengono analizzate.
Tradotto da Pontiggia e proposto da Guanda nel 1981, quando era proibito in Francia, e ora introvabile, in francese e in ìtaliano, è il primo dei tre pamphlet antisemiti pubblicati da Céline tra il 1937 e 1 il 1941, antibellicisti e antisemiti.

Louis Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda, pp. 187 pp.vv.

giovedì 28 agosto 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (604)

Giuseppe Leuzzi

Calenda non mette nel mirino il “Sud”, critica le candidature regionali di sinistra: Fico in Campania (uno che non sa nulla di amministrazione, e vuole chiudere il termovalorizzatore di  Acerra), Tridico in Calabria (“l’inventore del reddito di cittadinanza, che promette, mentendo, di reintrodurlo a livello regionale con fondi europei”), Emiliano in Puglia (“pretende un posto in consiglio regionale per «garantire» i suoi, ma chi è, un feudatario?”). Calenda non ha peso politico, ma i “vincenti” del Sud sono quello che dice, non hanno altro spessore. Poi dice che il Sud arranca. Con questa “politica”.
 
Prosegue senza novità da parecchie settimane ormai l’inchiesta della Procura di Cosenza che ha costretto alle dimissioni, pur senza imputazioni,  il presidente della Regione, Occhiuto. Senza novità nel senso di prospettare imputazioni che richiedano la decisione di un giudice. Solo voci, indiscerzioni, insinuazioni. Un gioco furbo, sembra. Tanto più che il Procuratore e i vice che che alimentano l’inchiesta, sono di Renzi, “renziani” professi, che hano fatto carriera con Renzi.
Ma, su questo, silenzio totale – sembrerebbe una notizia ghiotta e invece no. E quindi, certo, non si puo’ dire che in Calabria non ci sia la mafia.
 
In previsione del Riesame, l’altrimenti anonimo arcivescovo di Milano Delpini, si sporge sul “Corriere della sera”, nientedimeno. Chiede una intervista, gli danno una pagina, e lui ammonise severo: “Non stimo i magistrati che cercano la ribalta”. Altrimenti? Scomuniche no, non gliene frega nulla a nessuno. Ma un precetto sì, ai giudici. Che subito obbediscono: tre tribunali diversi del Riesame, un unico giudizio – e il perché lo sapremo “a babbo morto”.
Se l’anonimo Delpini, “prete di strada” del defunto papa Francesco, fosse stato di Palermo, avremmo detto il suo un “avvertimento”, mafioso. La differenza è tutta qui, la latitudine
 

Abbasso la Madonna
Monsignor Oliva, vescovo di Locri, non è Delpini – Locri non è Milano. Ma non teme di prendere posizione, se necessario, anche lui. Quest’anno ha tentato di sfrattare la Madonna di Polsi – la Madonna della Montagna che si venera all’interno del massiccio dell’Aspromonte (la Montagna). Che in Calabria, e in mezza Sicilia, è attentato grave, ma lui è protetto dal cardinale Zuppi, nientedimeno, altro “prete di strada” del papa Francesco, ma anche suo uomo di fiducia, di cui ha fatto il capo dei vescovi italiani.
Al monsignore non piacciono le processioni, i pellegrinaggi, la pietas  popolare, tutte queste Madonne che in Calabria si festeggiano (“culto mariano” si, ma….): paganesimo. Ci provò a probirle al tempo del covid, con l’aiuto dei Carabinieri. Quest’anno ha puntato a una”pulizia radicale”. Si è fatto dire da un apposito comitato straordinario adunato a Reggio (la prefetta, il commissario al Comune di San Luca, il sindaco di Locri, l’assessore regionale ai Lavori Pubblici, rappresentanti delle forze dell’ordine, dei vigili del fuoco, del 118 Suem) che le strade di accesso sono franose o in ristrutturazione, e i soccorsi difficili, come se gli altri anni i fedeli ci andassero in autostrada e non  per strade poco più accessibili di un sentiero, oppure a piedi, e ha decretato: “Venite tutti allo stadio di Locri il giorno della festa (il 3 settembre), ci portiamo la Madonna in elicottero e facciamo una bella rimpatriata”, come quando il papa va a incontrare le folle. Paventava solo che lo stadio della Locrese, squadra dilettantistica, di Eccellenza, non bastasse. E invece tutti hanno protestato: non  veniamo. Allora ha ripiegato su un duro no: la statua della Madonna resta dov’è (chiusa a Polsi), si celebrino delle messe nelle “comunità” (nei paesi) che storicamente si riconoscono nella devozione alla Madonna di Polsi. Silenzio. Il gelo come rifiuto - nemmeno più polemiche. Ora l’1 e il 2, un lunedì e un martedì, si vedranno gli effetti dell’ordinanza.
Una vicenda locale ma parecchio assurda. Per l’indigenza combinata della chiesa autodeclassata con la sociologia da caserma – e un pizzico di laicismo, le massonerie ci vogliono sempre.
Il santuario all’interno dell’Aspromonte è a ogni evidenza il luogo di culto con più continutà in Europa, dapprima di Zeus (il culto dendrico, Dodona), o Atena, poi della Madonna che combatte la Sabba Sibilia, e cioè il male (in tema è possibile leggere su questo sito
http://www.antiit.com/2007/09/polsi-il-luogo-di-culto-con-pi.html)
Ma i Carabinieri hanno deciso un quarto di secolo fa, avendo scoperto le virtù dei videmontaggi, che è la Madonna dei mafiosi. E lo hanno ripredicato a lungo ogni anno. Fino a fare allontanare, già nel 2007, il vescovo di Locri Bregantini, il più radicale antimafioso, ed efficace, che aveva da solo rigenerato la Locride ma era inviso (dichiaratamente) alle massonerie locali. Senza dire se i mafiosi fotografati li avevano poi arrestati e condannati (i più sono sempre qui con noi). Una demolizione radicale. Rilanciata cinque o sei anni fa, quando la Madonna mafiosa cominciava a tediare, con le Madonne che usano le processioni per fare “l’inchino ai mafiosi”. Invece di prenderli, di prendere i mafiosi, se la sono presa con la Madonna. Cosi, per la prima volta in 400 anni, come sottolinea lo stesso giornale dei vescovi, la Madonna della Montagna non si festeggia. E tutto sarebbe ridicolo, se la chiesa vuole il suo male. Se non fosse la realtà dell’Aspromonte, un bacino da mezzo milione di persone, poco meno. “Non conosce la Calabria chi non conosce l’Aspromonte, e non conosce l’Aspromonte chi non conosce Polsi”, poteva dire il vescovo Bregantini, di Trento - per questo inviso ai massoni e ai  Carabinieri, e ora, come sembra, ai vescovi “di strada”? 

