Cerca nel blog

giovedì 11 febbraio 2010

Haiti si cerca nel meraviglioso

Hadriana, l’amore segreto del narratore, la settebellezze di Jacmel, il paese del narratore, muore sull’altare mentre sta per sposare un altro. Il giorno di carnevale. Dopo un uragano. I funerali si trasformano in un sabba, tutto il paese consuma il suo atto d’amore con la morta vergine. Ma la mattina dopo la ragazza non c’è più nella tomba. I cattivi spiriti l’hanno trasformata in zombie. O è una “evaporazione”, si dice, si spera, una morte apparente. Che è tanto simile alla petite mort dei convulsionari. Che è tanto simile all’orgasmo. Lo zio del narratore, giudice del tribunale, ne ha vissuto una ai suoi vent’anni, e lei, ora suora e badessa, ogni anno alla scadenza lo ricorda con una letterina amorosa, “al carissimo Fefè…. Gise nei tuoi ricordi”). Nell’“Albero della cuccagna” il senatore Henri Postel sfida il dittatore di Haiti, che ne ha sterminato con disonore la famiglia e l’ha ridotto in schiavitù, con un gesto che mobilita la popolazione e scuote il regime. Non due romanzi ma due racconti, molto esotici e molto europei, sapidi, godibili, simbolici.
La “Cuccagna” è la libertà kantiana, di chi è libero di dire no, la morte lo trasfigura. “Hadriana” è la storia di un amore che non muore. Depestre ha l’ambizione d’inventare un nuovo linguaggio per l’amore, vero surrealista trockista alla Breton, anarchico della parola. Gli uomini usano per una donna “le stesse parole che esprime la gioia ce viene loro da un cibo”, appetitosa, dolce, gustosa, mentre l’amore è tutt’altra cosa, c’è da inventare “una parola-suprema per dire la qualità o il prodigio del piacere che si prova a viversi attraverso il sangue” (“Cuccagna”, p. 127).
“Hadriana” è anche una storia simbolica, doppiamente. Della natura ritrovata, e della politica, perduta a Cuba, ritrovata in Giamaica, tra i “negri”. Di un’invettiva l’autore non riesce a privarsi quando, felicemente in cattedra a Kingston, un ricordo velenoso di Cuba emerge: “In altri tempi, sotto un cielo meno ospitale, mi ero trovato incastrato” tra falsi amici, “titolare di una falsa cattedra universitaria, sotto gli occhi «programmati» di falsi studenti”. La morte rinascita rinsalda i legami, della tradizione, del sangue: con la morte di Hadriana “la filiazione naturale tra il reale e il meraviglioso è stata recisa”, il legame che fa la forza di Haiti, dell’Africa trapiantata ai Caraibi, e non può essere.
Un terzo simbolismo, indiretto, è nelle date. “Hadriana” evapora nel 1938: Haiti è piena di fermenti e quindi di ricchezza. Ma sono appena quattro anni che le truppe Usa mandate dal pacifista presidente Wilson nel 1915 a occupare Haiti hanno lasciato il paese, nel quale ci sono quindi ancora alcune delle strade che essi hanno costruito, qualche ospedale e delle case in muratura. “L’albero della cuccagna” è invece anni Sessanta, in cui ogni luce ha abbandonato il paese, sotto l’Elettrificatore, Papa Fallo, Papa Doc, il tiranno sanguinoso Duvalier. L’albero è anzi l’Elettrificatore stesso, che ci fa l’amore stregonescamente.
Depestre, nella sua seconda vita sempre all’instancabile ricerca della donna-giardino, con la capacità straordinaria di estrarre dalla donna, dalla maschile fantasia della donna, la “negra sole”, la natura, l’essere fuori dall’ordine, fuori dalla modesta ratio borghese, è stato fino ai quarant’anni buoni vittima del breznevismo di Castro. Emigrato da Jacmel a Parigi per studiare e sfuggire alle dittature, fu preso in carico e sostenuto dal gruppo di Présence Africane, il primo nucleo del nazionalismo africano: era, ed è stato a lungo, un poeta combattivo. Salvo poi criticare il gruppo come borghese. Espulso dalla Francia per motivi politici, emigra all’Est, in Jugoslavia e a Praga, da dove è inviato in Sud America, in Cile, in Argentina e, per due anni, in Brasile. Dopo un intervallo a Haiti nel 1958, incuriosito da Duvalier, si stabilisce l’anno a Cuba per una ventina d’anni, benché negli ultimi in dissenso aperto con Castro, insegnando all’università e viaggiando in Russia, Cina, Vietnam. Lascia Cuba nei tardi anni Settanta per la Giamaica, e infine si stabilisce a Parigi, per un lungo periodo all’Unesco, poi premiato autore di questi racconti. Tardi, ma è una sorta di piccolo Dumas, lievemente più abbronzato forse, e meno fluviale, ma con la stessa libera gioia di vivere - che a questo punto si potrebbe dire creola, o antillana, la cifra di una poesia se non di una condizione di vita.
