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lunedì 20 ottobre 2025

Il Sud del Sud - il Sud visto da sotto (610)

Giuseppe Leuzzi

“«Non è fatto ancora», aveva detto Becco d’Avvoltoio del popolo 
calabrese”, annota lo scrittore austriaco Friedrich Werner van
Oestéren nei suoi ricordi di viaggio del 1908, “Povera Calabria”. Lo fa dire al vetturino, che chiama Becco d’Avvoltoio, sempre alludendo al famoso “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” di D’Azeglio. Non è “fatto”, intende correttamente van Oestéren, nel senso che non ha, non padroneggia, il “linguaggio” comune, il modo di essere, di intendere, e di fare – l’idem sentire de republica.
Detto della Calabria, ma vale per tutto il Sud – la “questione
meridionale” c’è, eccome, e non solo per il leghismo.
 
Nel ritratto esilarante della nonna materna, “Mia nonna e il Conte”, Emanuele Trevi fa un tributo alla madre, che non nomina (Eleonora D’Agostino). Psicoterapeuta come il padre Mario. Non influente come il padre, cui Trevi ha già dedicato un lungo racconto, “La casa del mago”, né famosa: “Una divinità tirrenica, appartenente al temibile, indomabile, antichissimo ceppo calabrese: perspicace, volubile, testarda, capace di leggerti un pensiero nella testa prima ancora che tu stesso l’avessi formulato”. La famosa “donna del Sud”, della letteratura veneto-lombarda?
 
“I dati sulla lettura non sono confortanti”, fa notare Cristina Taglietti a Stefano Mauri, il pad di Gems, il secondo gruppo editoriale italiano dopo Mondadori, sul “Corriere della sera”: “Ci sono ampie aree di sottosviluppo”, è la risposta, “soprattutto al Sud. Fatalmente abbassano gli indici di lettura, che al Nord sono invece in linea con gli altri Paesi europei”. Ci sono due Italie anche nella lettura.


Al voto per la Regione Campania una sfilza di figli si candidano al consiglio: De Luca (indirettamente), Mastella, Casillo, Cesaro, Manfredi, Fiola, Demitry, Mensorio. Tutti impegnati a sostegno del candidato vincente, Fico. Che si dice di sinistra, ma di sicuro è Stelle, come dire l’anti-politica, l’anti-affarismo, l’anti nepotismo, l’anti. Si direbbe anti-conformismo, salutare.  E invece è una forma di dipendenza – “la” dipendenza micidiale: lo svuotamento della politica.

 

Savinio, “Capri”, 23, nota sul più  grande degli scogli li Galli le rovine di un castello medievale, inteso a impedire che “i pirati musulmani impiantassero in quel luogo una specie di Fraxinetum marittimo”. Frascineto – oggi borgo arberëshe in Calabria, nome derivato dai frassini che alberavano l’antica concessione, il Casaledel Duca – era l’insediamento musulmano in Provenza, di corsari del regno di Granada, che dominò la costa ligure e le Alpi tra l’887 e il 972. Facendo la storia delle Crociate come prima manifestazione del deprecato eurocentrismo si trascura che si fecero in reazione a secoli di scorrerie arabe impunite e durature,  anche di molti decenni, in Sicilia, in Puglia (emirati di Bari e Taranto), in Calabria (emirati di Tropea, Santa Severina, Amantea).  

 

        La donna cucuzza – o la matriarca del Sud 

        La “donna del Sud”, dunque, oltre che vestirsi di nero, è matriarca. Perlomeno lo è stata, ma non in tempi remoti. La fa matriarca Nadia Terranova nel suo ultimo romanzo, “Corta è la memoria del cuore”, per come se ne legge sul “Foglio”. Un racconto che partirebbe “dai silenzi cupi della sicilianissima matriarca Teresa”. Non dell’Ottocento, la matriarca si laureava negli anni Cinquanta – si laureava in legge, a Messina, dove col severissimo rettore Pugliatti a Messina in Legge si laureavano in pochi. Insomma, è la nonna di Terranova. Che Terranova dice “colta e intelligente”, secondo ne scrive “il Foglio”, ma dall’“occhio pesante”, cioè predisposto al peggio, premonitore, scrutatore, antevisionario di sciagure.