Sudismi\sadismi – La miniera dei burocrati
Lo Stato – l’ex Stato – si commissaria ormai per tutto: dimissioni, bilancio, mafia, rinvio a giudizio..... Ma la causa importa poco, importa solo che i funzionari prefettizi e i prefetti in pensione abbiano una seconda retribuzione, se non occupazione (bisognerebbe che nella prima funzione facessero qualcosa, si impegnassero, lavorassero - e anche nella seconda, da commissari con licenza tuttofare).
Si commissaria in tutta Italia, ma al Sud in molto più gran numero – e a buon diritto, non siamo al Sud?  I Comuni e ogni azienda pubblica. Specialmente le (ricche) Asp.
Il compito del commissario non è la buona gestione del comune, azienda, bene, ma l’occupazione del comune, l’azienda, il bene, per un periodo congruo a “disintossicarla”, almeno18 mesi - è il business dei business dei burocrati, e quindi smantellarla è impossibile.
E così si fa fatica a capirne la ratio: che senso ha il commissariamento, a parte l’interesse dei burocrati? Alla Asp di Vibo Valentia, decapitata per mafia, era stano nominato commissario alcuni mesi fa, con auto di servizio e scorta armata, un prefetto in pensione, Piscitelli. Che oggi viene rimossso, con un altro prefetto in pensione, Tomao. Senza spiegazioni. Della Asp decapitata non si sa ancora se è vera l’accusa di mafia. Del commissario Piscitelli non si sa nulla. E della sua sostituzione – anche lui per mafia? – nemmeno. A Vibo Valentia si curano, bene e male, come si curavano prima. Solo si sa del nuovo commissario, Tornao, che la velina dell’Interno magnifica, che merita perché è stato prefetto in Calabria, a Cosenza.
Il Sud è il tesoro nascosto della burocrazia, una miniera. Decisamente non arriverà mai al famoso decollo se non si libera dell’“Italia”.
 
Il conto del delitto
“La Corte dei Conti segnala da anni che il costo della corruzine è 60 miliardi per i cittadini”, scrivono i Pm che accusano la giunta Sala a Milano. È “un abbaglio”, spiega Ferrarella sul “Corriere della sera”: nel 2014 Bruxelles attribuì questa stima alla Corte dei Conti, la quale invece due anni prima aveva detto il contrario. Aveva detto inattendibile la cifra, attribuendola a un Procuratore Generale che nel 2009 l’aveva erroneamente attribuita “all’allora Servizio Anticorruzione e Trasparenza del ministero della Pubblica Amministrazione”. Il quale aveva citato la stima come “esempio di opinioni”.
Come nascono molte delle cifre stratosferiche dei fatturati e la potenza finanziaria delle mafie. Nascono tutte alla stessa maniera: spariamola grossa. Pino Arlacchi, il sociologo che quarant’anni fa scoprì, con l’allora Procuratore Capo di Palmi Cordova, la mafia imprenditrice, nel Millennio farfallone si è messo in disparte e tace, per non criticare. Per es. il fatturato dei Casalesi, di una delle bande di Casalesi, più grande del pil della Slovacchia (tanto, la Slovacchia chi sa cos’è e dove si trova). Il “Gomorra” di Saviano è un esempio terrificante di simili calcoli. Che non sono innocui – né innocenti (sarebbero da dementi): danno potenza e consistenza inafferrabili, incontrastabili, a bande di malfattori. Che aspetterebbero solo di essere arrestate e condannate.
La separazione fra magnificazione e denuncia è impossibile – indistinguibile, inutile? Cui bono?
 
Il richiamo della foresta – al bisogno
“Carmelo Versace, già alfiere di Azione, il partito che fece del Reddito di cittadinanza il mostro da abbattere, si ritrova oggi folgorato, sulla via della campagna elettorale regionale. E non dal cielo, ma dal più redditizio (in tutti i sensi) «reddito di dignità»”. Non è una cattiveria di “Tempostretto”, sito locale, Versace vuole che si sappia.
Il “reddito di dignità” è un’altra formula dell’intramontabile Tridico, che portò al quasi fallimento con i governi Conte la finanza pubblica, e cioè l’Italia, e cioè tutti noi. Ci ha pensato su un paio di settimane, prima di trovare la formula giusta per accettare il corteggiamento di Schlein e Conte e  guidare le sinistre alle Regionali, e l’ha trovato, il richiamo è stato immediato.
Carmelo Vesace è in buona compagnia con Conte, il professore compagno di merende di Tridico. Ma Conte è un furbo, Versace (Carmelo) è quello del “bisogno”. La chiave di volta della “povertà” in Calabria. La regione, a causa del “bisogno”?, è restata la più indietro (“povera”) di tutta l’Europa, anche dell’Est. Anche se col “bisogno” viaggia in Mercedes, Bmw, e pure in Porsche.  
Il “richiamo della foresta", si sarebbe detto di Tarzan. Di Carmelo Versace no, è un signore rotondetto, quelo che non si pone problemi di linea perché non fa nulla e nulla vuole fare, il tipico “uomo di centro”.