Haiti, che il mondo scopre quasi inesplorata col terremoto, fu “la più bella cosa del mondo” per Cristoforo Colombo, che la battezzò Hispaniola. Subì per questo la prima conquista spagnola, che ridusse la popolazione taìno da tre milioni a seimila, e la destinò a centro della tratta degli schiavi africani. Ceduta dalla Spagna alla Francia a fine Seicento, ha fatto anch’essa la sua rivoluzione a fine Settecento, a non l’ha più finita: di rivoluzione in rivoluzione, con grandi vittorie, una di esse contro il generale Victor-Emmanuel Leclerc, il primo marito di Paolina Bonaparte, “il più grande cornuto della storia”, e grandi sconfitte, è sfinita. “La follia individuale del potente diviene pantagruele grottesco, maschera deformata”, dice della “Cuccagna” Fabio Rodríquez Amaya, l’ispanista che ne cura la pubblicazione, ma l’osservazione vale in realtà per Haiti e i Caraibi: “Il tema del potere rientra come conseguenza di una tipologia letteraria ormai consolidata nei Caraibi dall’opera del cubano Alejo Carpenter e del colombiano García Márquez e nel continente dal paraguaiano Agusto Roa Bastos”, sulle orme del “Tirano Banderas” di Valle-Inclán, nelle spoglie di un dittatore iperbolico e apocalittico.
L’anima è l’animismo
I due racconti sono farciti con un centinaio di pagine ciascuno di precisi rituali e divinità vudù. Per questo stesso fatto separati dalla stregoneria dei galli e le pozioni, finiscono per dare all’isola derelitta una qualche consistenza. Nell’intermezzo, il “Secondo Movimento” di “Hadriana”, l’autore lo dichiara: “”L’efficacia della magia (l’ho imparato da Lévi-Strauss) è un fenomeno di consenso sociale”, di coesione. Sullo zombismo pretendendo di costruire una nuova antropologia del colonialismo, una storia di reificazione troppo in fretta passata agli atti. Ma in realtà lo vivifica, se non con i suoi mostri, con la”reificazione” del meraviglioso che li crea. Nelle due storie l’animismo caraibico, anche stregonesco, ha una distinta funzione risarcitoria e rivoluzionaria, per il bene, la bellezza, la resistenza.
Depestre opera, confusamente, il recupero della négritude, quale Senghor e Sartre l’aveva no definita, dopo averla rifiutata e derisa perché così voleva il Diamat moscovita. Con più lucidità nell’intermezzo tra le due narrazioni di “Hadriana”, a migliaia di miglia di distanza, nei giardini del Lussemburgo a Parigi, con la bella bianchissima giornalista del razionalissimo “Monde”. Depestre è stato il distruttore negli anni 1960-70 della negritudine, che ha sbeffeggiato come l’ultima beffa del colonialismo, assaltatore addestrato e feroce, più di Frantz Fanon, per conto del materialismo dialettico. Anche se il concetto era stato enucleato dal primo grande intellettuale del suo paese, l’etnologo Jean Price-Mars, in “Ainsi parla l’oncle”, del 1928, per l’africanismo persistente ai Caraibi. E tuttavia vale sempre l’avvertimento di Sartre quando il problema si pose, nell’“Orfeo negro”: meglio un’identità che nessuna identità, è una hegeliana antitesi che comunque sarà feconda.
L’intermezzo prende atto, in una diecina di ancora solide proposizioni, che uno stato di schiavi ha una storia di schiavi, e un linguaggio di schiavi. Che deve per questo ancora trovare, nel terzo millennio, una forma di governo che non sia distruttiva. Ma che non si può e non si deve buttare via, estraendone anzi le forze costruttive, per esempio la fantasia. Che si sfrena nei riti, come nel sesso, e nella violenza. Ma a una sommatoria non negativa. La sessualità debordante obbliga il richiamo a Zuma, per esempio, o Idi Amin, Omar Bongo, per non dire di Duvalier, a una maniera tutta africana di atteggiarsi del politico. Ma anche a Vinicius de Moraes e alle sue nove mogli, un assetto non vuduesco, seppure brasiliano, della cultura. Tutti casi negativi e non: un mondo da cui non si esce se non esorcizzandolo, in qualche modo introiettandolo.
Questi “romanzi” della deiezione, tra “uragani, incendi, divinità vlanbindinghe, senza parlare dei flagelli di Stato”, e ora il terremoto, testimonia il vitalismo di una cultura, africana e quindi trapiantata, di seconda mano, ma non sradicata: animista, orgiastica, pagana insomma. Che non si può cancellare, ma adattare a questo terzo millennio della pace borghese.
René Depestre, Hadriana in tutti i miei sogni, Giunti, pp. 177, € 4,65 (Remainders)
L’albero della cuccagna, Jaca Book, pp.199, € 5,68 (Remainders)

Nessun commento: