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mercoledì 27 agosto 2025

Cronache dell’altro mondo – stataliste (355)

Trump ha avviato la più radicale espansione dei poteri federali dal tempo di Franklin D. Roosevelt. Intromettendosi nei governi statali, con l’uso anche della forza militare. Impartendo istruzioni e ordini alle istituzioni private, inclusi i media e le università, su come devono operare. Imponendo agli studi legali di prestare servizi gratuiti al governo. Da ultimo, prendendo una partecipazione nel gruppo tech Intel.
“L’era del big government è finita”, Bill Clinton dichiarava 29 anni fa, Trump non ha ascoltato il messaggio. Il partito Repubblicano, sempre libertario, contrario alle ingerenze politiche della mano pubblica, ora è allineato sull’interventismo di Trump.
(“The Atlantic”)

La strana coppia Alvaro-Pavese, uniti dal mito

Di Alvaro si sapeva, è ovvio, sono le sue radici. Di Pavese tuttora non si sttolinea abbastanza la “scoperta” del mito nel remoto paese marino di Brancaleone, dove fu destinato al confino politico  nel 1935. Per la suggestione del luogo – e del mare, che tanto inquietava Pavese – di remote origini magnogreche. Una scoperta che troverà forma narrativa dapprima nel “Carcere”, il racconto di quella esperienza. Ma soprattutto nei tardi “Dialoghi con Leucò”, Leucotea – un omaggio alla compagna di lavoro alla Einaudi a Roma, e forse qualcosa di più, Bianca Garufi (Leucò è il greco per “bianca”).
Sono gli atti del convegno tenuto a Marina di Gioiosa, San Luca e Brancaleone nell’aprile del 2002. Brancaleone conserva la memoria di Pavese, la casa dove visse, in una stanzetta al pianterreno davanti alle rotaie del trenino e al mare – oggi casa museo. Ma non molto è stato esplorato di Pavese dopo questo convegno, della fascinazione mitica come del resto di ogni aspetto della sua personalità e dell’opera, multiforme.
Aldo Maria Morace-Antonio Zappia (a cura di), Corrado Alvaro e Cesare Pavese nella Calabria del mito, Rubbettino, pp. 272 € 22

martedì 26 agosto 2025

Il mondo com'è (484)

astolfo

Gertrude Bell Quello che le riuscì in politica, sola, combattiva, pratica, in un mondo tutto maschile, isolata nel mezzo del mondo arabo diviso e bellicoso alla dissoluzione dell’impero ottomano, non le riuscì nella vita privata. Si è fantasticato di una sua amicizia particolare con Vita Sackville-West – il “personaggio” che provò anche a fare la scrittrice ma resta famosa per il giardinaggio, e per le vantate relazioni extraconiugali da amazzone intrepida, specie con Virginia Woolf, e poi con Violette Trefusis (benché coniugata, con Harold Nicholson, che anche lui si voleva gay, dopo avere fatto insieme un paio di figli). Gertrude Bell non era donna da pettegolezzo: la corrispondenza con Vita Sackville-West, che più che altro deve a lei ispirazione e motivi dei suoi racconti persiani, è solo rispettosa, da buona educazione: le due gentildonne si erano incontrate socialmente, forse a Costantinopoli,  forse a Londra. Nel 1926 Vita si recò in visita da Gertrude a Bagdad, lei di 34 anni,  Gertrude di 57, e già stanca – reduce dalla terza, e a questo punto ultima, sfortunata avventura amorosa, con Kinahan “Ken” Cornwallis, diplomatico, che gli annali registrano nella qualità di consigliere (per conto di Londra) del re iracheno Feisal I – che Gertrude aveva messo in trono a Versailles, alla dissoluzione dell’impero ottomano, praticamente da sola.