leuzzi@antiit.eu

Goethe si annoiava, non era noioso

“Questa eccellente raccolta è dedicata a me, ma non permetterò che questo onore mi impedisca di continuare a scrivere.
“Molti autori, compositori e pittori hanno raggiunto fama internazionale nel corso della loro vita, ma Goethe è l'unico che mi viene in mente che sia diventato, e sia rimasto, un'attrazione turistica internazionale per gli ultimi venticinque anni della sua vita. Per chiunque intraprendesse un viaggio in Europa, uomo o donna, vecchio o giovane, tedesco, francese, russo, inglese o americano, "visitare" Goethe era una tappa fondamentale del proprio itinerario, tanto quanto "visitare" Firenze o Venezia.
Ciò appare ancora più strano se si considera che, per la maggior parte dei suoi visitatori, egli era l'autore di un unico libro, I dolori di Werther , scritto quando era giovane. Persino in Germania, solo alcuni dei suoi scritti successivi, Hermann e Dorothea, Faust - Parte I , avevano riscosso grande successo: alcune delle sue opere migliori, Le Elegie romane e Il Divano occidentale-orientale, ad esempio, furono lette da pochi e apprezzate da ancora meno, e quando la Seconda parte del Faust fu pubblicata postuma, un recensore disse: "Così come questo libro è apparso fisicamente dopo la fine della vita fisica di Goethe, così anche il suo contenuto intellettuale è sopravvissuto al suo genio".
“Come e perché Goethe si sia guadagnato la fama, tra persone che lo conoscevano così poco, di essere un saggio e un oracolo pubblico è per me un mistero, e non è l'unico. Ciò che trovo davvero sorprendente nel carattere di Goethe non è il fatto che abbia trattato alcuni dei suoi visitatori con gelida formalità, che alcuni di loro, arrivati ​​aspettandosi di ricevere perle di saggezza, se ne siano andati con niente di meglio di un "Umph!" o un " Davvero pensi così?" , ma che Goethe abbia acconsentito a riceverli. Di tanto in tanto, un visitatore stupido poteva rivelarsi involontariamente divertente, come l'inglese che, avendo interpretato erroneamente " das ächzende Kind" (il bambino che singhiozza) come "das achtzehnte Kind" (il diciottesimo figlio), disse a Goethe di essere sorpreso "che il padre nella ballata di Erlkönig fosse descritto come così eccessivamente preoccupato per il ragazzo, quando dopotutto era stato benedetto da una famiglia così numerosa"; ma quanti di loro dovevano essere dei veri e propri noiosi.
Un vecchio saggio di Auden, una lunga serie di impressioni alla lettura di una raccolta pubblicata negli Stati Uniti di riflessioni e conversazioni di Goethe –che i curatori dedicavano a lui. La conclusione è consolante: “La mia impressione è che Goethe probabilmente soffrisse di malinconia molto più di quanto fosse disposto ad ammettere agli altri, sia nelle sue conversazioni che nei suoi scritti, e, per questo motivo, avesse paura di rimanere solo. Inoltre, nonostante la sua avversione per il fanatismo politico, a suo modo anche Goethe credeva che uno scrittore dovesse essere "impegnato", che una vita puramente letteraria fosse inadeguata per un essere umano, poiché ogni uomo è, nel senso greco del termine, "un animale politico", con responsabilità sociali che non può ignorare senza inibire la propria natura”.
E ancora: “Goethe era un personaggio estremamente complesso e, almeno nella maggior parte degli inglesi e degli americani, suscita sentimenti contrastanti. A volte lo si considera un vecchio noioso e pomposo, a volte un vecchio ipocrita e disonesto o, come disse Byron, "una vecchia volpe che non vuole uscire dalla sua tana e ci fa un bel sermone". Eppure, per quanto ci si possa lamentare, alla fine si è costretti ad ammettere che era un grande poeta e un grande uomo. Inoltre, quando leggo il seguente aneddoto: «Goethe scese improvvisamente dalla carrozza per esaminare una pietra e lo sentii dire: "Bene, bene! Come sei arrivato qui?" - una domanda che ripeté...», mi ritrovo ad esclamare non "Grande signor G!" ma "Caro signor G!”. Un poeta aulico che invece è uno di noi.
W.H.Auden, Signor G.!
, “The New York Review of Books”, free online (leggibile anche in italiano)

mercoledì 27 agosto 2025

Cronache dell’altro mondo – stataliste (355)

Trump ha avviato la più radicale espansione dei poteri federali dal tempo di Franklin D. Roosevelt. Intromettendosi nei governi statali, con l’uso anche della forza militare. Impartendo istruzioni e ordini alle istituzioni private, inclusi i media e le università, su come devono operare. Imponendo agli studi legali di prestare servizi gratuiti al governo. Da ultimo, prendendo una partecipazione nel gruppo tech Intel.
“L’era del big government è finita”, Bill Clinton dichiarava 29 anni fa, Trump non ha ascoltato il messaggio. Il partito Repubblicano, sempre libertario, contrario alle ingerenze politiche della mano pubblica, ora è allineato sull’interventismo di Trump.
(“The Atlantic”)

La strana coppia Alvaro-Pavese, uniti dal mito

Di Alvaro si sapeva, è ovvio, sono le sue radici. Di Pavese tuttora non si sttolinea abbastanza la “scoperta” del mito nel remoto paese marino di Brancaleone, dove fu destinato al confino politico  nel 1935. Per la suggestione del luogo – e del mare, che tanto inquietava Pavese – di remote origini magnogreche. Una scoperta che troverà forma narrativa dapprima nel “Carcere”, il racconto di quella esperienza. Ma soprattutto nei tardi “Dialoghi con Leucò”, Leucotea – un omaggio alla compagna di lavoro alla Einaudi a Roma, e forse qualcosa di più, Bianca Garufi (Leucò è il greco per “bianca”).
Sono gli atti del convegno tenuto a Marina di Gioiosa, San Luca e Brancaleone nell’aprile del 2002. Brancaleone conserva la memoria di Pavese, la casa dove visse, in una stanzetta al pianterreno davanti alle rotaie del trenino e al mare – oggi casa museo. Ma non molto è stato esplorato di Pavese dopo questo convegno, della fascinazione mitica come del resto di ogni aspetto della sua personalità e dell’opera, multiforme.
Aldo Maria Morace-Antonio Zappia (a cura di), Corrado Alvaro e Cesare Pavese nella Calabria del mito, Rubbettino, pp. 272 € 22

martedì 26 agosto 2025

Il mondo com'è (484)

astolfo

Gertrude Bell Quello che le riuscì in politica, sola, combattiva, pratica, in un mondo tutto maschile, isolata nel mezzo del mondo arabo diviso e bellicoso alla dissoluzione dell’impero ottomano, non le riuscì nella vita privata. Si è fantasticato di una sua amicizia particolare con Vita Sackville-West – il “personaggio” che provò anche a fare la scrittrice ma resta famosa per il giardinaggio, e per le vantate relazioni extraconiugali da amazzone intrepida, specie con Virginia Woolf, e poi con Violette Trefusis (benché coniugata, con Harold Nicholson, che anche lui si voleva gay, dopo avere fatto insieme un paio di figli). Gertrude Bell non era donna da pettegolezzo: la corrispondenza con Vita Sackville-West, che più che altro deve a lei ispirazione e motivi dei suoi racconti persiani, è solo rispettosa, da buona educazione: le due gentildonne si erano incontrate socialmente, forse a Costantinopoli,  forse a Londra. Nel 1926 Vita si recò in visita da Gertrude a Bagdad, lei di 34 anni,  Gertrude di 57, e già stanca – reduce dalla terza, e a questo punto ultima, sfortunata avventura amorosa, con Kinahan “Ken” Cornwallis, diplomatico, che gli annali registrano nella qualità di consigliere (per conto di Londra) del re iracheno Feisal I – che Gertrude aveva messo in trono a Versailles, alla dissoluzione dell’impero ottomano, praticamente da sola.

Gertrude ebbe tre relazioni importanti, ma morì sola, di dispiacere. Il primo innamorato, Henry Cadogan, 24 anni, conosciuto in Persia da ragazza al suo primo viaggio, che sembrava la scelta ideale, lo perse per l’opposizione ferma del proprio padre, il padre di lei. Gli altri due perché erano sposati. Cadogan era il segretario dello zio di Getrude, Frank Lascelles, ambasciatore britannico a Teheran, e compartiva con Gertrude la passione per il poeta e mistico sufi Hafez, che lei tradurrà. Ma aveva il vizio del gioco, con molti debiti – come il padre evidentemente sapeva dal cognato Lascelles - e sarà qualche tempo dopo trovato morto in un fiume ghiacciato sulle montagne in Persia. Il secondo amore era stato per “Dick” Doughty-Wylie, durante la Grande Guerra, dopo l’incontro a Costantinopoli, dove lui, ex colonnello, coetaneo, era in missione diplomatica: fu un amore per lo più epistolare, lui era  sposato, e presto morirà, nel 1915, due anni dopo la prima conoscenza, in guerra a Gallipoli – “Dick” familiarmemte, in realtà Charles. Il terzo amore, Kinahan “Ken” Cornwallis, lavorava con lei, per conto del governo britannico, “consigliere” del re Feisal, alla creazione dello stato iracheno attorno alla famiglia hascemita - presso il quale sarà poi ambasciatore di Londra: sposato anche lui, fu l’ultima illusione-delusione, quella che la mostrerà ultracinquantenne e disfatta all’incontro richiesto da Vita Sackville-West nel 1925. A lui, in quei giorni a Bagdad, Gertrude scrisse un biglietto il giorno prima della morte, per chiedergli di occuparsi della cagnetta Tundra - Cornwallis ignorò il biglietto, la domanda implicita di aiuto.
Morì di troppe pasticche il 12 luglio 1926, a Bagdad, la notte dopo una cena ufficiale. Era indebolita, da malaria, bronchite, pleurite. Forse reduce da una diagnosi, a gennaio dello stesso anno, in visita in Inghilterra, di cancro ai polmoni - era grande fumatrice. In lutto per la morte del fratello Hugo, di tifo. Di sicuro si sentiva isolata, benché onorata in Iraq. Isolata nel femminismo, che non condivideva - si era opposta al suffragio femminile. Mark Sykes, eminenza grigia al Foreign Office, quello dell’ultimo imperialismo coloniale europeo (laccordo Sykes-Picot, anglo-francese, per la spartizione del Medio Oriente) la disprezzava perché donna - Gertrude non ne fu sopraffatta perché Sykes morì di spagnola, a Parigi per i colloqui di pace (e di spartizione dell’impero ottomano). Della insorgenza araba tutto il merito veniva dato a T.E.Lawrence, di venti anni più giovane, e sempre indeciso.
Molto si è scritto sul fatto che viaggiava per il Medio Oriente semidesertico e “inesplorato” con vere e proprie spedizioni, di servitù per ogni funzione, bagagli innumerevoli, e l’esibizione di mise  vestimentarie e cosmetiche più variate e aggiornate. Volendo, si potrebbe argomentare, conoscendo poco poco il mondo arabo, specie quello tribale e nomade, che non lo faceva per eccentricità ma per manifestare i segni del potere, necessari, tanto più a una donna. Ma viaggiava a cavallo, in sella anche per molti giorni, per molte ore al giorno. E amava le montagne: nel 1911, quando si apprestava alla terza spedizione in Medio Oriente, a 43 anni, contava dieci prime scalate nelle Alpi Bernesi. In quella spedizione, nel 1913, si avventurò nel deserto del Negev, il Quarto Vuoto della penisola arabica, una dei tre o quattro europei sopravvissuti alla traversata, fino a Hayil, quartier generale di Ibn Rashid, potente emiro dArabia, fedele agli Ottomani - che presto sarà sopraffatto, morendo in battaglia, da Ibn Saud.    
La prima donna laureata a Oxford. Che è stata in Persia a venti anni e ne ha scritto a ventisei. Solidamente: il primo libro moderno (contemporaneo) sull’Iran, repertorio di molti successive, anche per la parte politica. Specie l’inconsistenza del potere imperiale, se non nelle forme di accettazione rituali – si era devoti allo scià come oggi alla Guida Suprema, come si lacrima per Husseyn a metà del mese di Moharram, tra un pasticcino e una chiacchiera. 