        Nella sintesi che Maria Pia Farinella fa sul quotidiano: “Si farà consegnare dal marito tutto ciò che guadagna per amministrarlo lei. E farà pesare su tutta la famiglia la sua fatica, il fardello di crescere i figli. Un ricatto morale che è un modo molto siciliano di esercitare il potere. Alzando il prezzo per poter esercitare ancora più potere. Una recriminazione continua in cui l’onnivora patriarca si fa vittima. Per non pagare mai dazio”.
“Falla come vuoi sempre è cucuzza”, diceva il genitore, rigido sui cibi portati in tavola ma a cui la “cucuzza” non piaceva in nessun modo.
Ma c’è di più: Farinella esuma a supporto di Terranova un’intervista di Sciascia a Franca Leosini, per “L’Espresso”, nel 1974, in cui così risponde al quesito perché non aveva personaggi femminili nei suoi racconti, se non di sbieco: “La ragione profonda”, risposta, “era l’avversione per la società matriarcale. Ho visto sempre che le donne hanno comandato, e hanno comandato sempre annientando l’uomo”. L’uomo? “In fondo questa virilità siciliana si riduce a ben poco. Brancati l’ha messo in luce”. Un matriarcato malefico: “È lei, la donna, a consigliare la viltà, la prudenza, l’opportunismo, l’interesse particolare”.
Peggio, aggiunge Farinella, ex capo redattore Rai a Palermo: “Nel lungo video che ho realizzato alla Rai Sciascia afferma….: «Mi conforta il fatto che uno scrittore straniero, un osservatore perspicace della realtà siciliana come Dominique Fernandez, abbia visto anche la mafia collegata a questo impero della donna»”.
Da non credere. Sempre per épater le bourgeois, scandalizzare i benpensanti? Sciascia non ne aveva bisogno. Ma è vero che “visse sempre”, nota Farinella, “circondato da donne…. Sei donne nella stessa casa con Leonardo Sciascia”, moglie, figlie, e zie.
 
Se l’uzbeko è meglio del cubano
Sui medici cubani in Calabria paginate, da anni, quasi ogni girono. Sugli infermieri uzbeki a Milano e Monza niente, solo il commediografo Massini artiglia la “non notizia” – su un settimanale
letterario, “Robinson”.
Sui medici cubani in corsia in Calabria una campagna di denigrazione triennale contro il presidente della Regione Calabria Occhiuto che ce li ha messi, in mancanza d’altro – prendendosi la gestione
della sanità regionale, dopo che per un dodicennio era servita a laute pensioni aggiuntive a cosiddetti
“commissari, prefetti in pensione e generali. E da ultimo una inchiesta giudiziaria scandalistica
della Procura renziana della Repubblica di Cosenza.
“Lombardia, un progetto di formazione” è invece il titolo pudico (ipocrita) con cui si comunica l’assunzione di 100 infermieri dell’Uzbekistan. Avanguardia di altre centinaia - ma non si può dire: per ora sono soltanto “in formazione”. Da uno dei tanti paesi, cioè, in cui deve operare Medici senza Frontiere – per debellare la tubercolosi, che da alcuni decenni ha un ritorno in Asia centrale, fino al Pakistan.
Occhiuto, del resto, non rivoluzionava. L’Emilia-Romagna, p.es., regione insospettabile e non
criticabile, impiega personale sanitario asiatico e latinoamericano da almeno un trentennio – dopo avere provato incentivare il personale formato al Sud con affitti bloccati e perfino gratuiti. Ma in Calabria no, niente funziona, figuriamoci i cubani – al calabrese non si dà da bere. La 
questione  meridionale è bene anche una questione dei meridionali.

Singolare anche la ricezione del “messaggio” della cosa, che la cosa suscita. L’artefice delle due chiamate straniere, in Calabria e in Lombardia, è lo stesso, Bertolaso, la ricezione è diversa. Scandalizzata – “aristocratica”, passatista - in Calabria, la cui sanità peraltro
quotidianamente ci si diletta a immiserire, mentre in Lombardia, lì sì che ci sanno fare.
Questa puzza al naso delle pezze al culo farebbe una bella farsa, se non fosse un dramma.
 