Gertrude ebbe tre relazioni importanti, ma morì sola, di dispiacere. Il primo innamorato, Henry Cadogan, 24 anni, conosciuto in Persia da ragazza al suo primo viaggio, che sembrava la scelta ideale, lo perse per l’opposizione ferma del proprio padre, il padre di lei. Gli altri due perché erano sposati. Cadogan era il segretario dello zio di Getrude, Frank Lascelles, ambasciatore britannico a Teheran, e compartiva con Gertrude la passione per il poeta e mistico sufi Hafez, che lei tradurrà. Ma aveva il vizio del gioco, con molti debiti – come il padre evidentemente sapeva dal cognato Lascelles - e sarà qualche tempo dopo trovato morto in un fiume ghiacciato sulle montagne in Persia. Il secondo amore era stato per “Dick” Doughty-Wylie, durante la Grande Guerra, dopo l’incontro a Costantinopoli, dove lui, ex colonnello, coetaneo, era in missione diplomatica: fu un amore per lo più epistolare, lui era  sposato, e presto morirà, nel 1915, due anni dopo la prima conoscenza, in guerra a Gallipoli – “Dick” familiarmemte, in realtà Charles. Il terzo amore, Kinahan “Ken” Cornwallis, lavorava con lei, per conto del governo britannico, “consigliere” del re Feisal, alla creazione dello stato iracheno attorno alla famiglia hascemita - presso il quale sarà poi ambasciatore di Londra: sposato anche lui, fu l’ultima illusione-delusione, quella che la mostrerà ultracinquantenne e disfatta all’incontro richiesto da Vita Sackville-West nel 1925. A lui, in quei giorni a Bagdad, Gertrude scrisse un biglietto il giorno prima della morte, per chiedergli di occuparsi della cagnetta Tundra - Cornwallis ignorò il biglietto, la domanda implicita di aiuto.
Morì di troppe pasticche il 12 luglio 1926, a Bagdad, la notte dopo una cena ufficiale. Era indebolita, da malaria, bronchite, pleurite. Forse reduce da una diagnosi, a gennaio dello stesso anno, in visita in Inghilterra, di cancro ai polmoni - era grande fumatrice. In lutto per la morte del fratello Hugo, di tifo. Di sicuro si sentiva isolata, benché onorata in Iraq. Isolata nel femminismo, che non condivideva - si era opposta al suffragio femminile. Mark Sykes, eminenza grigia al Foreign Office, quello dell’ultimo imperialismo coloniale europeo (laccordo Sykes-Picot, anglo-francese, per la spartizione del Medio Oriente) la disprezzava perché donna - Gertrude non ne fu sopraffatta perché Sykes morì di spagnola, a Parigi per i colloqui di pace (e di spartizione dell’impero ottomano). Della insorgenza araba tutto il merito veniva dato a T.E.Lawrence, di venti anni più giovane, e sempre indeciso.
Molto si è scritto sul fatto che viaggiava per il Medio Oriente semidesertico e “inesplorato” con vere e proprie spedizioni, di servitù per ogni funzione, bagagli innumerevoli, e l’esibizione di mise  vestimentarie e cosmetiche più variate e aggiornate. Volendo, si potrebbe argomentare, conoscendo poco poco il mondo arabo, specie quello tribale e nomade, che non lo faceva per eccentricità ma per manifestare i segni del potere, necessari, tanto più a una donna. Ma viaggiava a cavallo, in sella anche per molti giorni, per molte ore al giorno. E amava le montagne: nel 1911, quando si apprestava alla terza spedizione in Medio Oriente, a 43 anni, contava dieci prime scalate nelle Alpi Bernesi. In quella spedizione, nel 1913, si avventurò nel deserto del Negev, il Quarto Vuoto della penisola arabica, una dei tre o quattro europei sopravvissuti alla traversata, fino a Hayil, quartier generale di Ibn Rashid, potente emiro dArabia, fedele agli Ottomani - che presto sarà sopraffatto, morendo in battaglia, da Ibn Saud.    
La prima donna laureata a Oxford. Che è stata in Persia a venti anni e ne ha scritto a ventisei. Solidamente: il primo libro moderno (contemporaneo) sull’Iran, repertorio di molti successive, anche per la parte politica. Specie l’inconsistenza del potere imperiale, se non nelle forme di accettazione rituali – si era devoti allo scià come oggi alla Guida Suprema, come si lacrima per Husseyn a metà del mese di Moharram, tra un pasticcino e una chiacchiera. 
La prima funzionaria militare britannica. Per di più nel settore intelligence, ingaggiata dal governo nel 1914 per la sua conoscenza del mondo arabo, e subito addetta all’Arab Bureau al Cairo, insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la resistenza contro l’impero ottomano, alleato in guerra degli imperi centrali. Creatrice nel primo dopoguerra dell’Iraq, in ogni senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla Mecca, dall’Arabia poi Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini - che in qualche misura reggono, malgrado le persistenze tribali indistruttibili.
(3. fine)
 
George Augustus Polgreen Bridgetower – (Galizia, ca 1779 – Peckam 1860) – Violinista mulatto, esordì come enfant prodige, affermandosi a Londra, primo violino dell’orchestra del principe di Galles (il futuro re Giorgio IV). In tournée in Centro Europa a 25 anni, nel 1803 fu a Vienna, dove strinse amicizia con Beethoven. Che gli dedicò la Sonata per violino e pianoforte op. 47 – poi nota come “Sonata a Kreitzer”. Con una dedica scherzosa. “Sonata mulattica composta per il mulatto Bridgetower, gran pazzo e compositore mulattico”. Il rapporto fu scherzoso anche nell’esecuzione della sonata, a maggio del 1803. Il compositore Carl Czerny annotò: “Bridgetower suonava in modo molto stravagante. Durante l’esecuzione della Sonata, con Beethoven ridevamo di lui”.
La Sonata era stata approntata però in fretta, sia la composizione che l’esecuzione. La parte del violino del primo movimento fu pronta solo qualche giorno prima. Il secondo movimento Bridegtower poté leggerlo sol sullo spartito del pianista, non essendoci stato il tempo per copiare lo spartito. In calce alla copia della sonata in suo possesso Bridgetower aveva introdotto una cadenza al “Presto” del primo tempo, che Beethoven aveva accolto entusiasticamente, Ma non ne tenne pi conto nel pubblicare la sonata, nel 1805, quando risulta dedicata a Rodolphe Kreutzer, grande violinista francese,da Beethoven conosciuto a Vienna già nel 1798. Con una dedica molto lusinghiera: “Una buona e brava persona di cui ho molto goduto la compagnia  durante il suo soggiorno a Vienna. La sua modestia e la sua naturalezza mi sono più care di tutto quanto esteriore o interiore nella maggior parte dei virtuosi”.
Come s’era interrotto il rapporto amichevole di Beethoven cno Bridgetower?  Secondo il musicologo australiano J. R. Thirlwell – non una fonte affidabile - c’era stata una lite per via di una ragazza. Probabilmente Giulia Guicciardi, la nobildonna austriaca , nata in Polonia, che era stata allieva di pianoforte di Beethoven, futura contessa  von Gallenberg.
Kreutzer non gradì l’omaggio e non eseguì la sonata, scusandosi che era troppo difficile, e che comunque era già stata eseguita. Secondo Berlioz aveva trovato a sonata “oltraggiosmente inintelligibile”.
 