La prima, moderna, fattuale, scrittrice di viaggi. La sua opera prima, nel 1894, “Ritratti persiana”, mantiene una singolare vivacità e veridicità ancora oggi, un secolo e quasi mezzo dopo. Id è il primo racconto del Medio, o Vicino, Oriente dal vivo, di cose viste. Racconto ferace, battistrada di Robert Byron, Vita Sackville-West, Schwarzenbach, Chatwin, Peter Levy – dopo Richard Burton naturalmente. “L’Oriente guarda se stesso: non sa nulla del mondo esterno di cui sei cittadino, non ti chiede niente di te e della tua civiltà”. Valeva allora, 1894, forse meno di quanto valga ora. Anche perché Oriente e Occidente, anatomizzati, sono concetti storici più che geografici, poco congruenti e anche poco consistente. E tuttavia con un fondo di verità. Una donna iraniana, pur dopo un secolo di modernizzazione, e libera sessualmente, fino al sighé, il matrimonio a tempo, resta ritrosa e in difficoltà alla stretta di mano, tanto più all’abbraccio e bacio di saluto. Ancora più vero ai capitoli sui nomadi, la civiltà maschile, l’anderun, luogo femminile della casa, “di infelicità, di esistenze insulse”. E i deserti, i qanat, le torri del Silenzio, il fumo al qalyān (narghilé), profumato, i giardini segreti. In un Oriente “segreto” per modo di dire – l’Oriente di cui più non si può più dire dopo Edward Said (sottacendo il fatto che Said è un palestinese, cioè un arabo “occidentale”, anche nella critica).

La prima funzionaria militare britannica. Per di più nel settore intelligence, ingaggiata dal governo nel 1914 per la sua conoscenza del mondo arabo, e subito addetta all’Arab Bureau al Cairo, insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la resistenza contro l’impero ottomano, alleato in guerra degli imperi centrali. Creatrice nel primo dopoguerra dell’Iraq, in ogni senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla Mecca, dall’Arabia poi Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini - che in qualche misura reggono, malgrado le persistenze tribali indistruttibili.
(3. fine)
 
George Augustus Polgreen Bridgetower – (Galizia, ca 1779 – Peckam 1860) – Violinista mulatto, esordì come enfant prodige, affermandosi a Londra, primo violino dell’orchestra del principe di Galles (il futuro re Giorgio IV). In tournée in Centro Europa a 25 anni, nel 1803 fu a Vienna, dove strinse amicizia con Beethoven. Che gli dedicò la Sonata per violino e pianoforte op. 47 – poi nota come “Sonata a Kreitzer”. Con una dedica scherzosa. “Sonata mulattica composta per il mulatto Bridgetower, gran pazzo e compositore mulattico”. Il rapporto fu scherzoso anche nell’esecuzione della sonata, a maggio del 1803. Il compositore Carl Czerny annotò: “Bridgetower suonava in modo molto stravagante. Durante l’esecuzione della Sonata, con Beethoven ridevamo di lui”.
La Sonata era stata approntata però in fretta, sia la composizione che l’esecuzione. La parte del violino del primo movimento fu pronta solo qualche giorno prima. Il secondo movimento Bridegtower poté leggerlo sol sullo spartito del pianista, non essendoci stato il tempo per copiare lo spartito. In calce alla copia della sonata in suo possesso Bridgetower aveva introdotto una cadenza al “Presto” del primo tempo, che Beethoven aveva accolto entusiasticamente, Ma non ne tenne pi conto nel pubblicare la sonata, nel 1805, quando risulta dedicata a Rodolphe Kreutzer, grande violinista francese,da Beethoven conosciuto a Vienna già nel 1798. Con una dedica molto lusinghiera: “Una buona e brava persona di cui ho molto goduto la compagnia  durante il suo soggiorno a Vienna. La sua modestia e la sua naturalezza mi sono più care di tutto quanto esteriore o interiore nella maggior parte dei virtuosi”.
Come s’era interrotto il rapporto amichevole di Beethoven cno Bridgetower?  Secondo il musicologo australiano J. R. Thirlwell – non una fonte affidabile - c’era stata una lite per via di una ragazza. Probabilmente Giulia Guicciardi, la nobildonna austriaca , nata in Polonia, che era stata allieva di pianoforte di Beethoven, futura contessa  von Gallenberg.
Kreutzer non gradì l’omaggio e non eseguì la sonata, scusandosi che era troppo difficile, e che comunque era già stata eseguita. Secondo Berlioz aveva trovato a sonata “oltraggiosmente inintelligibile”.
 
Bugatti – Ritorna la Bugatti, un prototipo,  a ricordo della bellezza che contraddistingueva il marchio - una hypercar, da 26 milioni. In precedenza si erano fatte, su richiesta, 500 Chiron, numero chiuso, e 250 Tourbillon. La nuova Bugatti si chiamerà Brouillard, la nebbia, ha solo 1.600 di cilindrata, ma un apparato bijoux.
È un “emigrato” milanese, Ettore Bugatti, l’ideatore dei modelli che fecero epoca tra le due guerre e il fondatore della casa automobilistica col suo nome, nel 1909 (cesserà l’attività nel 1973, venticinque anni dopo la sua morte). Aveva cominciato presto a Milano Bugatti, a 14 anni, quando, iscritto all’Accademia di Brera, montò su un triciclo Prinetti e Stucchi un motore De Dion-Bouton. Tre anni dopo aveva abbandonato l’Accademia per entrare nella fabbrica – Prinetti e Stucchi faceva biciclette e macchine da cucire. E con i modellini di triciclo da lui adattato partecipava alle prime corse. Nel1898, a 17 anni, metteva a punto la prima, Tipo 1, di una serie lunga di Tipo – che era anche la prima macchina a montare gli pneumatici Pirelli: un triciclo, cui applicò un motore da 4 cv, con il quale partecipò a due corse, la Nizza-Castellane in Francia e la Verona-Brescia-Mantova-Brescia, vincendole entrambe. Era il 1899. L’anno dopo era in grado di aprire una officina propria, e di costruirci la prima vera automobile, che chiamò Tipo 2. Si procurò il capitale necessario costituendo una società con due ricchi fratelli di Ferrara, i conti Oberto e Olao Gulinelli, allevatori di purosangue.  La Tipo 2 volle già “lussuosa” – ma corse e vinse nel 1901 il Gran Premio di Milano.
Questa vittoria lo portò all’attenzione di un importante industriale metallurgico alsaziano, De Dietrich, che lo volle suo manager – il contratto fu firmato dai genitori del neo designer-costruttore, ancora minorenne. Con De Dietrich partì la seconda vita del giovane Bugatti, dapprima in Germania poi in Francia – seguendo gli spostamenti dell’Alsazia, regione mista di frontiera. Con De Dietrich Bugatti realizzò altre due Tipo. Ma nel mentre era già passato a collaborare con altre aziende, la francese Mathis e la tedesca Deutz, di Colonìa – con altri quattro modelli di Tipo. Poi prese a lavorare in proprio, costruendo nel garage una Tipo 10, spartana, non “bugattiana”, ma tecnicamente avanti (distribuzione ad asse a camme in testa).
In meno di un decennio fu in grado di lanciare la sua propria casa, la Automobiles Ettore Bugatti. Macchine legger ma potenti, ed eleganti. La fondò nel Basso Reno, a Molsheim, dove era arrivato da ragazzo con De Dietrich. La prima Bugatti fu quindi una casa automobilistica tedesca. Diventerà francese nel 1919, col trattato di pace.
Sempre memore dei Golinelli, che lo avevano aiutato per primi, gli allevatori di purosangue, volle per le sue vetture un caratteristico radiatore a forma di ferro di cavallo – e un figlio battezzò Gianroberto, come il figlio del conte Olao. Al salone di Parigi del 1910 poteva presentare la sua macchina, la Tipo 13, del modello che in francese fu battezzato “torpedo”, come il pesce, due posti, scoperta e a carrozzeria filante – il tipo poi “spider”. Una macchina sportiva, successivamente ingrandita  per quattro e sei posti, con una capote a copertura. L’attività fu sospesa durante la guerra, che vide i capannoni di Bugatti distrutti.
Già allo scoppio della guerra, molto prima che l’Italia scendesse in campo contro gli Imperi centrali, Bugatti si era precipitato a rientrare a Milano. Da dove, col fratello Rembrandt, tornò al prolungarsi della guerra in Alsazia per sotterrare tre motori da competizione che aveva approntati primo della deflagrazione.
Furono cinque anni drammatici per Bugatti – anche per il suicidio di Rembrandt. Tornerà in possesso della fabbrica, solo macerie, nel 1919, con la nuova nazionalità Francese. Riavviò l’attività con il ricavato della vendita di molti brevetti ai concorrenti. Coi motori ideati prima, e sepolti durante la guerra, costruì una 1.500 bialbero in testa, la Tipo 13, continuando a vincere tutte le gare, nel 1920 e nel 1921.
Il designer-costruttore era di una famiglia di artisti, di Nova Milanese. Il padre Carlo era designer  di mobili e gioielli in stile “floreale”. Rembrandt, il fratello minore che poi si suicidò, era scultore. Una sorella della madre, la zia Luigia, detta “Bice”, era la moglie di Segantini, il pittore. Il nonno paterno, Giovanni Luigi, era scultore anche lui, e architetto.
 
Giustino Fortunato - Furono due. Il meridionalista ebbe uno zio omonimo che fece lunga e complicata carriera in epoca borbonica, tra carboneria e incarichi pubblici, ricoperti sotto il re Ferdinando II. Dopo essere stato uomo di fiducia di Gioacchino Murat – e forse quello, o uno di quelli, che l’attirò alla trappola di Pozzo.
 
Gladstone - Il liberale Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza dell’Irlanda.
Delle prigioni napoletane tanto famosamente da lui screditate, confesserà che non ne aveva mai visitato una.

astolfo@antiit.eu

Pavese, chi era costui

La riedizione “fuori” Einaudi cinque anni fa del diario pavesiano ha la maggiore novità nella prefazione di Nadia Terranova (invece che di Starnone), che pone anche lei un dilemma Pavese, spostandolo dall’impoliticità al disamore. A una sorta di incapacità di Pavese di innamorarsi. Per di più di donne di spessore, come suole dirsi, “le uniche ad avere delle opinioni sulla scrittura che a Cesare Pavese interessino davvero”. E nomina Bianca Garufi, Fernanda Pivano e Tina Pizzardo. Che non è vero: Tina Pizzardo non c’entra con la letteratura, è la donna per la quale l’impolitico Pavese si fece il confino, salvo trovarla alla liberazione già sistemata con altri – e senza nessuna pietas. Pivano cominciava con Pavese, non era ancora la “temibile Pivano” – e allora perché non aggiungere le Dowlings? Con Garufi, che lo aprì al mito (sic!), il rapporto ci fu, ma da colleghi di stanza e coautori, di buono o ottimo livello intellettuale.
“Pavese è terrorizzato dalle donne che ama, donne che infestano la sua letteratura”, insiste Terranova. Infestano? Annie Ernaux le ha trovato ispiratrici. I disamori di Pavese hanno altre radici, in una personalità complicata, sempre insicura malgrado lo status (riconosciuto e anzi celebrato, censito e recensito, premiato. di traduttore, autore, dirigente editoriale), che però non si scandaglia. E in questo senso è vero che Pavese è stato e resta un uomo solo, senza il Grande Amico, il Lettore che gli dia la necessaria consistenza. Si ristampa anche poco, benché “libero” dai diritti d’autore, e senza impegno critico.
Questo “Mestiere di vivere” si ristampa con aggiunto il cosiddetto “Diario segreto”, la dozzina di paginette estemporanee di domande a se stesso sulla sua “impoliticità” durante la guerra, l’incapacità , o inanità, di schierarsi. Per fare pubblico, per attirare con la curiosità, se non (più) il pettegolezzo. Mentre è per tutti i versi un autore “attualissimo”, uno dei pochi che resistono alla decimazione del secondo Novecento.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Bur, pp. 640 € 12

lunedì 25 agosto 2025

Problemi di base - 877

spock


Niente è niente?
 