Bugatti – Ritorna la Bugatti, un prototipo,  a ricordo della bellezza che contraddistingueva il marchio - una hypercar, da 26 milioni. In precedenza si erano fatte, su richiesta, 500 Chiron, numero chiuso, e 250 Tourbillon. La nuova Bugatti si chiamerà Brouillard, la nebbia, ha solo 1.600 di cilindrata, ma un apparato bijoux.
È un “emigrato” milanese, Ettore Bugatti, l’ideatore dei modelli che fecero epoca tra le due guerre e il fondatore della casa automobilistica col suo nome, nel 1909 (cesserà l’attività nel 1973, venticinque anni dopo la sua morte). Aveva cominciato presto a Milano Bugatti, a 14 anni, quando, iscritto all’Accademia di Brera, montò su un triciclo Prinetti e Stucchi un motore De Dion-Bouton. Tre anni dopo aveva abbandonato l’Accademia per entrare nella fabbrica – Prinetti e Stucchi faceva biciclette e macchine da cucire. E con i modellini di triciclo da lui adattato partecipava alle prime corse. Nel1898, a 17 anni, metteva a punto la prima, Tipo 1, di una serie lunga di Tipo – che era anche la prima macchina a montare gli pneumatici Pirelli: un triciclo, cui applicò un motore da 4 cv, con il quale partecipò a due corse, la Nizza-Castellane in Francia e la Verona-Brescia-Mantova-Brescia, vincendole entrambe. Era il 1899. L’anno dopo era in grado di aprire una officina propria, e di costruirci la prima vera automobile, che chiamò Tipo 2. Si procurò il capitale necessario costituendo una società con due ricchi fratelli di Ferrara, i conti Oberto e Olao Gulinelli, allevatori di purosangue.  La Tipo 2 volle già “lussuosa” – ma corse e vinse nel 1901 il Gran Premio di Milano.
Questa vittoria lo portò all’attenzione di un importante industriale metallurgico alsaziano, De Dietrich, che lo volle suo manager – il contratto fu firmato dai genitori del neo designer-costruttore, ancora minorenne. Con De Dietrich partì la seconda vita del giovane Bugatti, dapprima in Germania poi in Francia – seguendo gli spostamenti dell’Alsazia, regione mista di frontiera. Con De Dietrich Bugatti realizzò altre due Tipo. Ma nel mentre era già passato a collaborare con altre aziende, la francese Mathis e la tedesca Deutz, di Colonìa – con altri quattro modelli di Tipo. Poi prese a lavorare in proprio, costruendo nel garage una Tipo 10, spartana, non “bugattiana”, ma tecnicamente avanti (distribuzione ad asse a camme in testa).
In meno di un decennio fu in grado di lanciare la sua propria casa, la Automobiles Ettore Bugatti. Macchine legger ma potenti, ed eleganti. La fondò nel Basso Reno, a Molsheim, dove era arrivato da ragazzo con De Dietrich. La prima Bugatti fu quindi una casa automobilistica tedesca. Diventerà francese nel 1919, col trattato di pace.
Sempre memore dei Golinelli, che lo avevano aiutato per primi, gli allevatori di purosangue, volle per le sue vetture un caratteristico radiatore a forma di ferro di cavallo – e un figlio battezzò Gianroberto, come il figlio del conte Olao. Al salone di Parigi del 1910 poteva presentare la sua macchina, la Tipo 13, del modello che in francese fu battezzato “torpedo”, come il pesce, due posti, scoperta e a carrozzeria filante – il tipo poi “spider”. Una macchina sportiva, successivamente ingrandita  per quattro e sei posti, con una capote a copertura. L’attività fu sospesa durante la guerra, che vide i capannoni di Bugatti distrutti.
Già allo scoppio della guerra, molto prima che l’Italia scendesse in campo contro gli Imperi centrali, Bugatti si era precipitato a rientrare a Milano. Da dove, col fratello Rembrandt, tornò al prolungarsi della guerra in Alsazia per sotterrare tre motori da competizione che aveva approntati primo della deflagrazione.
Furono cinque anni drammatici per Bugatti – anche per il suicidio di Rembrandt. Tornerà in possesso della fabbrica, solo macerie, nel 1919, con la nuova nazionalità Francese. Riavviò l’attività con il ricavato della vendita di molti brevetti ai concorrenti. Coi motori ideati prima, e sepolti durante la guerra, costruì una 1.500 bialbero in testa, la Tipo 13, continuando a vincere tutte le gare, nel 1920 e nel 1921.
Il designer-costruttore era di una famiglia di artisti, di Nova Milanese. Il padre Carlo era designer  di mobili e gioielli in stile “floreale”. Rembrandt, il fratello minore che poi si suicidò, era scultore. Una sorella della madre, la zia Luigia, detta “Bice”, era la moglie di Segantini, il pittore. Il nonno paterno, Giovanni Luigi, era scultore anche lui, e architetto.
 
Giustino Fortunato - Furono due. Il meridionalista ebbe uno zio omonimo che fece lunga e complicata carriera in epoca borbonica, tra carboneria e incarichi pubblici, ricoperti sotto il re Ferdinando II. Dopo essere stato uomo di fiducia di Gioacchino Murat – e forse quello, o uno di quelli, che l’attirò alla trappola di Pozzo.
 
Gladstone - Il liberale Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza dell’Irlanda.
Delle prigioni napoletane tanto famosamente da lui screditate, confesserà che non ne aveva mai visitato una.

astolfo@antiit.eu

Pavese, chi era costui

La riedizione “fuori” Einaudi cinque anni fa del diario pavesiano ha la maggiore novità nella prefazione di Nadia Terranova (invece che di Starnone), che pone anche lei un dilemma Pavese, spostandolo dall’impoliticità al disamore. A una sorta di incapacità di Pavese di innamorarsi. Per di più di donne di spessore, come suole dirsi, “le uniche ad avere delle opinioni sulla scrittura che a Cesare Pavese interessino davvero”. E nomina Bianca Garufi, Fernanda Pivano e Tina Pizzardo. Che non è vero: Tina Pizzardo non c’entra con la letteratura, è la donna per la quale l’impolitico Pavese si fece il confino, salvo trovarla alla liberazione già sistemata con altri – e senza nessuna pietas. Pivano cominciava con Pavese, non era ancora la “temibile Pivano” – e allora perché non aggiungere le Dowlings? Con Garufi, che lo aprì al mito (sic!), il rapporto ci fu, ma da colleghi di stanza e coautori, di buono o ottimo livello intellettuale.
“Pavese è terrorizzato dalle donne che ama, donne che infestano la sua letteratura”, insiste Terranova. Infestano? Annie Ernaux le ha trovato ispiratrici. I disamori di Pavese hanno altre radici, in una personalità complicata, sempre insicura malgrado lo status (riconosciuto e anzi celebrato, censito e recensito, premiato. di traduttore, autore, dirigente editoriale), che però non si scandaglia. E in questo senso è vero che Pavese è stato e resta un uomo solo, senza il Grande Amico, il Lettore che gli dia la necessaria consistenza. Si ristampa anche poco, benché “libero” dai diritti d’autore, e senza impegno critico.
Questo “Mestiere di vivere” si ristampa con aggiunto il cosiddetto “Diario segreto”, la dozzina di paginette estemporanee di domande a se stesso sulla sua “impoliticità” durante la guerra, l’incapacità , o inanità, di schierarsi. Per fare pubblico, per attirare con la curiosità, se non (più) il pettegolezzo. Mentre è per tutti i versi un autore “attualissimo”, uno dei pochi che resistono alla decimazione del secondo Novecento.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Bur, pp. 640 € 12

lunedì 25 agosto 2025

Problemi di base - 877

spock


Niente è niente?
 
Si vive di più ricordando, oppure rimuovendo?
 
La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. Orwell?


O va letto al contrario: la pace è guerra, la schiavitù è libertà, la forza è ignoranza?


Che saggezza c’è nella saggezza?
 
C’è sempre del ridicolo nella tragedia?

spock@antiit.eu

La poesia del femminicidio

“Se Dio è nel suo paradiso\ tutto va bene sua terra”. E l’amante, pensandoci e ripensandoci,  conclude che se uccide l’amata la terrà sicuramente avvinta a sé, per sempre. Porfiria viene così strangolata, con i suoi stessi capelli, dal suo innamoratissimo amante.
Un poemetto breve, classificato “monologo drammatico”.
Si vede che il femminicidio cambia prospettiva con il secolo – R. Browning lo scrisse e pubblicò due secoli fa, 1836. Ma in una società “progredita” e ben borghese, considerata. Il pubblico ne fu scioccato, ma non molto understatement.
English for Italians ne propone la traduzione letterale, interlineare, di Carmelo Mangano.
Robert Browning, L’amante di Porfiria, pdf, scaricabile

domenica 24 agosto 2025

E il vescovo disse: assolveteli tutti

Era sfuggita, ma è grandiosa, epocale, l’intervista furibonda che l’altrimenti anonimo arcivescovo di Milano Delpini ha chiesto e ottenuto di dare al “Corriere della sera” il l8 agosto. Per dire, con brutalità gentilizia, patrizia, altro che “prete di strada” come si vuole, due cose: «Ho grande fiducia nella gente che lavora onestamente e che assume responsabilità per il bene comune. Ho stima e fiducia nei magistrati che svolgono il loro lavoro con coscienziosità e con la sincera ricerca della verità. Non di quelli che cercano la ribalta della notorietà e l’effetto politico degli indizi, piuttosto che la valutazione obiettiva dei comportamenti dei cittadini. Ho stima e fiducia negli amministratori che assumono la responsabilità del bene comune con onestà e intelligente lungimiranza. Ma non di quelli che asserviscono il loro potere a interessi di parte o personali. Ho stima e fiducia negli operatori della comunicazione che informano la gente con onestà ed equilibrio. Ma non di quelli che fanno dell’informazione un’arma per condannare, se non diffamare, con inappellabile severità, prima che le vicende giudiziarie si concludano».
Qui la cosa inizia, brutale, e qui finisce – il resto è blabla, malgrado la fatica di Giampiero Rossi di fare sbottonare l’Eccellenza – una sola cosa aveva da dire: liberateli tutti. Fatto.