Si vive di più ricordando, oppure rimuovendo?
 
La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. Orwell?


O va letto al contrario: la pace è guerra, la schiavitù è libertà, la forza è ignoranza?


Che saggezza c’è nella saggezza?
 
C’è sempre del ridicolo nella tragedia?

spock@antiit.eu

La poesia del femminicidio

“Se Dio è nel suo paradiso\ tutto va bene sua terra”. E l’amante, pensandoci e ripensandoci,  conclude che se uccide l’amata la terrà sicuramente avvinta a sé, per sempre. Porfiria viene così strangolata, con i suoi stessi capelli, dal suo innamoratissimo amante.
Un poemetto breve, classificato “monologo drammatico”.
Si vede che il femminicidio cambia prospettiva con il secolo – R. Browning lo scrisse e pubblicò due secoli fa, 1836. Ma in una società “progredita” e ben borghese, considerata. Il pubblico ne fu scioccato, ma non molto understatement.
English for Italians ne propone la traduzione letterale, interlineare, di Carmelo Mangano.
Robert Browning, L’amante di Porfiria, pdf, scaricabile

domenica 24 agosto 2025

E il vescovo disse: assolveteli tutti

Era sfuggita, ma è grandiosa, epocale, l’intervista furibonda che l’altrimenti anonimo arcivescovo di Milano Delpini ha chiesto e ottenuto di dare al “Corriere della sera” il l8 agosto. Per dire, con brutalità gentilizia, patrizia, altro che “prete di strada” come si vuole, due cose: «Ho grande fiducia nella gente che lavora onestamente e che assume responsabilità per il bene comune. Ho stima e fiducia nei magistrati che svolgono il loro lavoro con coscienziosità e con la sincera ricerca della verità. Non di quelli che cercano la ribalta della notorietà e l’effetto politico degli indizi, piuttosto che la valutazione obiettiva dei comportamenti dei cittadini. Ho stima e fiducia negli amministratori che assumono la responsabilità del bene comune con onestà e intelligente lungimiranza. Ma non di quelli che asserviscono il loro potere a interessi di parte o personali. Ho stima e fiducia negli operatori della comunicazione che informano la gente con onestà ed equilibrio. Ma non di quelli che fanno dell’informazione un’arma per condannare, se non diffamare, con inappellabile severità, prima che le vicende giudiziarie si concludano».
Qui la cosa inizia, brutale, e qui finisce – il resto è blabla, malgrado la fatica di Giampiero Rossi di fare sbottonare l’Eccellenza – una sola cosa aveva da dire: liberateli tutti. Fatto.

Ombre - 788

“Sette mesi di crollo del dollaro. Dopo l’arrivo di Trump il 21 gennaio si è deprezzato di circa il 10 per cento”. Si è deprezzato del 15 per cento - qualche giorno anche di più - ma non sottilizziamo. E “Il Sole 24 Ore” ne fa la scoperta oggi?
E ancora non ha scoperto cosa Trump vuole e sta facendo.
 
Non si sa, non si scrive, che cosa il cantante Pappalardo ha detto e fatto contro Meloni "sbattuta” da Trump,  solo che ha detto “frasi offensive”, accompagnate da “gesti all’inguine”. Per rispetto di Meloni o del cantante? Singolare riguardo dei media.
 
Fischiato al primo brano, il cantante Pappalardo s’è subito scusato. Furbo, con questa spiega: “Un energumeno, prima che salissi sul palco, mi ha preso per un braccio e mi ha detto: «Qui siamo tutti compagni, tutti di sinistra»”. E intende: un provocatore, pagato dalla destra. Se non che la destra ha invece pagato la sua esibizione – il Comune di Fiumicino, che si governa  a destra.  
 
Il governo, si scopre nell’occasione, l’Interno, finanzia i Comuni l’estate per i concerti gratuiti – con somme importanti. Pappalardo aveva cominciato col lamento: “Ci stanno togliendo tutto, grazie al governo di oggi, che continua a togliere, togliere, togliere”. Questo viene specificato dai media, non c’è censura benché immorale. È proprio l’Italia del “bisogno”.
 
La Germania, dopo tre anni di titubanza, prova a dire che il suo megagasdotto con la Russia e è stato sabotato dagli ucraini che subito l’attenzione si distoglie col sabotaggio del gasdotto che dalla Russia rifornisce Ungheria e Slovacchia. L’Ungheria si lamenta: “Cercano di spingerci alla guerra”. L’Europa ancora non sa in che imbuto si è messa facendosi orientale, slava e balcanica - niente funziona più dal famoso “allargamento” di Prodi (“glielo dobbiamo”, che vorrà dire?): il Kossovo, la guerra alla Serbia, le “rivoluzioni” antirusse in Ucraina, Moldavia, Romania, Georgia.
 
Si ironizza su Draghi che a Rimini ha di fatto dichiarato l’Ue “morta”, cioè inerte. Mentre è l’evidenza: è un mercato comune, peraltro non più gestito, bene o male, dall’asse franco-tedesco, che non ha idee né forze, né forse più interesse. Gestisce il minimo, in un mondo in forte effervescenza, negli sviluppi tecnologici e nell’aggressività commerciale – senza contare la sua inanità sul piano militare e politico, come è palese nelle guerre in corso,tutte di prossimità, cioè “sue.
 
Si diffondono, ogni giorno, finte foto di pentole vuote, agitate da donne e uomini che si dicono palestinesi, di fronte a calderoni che si dicono cucine da campo. Opera sicuramente di Hamas, le pentole, tutte lustre, i cosiddetti palestinesi, e le caldaie che non si capisce se sono piene oppure vuote. Roba da (non) crederci? Avveniva in Germania quando i tedeschi “non sapevano”.
Ma, poi, non si dice ma si sa, che i tedeschi sono ebrei, la tredicesima tribù di Koestler dispersa – e quindi gli ebrei di oggi sono tedeschi, in materia di sapere e non sapere?
 
“Reddito di cittadinanza. Per l’Inps, abolendolo, l’occupazione è cresciuta”. Perbacco, ci voleva l’Inps per capirlo – dopo la presidenza Tridico, l’inventore del reddito, autocertificatosi keynesiano.
Certo, povero Keynes, è da compiangerlo, in mano ai Tridico-con-Conte.
 
Il primo pensiero dell’immensamente ricco (Fuksas dixit) Catella, il principe della Nuova Urbanistica milanese, appena assolto, subito, dal Tribunale del Riesame è per l’arcivescovo Delpini. E tutto si lega: la miliardaria Nuova Urbanistica, che “ristruttura” garage in dodici o diciotto piani, “residenziali”, l’assoluzione pronta del Riesame, giudici onorati, e l’omaggio al (non) cardinale di Milano. Al centro dello “sviluppo” ambrosiano, oggi come negli anni 1960, e anche nei 1980 del sant’uomo Martini, c’è l’Opera del Duomo, la curia.
 
Delpini, chi era costui?, è uscito dall’anonìmato per ammonire i giudici, sul “Corriere della sera”, in prima pagina: “Non stimo i giudici che cercano la ribalta”. E il“Corriere” ha obbedito: nessun nome dei giudici del Riesame garanti della Nuova Urbanistica –fino a un certo punto: la assolvono con riserva, la furbizia democristiana non viene mai meno.
 
Su Milano non si può dire che non abbia ragione Jacopo Fo sul Leoncavallo: “Per la cultura popolare non c’è spazio, a Milano c’è spazio solo per chi costruisce grattacieli”. Sala aveva promesso in cambio la Palazzina Liberty. Fo ci lavora settimane e mesi, manda il progetto, non riesce a parlare più con nessuno: “Sono scomparsi”. Fo propone allora la giornata dell’Associazionismo, “dal coro della chiesa a chi lavora con disabili e bambini”, per avere “visibilità e riconoscimento”. Sala: “Facciamolo subito”. Altre giornate e settimane di lavoro. Poi “nessuno ha più risposto al telefono”.
Non è finita. Commenta Sala: “Non lo sapevo”. Certo, Fo non è Delpini.
 
Tutti assolti dunque a Milano prima ancora di iniziare il processo – con qualche riserva, non si sa mai, i giudici sono prudenti.  Ma si tengono accuratamente celati i nomi dei giudici del riesame. Vuoi che abbiano, magari in comodato non a titolo di proprietà, per carità, un affaccio nei grattacieli. Perché Di Pietro ce l’aveva, per il figlio Cristiano diciottenne, a “equo canone” (nel 1993?) dalla Cariplo, in via Manzoni, “dove i nomi sul citofono sono sostituiti da numeri e i portinai hanno l’aria più snob della gente che ci abita”.
 
Botte da orbi in Spagna fra Procure e governo socialista. Con intervento del Csm a favore del governo. Senza eco in Italia. Dove vige la teoria dell’imparzialità della giustizia – la giustizia è sacra, eccetera.
 
“E l’Unione Europea?”, chiede Sky Tg Insider rispettoso, al vertice Trump-Zelensky. “I leader hanno scortato Zelensky al tavolo ma si sono limitati a qualche commento sulla «intensità» dei colloqui. Trump ha scherzato con loro, facendo i complimenti a Giorgia Meloni per la longevità del suo governo e al cancelliere tedesco Merz per la qualità della sua abbronzatura”. Risposta rispettosa, non c’è ironia.
 
Fabrizio Palenzona, presenza prestigiosa in molte banche solo per essere Dc (si fece anche vice-presidente di Unicredit, in qualità di consigliere autonominato di Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, nonché consigliere o presidente di Mediobanca, Abi, Aviva, Prelios etc.), fa le pulci a Panerai per avere scritto che Merzagora era massone, e Cuccia pure. Che è vero.
Ma la cosa è curiosa in quanto il “manager democristiano” interviene a difesa di Mediobanca. Interviene mentre Meloni e Giorgetti si prendono al ribasso Mediobanca-Generali per dire che l’offensiva non è da vecchia cordata Dc.

W. Pedullà e il segreto D’Arrigo

Una memoria grata del padre Walter, a proposito della sua amicizia incondizionata con Stefano D’Arrigo, quasi un totem, della sua propria passione per la ricerca, i linguaggi, la “scrittura”, e quindi sulla mezza vita spesa per e con “Horcynus Orca”. Con molte curiosità – perché la H, perché la y…. E con un segreto su D’Arrigo confidato al figlio in segreto e d’autorità in uno degli ultimi momenti – che Gabriele non svela ma è probabilmente che D’Arrigo era figlio di una prostituta (ma è vero, Walter ne aveva prove, o è una fantasia dello scrittore?). Da leggere non tanto per il cumulo dell’aneddotica, quando per una semplice e evidente considerazione, che pure non si fa: “Era un periodo (quello in cui Walter operava come “critico militante”, n.d.r.) in cui tutti gli autori importanti avevano dei critici di riferimento, che li consigliavano e nei momenti di scoramento li rincuoravano, aiutandoli anche psicologicamente”. Niente più critici, niente più autori - non c’è l’Autore senza il suo Critico.
È anche per questo che non c’è più una letteratura contemporanea - si pubblica molto e moltissimo, e molte riviste letterarie pure si pubblicano, ma è solo commercio?
Gabriele Pedullà, La mia vita insieme all’Orca, “Il Sole 24 Ore Domenica”