Ombre - 788

“Sette mesi di crollo del dollaro. Dopo l’arrivo di Trump il 21 gennaio si è deprezzato di circa il 10 per cento”. Si è deprezzato del 15 per cento - qualche giorno anche di più - ma non sottilizziamo. E “Il Sole 24 Ore” ne fa la scoperta oggi?
E ancora non ha scoperto cosa Trump vuole e sta facendo.
 
Non si sa, non si scrive, che cosa il cantante Pappalardo ha detto e fatto contro Meloni "sbattuta” da Trump,  solo che ha detto “frasi offensive”, accompagnate da “gesti all’inguine”. Per rispetto di Meloni o del cantante? Singolare riguardo dei media.
 
Fischiato al primo brano, il cantante Pappalardo s’è subito scusato. Furbo, con questa spiega: “Un energumeno, prima che salissi sul palco, mi ha preso per un braccio e mi ha detto: «Qui siamo tutti compagni, tutti di sinistra»”. E intende: un provocatore, pagato dalla destra. Se non che la destra ha invece pagato la sua esibizione – il Comune di Fiumicino, che si governa  a destra.  
 
Il governo, si scopre nell’occasione, l’Interno, finanzia i Comuni l’estate per i concerti gratuiti – con somme importanti. Pappalardo aveva cominciato col lamento: “Ci stanno togliendo tutto, grazie al governo di oggi, che continua a togliere, togliere, togliere”. Questo viene specificato dai media, non c’è censura benché immorale. È proprio l’Italia del “bisogno”.
 
La Germania, dopo tre anni di titubanza, prova a dire che il suo megagasdotto con la Russia e è stato sabotato dagli ucraini che subito l’attenzione si distoglie col sabotaggio del gasdotto che dalla Russia rifornisce Ungheria e Slovacchia. L’Ungheria si lamenta: “Cercano di spingerci alla guerra”. L’Europa ancora non sa in che imbuto si è messa facendosi orientale, slava e balcanica - niente funziona più dal famoso “allargamento” di Prodi (“glielo dobbiamo”, che vorrà dire?): il Kossovo, la guerra alla Serbia, le “rivoluzioni” antirusse in Ucraina, Moldavia, Romania, Georgia.
 
Si ironizza su Draghi che a Rimini ha di fatto dichiarato l’Ue “morta”, cioè inerte. Mentre è l’evidenza: è un mercato comune, peraltro non più gestito, bene o male, dall’asse franco-tedesco, che non ha idee né forze, né forse più interesse. Gestisce il minimo, in un mondo in forte effervescenza, negli sviluppi tecnologici e nell’aggressività commerciale – senza contare la sua inanità sul piano militare e politico, come è palese nelle guerre in corso,tutte di prossimità, cioè “sue.
 
Si diffondono, ogni giorno, finte foto di pentole vuote, agitate da donne e uomini che si dicono palestinesi, di fronte a calderoni che si dicono cucine da campo. Opera sicuramente di Hamas, le pentole, tutte lustre, i cosiddetti palestinesi, e le caldaie che non si capisce se sono piene oppure vuote. Roba da (non) crederci? Avveniva in Germania quando i tedeschi “non sapevano”.
Ma, poi, non si dice ma si sa, che i tedeschi sono ebrei, la tredicesima tribù di Koestler dispersa – e quindi gli ebrei di oggi sono tedeschi, in materia di sapere e non sapere?
 
“Reddito di cittadinanza. Per l’Inps, abolendolo, l’occupazione è cresciuta”. Perbacco, ci voleva l’Inps per capirlo – dopo la presidenza Tridico, l’inventore del reddito, autocertificatosi keynesiano.
Certo, povero Keynes, è da compiangerlo, in mano ai Tridico-con-Conte.
 
Il primo pensiero dell’immensamente ricco (Fuksas dixit) Catella, il principe della Nuova Urbanistica milanese, appena assolto, subito, dal Tribunale del Riesame è per l’arcivescovo Delpini. E tutto si lega: la miliardaria Nuova Urbanistica, che “ristruttura” garage in dodici o diciotto piani, “residenziali”, l’assoluzione pronta del Riesame, giudici onorati, e l’omaggio al (non) cardinale di Milano. Al centro dello “sviluppo” ambrosiano, oggi come negli anni 1960, e anche nei 1980 del sant’uomo Martini, c’è l’Opera del Duomo, la curia.
 
Delpini, chi era costui?, è uscito dall’anonìmato per ammonire i giudici, sul “Corriere della sera”, in prima pagina: “Non stimo i giudici che cercano la ribalta”. E il“Corriere” ha obbedito: nessun nome dei giudici del Riesame garanti della Nuova Urbanistica –fino a un certo punto: la assolvono con riserva, la furbizia democristiana non viene mai meno.
 
Su Milano non si può dire che non abbia ragione Jacopo Fo sul Leoncavallo: “Per la cultura popolare non c’è spazio, a Milano c’è spazio solo per chi costruisce grattacieli”. Sala aveva promesso in cambio la Palazzina Liberty. Fo ci lavora settimane e mesi, manda il progetto, non riesce a parlare più con nessuno: “Sono scomparsi”. Fo propone allora la giornata dell’Associazionismo, “dal coro della chiesa a chi lavora con disabili e bambini”, per avere “visibilità e riconoscimento”. Sala: “Facciamolo subito”. Altre giornate e settimane di lavoro. Poi “nessuno ha più risposto al telefono”.
Non è finita. Commenta Sala: “Non lo sapevo”. Certo, Fo non è Delpini.
 
Tutti assolti dunque a Milano prima ancora di iniziare il processo – con qualche riserva, non si sa mai, i giudici sono prudenti.  Ma si tengono accuratamente celati i nomi dei giudici del riesame. Vuoi che abbiano, magari in comodato non a titolo di proprietà, per carità, un affaccio nei grattacieli. Perché Di Pietro ce l’aveva, per il figlio Cristiano diciottenne, a “equo canone” (nel 1993?) dalla Cariplo, in via Manzoni, “dove i nomi sul citofono sono sostituiti da numeri e i portinai hanno l’aria più snob della gente che ci abita”.
 
Botte da orbi in Spagna fra Procure e governo socialista. Con intervento del Csm a favore del governo. Senza eco in Italia. Dove vige la teoria dell’imparzialità della giustizia – la giustizia è sacra, eccetera.
 
“E l’Unione Europea?”, chiede Sky Tg Insider rispettoso, al vertice Trump-Zelensky. “I leader hanno scortato Zelensky al tavolo ma si sono limitati a qualche commento sulla «intensità» dei colloqui. Trump ha scherzato con loro, facendo i complimenti a Giorgia Meloni per la longevità del suo governo e al cancelliere tedesco Merz per la qualità della sua abbronzatura”. Risposta rispettosa, non c’è ironia.
 
Fabrizio Palenzona, presenza prestigiosa in molte banche solo per essere Dc (si fece anche vice-presidente di Unicredit, in qualità di consigliere autonominato di Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, nonché consigliere o presidente di Mediobanca, Abi, Aviva, Prelios etc.), fa le pulci a Panerai per avere scritto che Merzagora era massone, e Cuccia pure. Che è vero.
Ma la cosa è curiosa in quanto il “manager democristiano” interviene a difesa di Mediobanca. Interviene mentre Meloni e Giorgetti si prendono al ribasso Mediobanca-Generali per dire che l’offensiva non è da vecchia cordata Dc.

W. Pedullà e il segreto D’Arrigo

Una memoria grata del padre Walter, a proposito della sua amicizia incondizionata con Stefano D’Arrigo, quasi un totem, della sua propria passione per la ricerca, i linguaggi, la “scrittura”, e quindi sulla mezza vita spesa per e con “Horcynus Orca”. Con molte curiosità – perché la H, perché la y…. E con un segreto su D’Arrigo confidato al figlio in segreto e d’autorità in uno degli ultimi momenti – che Gabriele non svela ma è probabilmente che D’Arrigo era figlio di una prostituta (ma è vero, Walter ne aveva prove, o è una fantasia dello scrittore?). Da leggere non tanto per il cumulo dell’aneddotica, quando per una semplice e evidente considerazione, che pure non si fa: “Era un periodo (quello in cui Walter operava come “critico militante”, n.d.r.) in cui tutti gli autori importanti avevano dei critici di riferimento, che li consigliavano e nei momenti di scoramento li rincuoravano, aiutandoli anche psicologicamente”. Niente più critici, niente più autori - non c’è l’Autore senza il suo Critico.
È anche per questo che non c’è più una letteratura contemporanea - si pubblica molto e moltissimo, e molte riviste letterarie pure si pubblicano, ma è solo commercio?
Gabriele Pedullà, La mia vita insieme all’Orca, “Il Sole 24 Ore Domenica”