Cronache della differenza: Aspromonte
“Nessuno può permettersi una vacanza a via Aspromonte”, ammonisce il protagonista di Antonio Pennacchi, “Mammut”, p. 116, il sindacalista Benassa, nel mentre che aizza i compagni di lavoro a “occupare” la centrale nucleare di Latina – a via Aspromonte “dove c’è il carcere giudiziario”, spiega l’autore. La montagna forse più simpatica, alberata, luminosa, aperta da tutti i
lati sul mare, sempre legata a morte e lutto. Anche a Latina.
 
Lo scrittore austriaco Friedrich Werner van Oestéren, che vi fece una lunga randonnée a dorso di
mulo – mentre la guida gli trotterellava accanto a piedi, per risparmiare sulla tariffa – “meravigliato” lo trova “un altopiano completamente piatto, delimitato in lontananza dai margini di un bosco” non “aspro” come si aspettava. È solo arrivato ai Piani d’Aspromonte in realtà, luogo privilegiato di colture, allora come oggi, malgrado l’abbandono delle campagne, di ortaggi e varietà pregiate di
grano. Un terrazzato aperto sul mare: “L’Aspromonte non era dunque una catena di montagne, ma un grande altopiano!”. Ma non c’era più ignoranza allora di oggi.

 
Il bosco è quello dove Garibaldi “fu ferito a una gamba”. Il ricordo di Garibaldi van Oestéren trova nel 1908 affidato a “una lapide commemorativa fatta di laterizi disposti a strati in  modo grossolano”. Sarà succeduta da altri monumenti grossolani e come sinistri, specie quello odierno –
forse legati a simbologie massoniche?
 
Van Oestéeren trova il suo Aspromonte anche “incolto, spoglio”, ma non si rende conto che è nella stagione morta. È partito da Sant’Eufemia alle quattro del mattino tra contadini e contadine che lo affiancavano a piedi nella lunga salita – “gente armata di pala e accetta”, in realtà di zappa e accetta. Allora e fino al dopoguerra, agli anni 1960, si saliva alla Montagna per sentieri, oggi si va per nugoli di strade, ogni piccolo paese ne ha una sua.
 
Poi il viaggiatore – in foto un aristocratico austriaco, allora trentaquattrennne, molto azzimato - incontra, come si incontra oggi, l’abetaia, “una vera, magnifica abetaia formata da abeti rossi, che si levavano imponenti verso il cielo! Dai rami emanava un profumo delizioso, un forte e gradevole odore di resina”. Con proprietà terapeutiche. Popolata di “casette di legno….con le pareti di abete rosso e un tetto di tegole” (costruzioni stagionali, smontabili, in uso fino a qualche decennio fa), dove “gente affetta da malattie polmonari veniva per curarsi e temprarsi all’aria di montagna”.
 
E poi i faggi: “Dopo una leggera salita cominciava il regno del faggio, un regno molto esteso che giungeva sino alla cima del Montalto”. Secco, e luminoso. Oggetto, allora come oggi, di frequente disboscamento – c’è una “industria boschiva”. “Che questo albero stupendo cresca csì bene da queste parti” lo gratifica dell’interminabilmente lenta ascesa. Allora come oggi “ogni tanto un cuculo, senza mai stancarsi, faceva risonare il suo grido” – “per il resto solo un grande silenzio”.
 
“L’acqua in Alvaro”, lo scrittore dell’Aspromonte, “è l’elemento primario, vitale, sacrale, liminare. Tra vita e morte, diluvio e fonte di memoria e di vita”, Vito Teti, “La lunga notte di Alvaro” – in “Corriere della Calabria”, 8 giugno 2025: “Già nel libretto giovanile su Polsi sono dominanti la dimensione del mangiare insieme, dell’acqua come purificazione, del pellegrino come errante che cerca acqua fresca, verità e senso”.
 
Nella stessa plaquette Alvaro riprende la leggenda dell’“Acqua della prena”, della donna incinta (“prena” in dialetto), che si riposò a metà dell’erta tra Polsi e Puntone della Croce, pregando la “Madonna affinché le facesse trovare un po’ d’acqua per dissetarsi”, e la sorgente zampillò.
 
Van Oestéren, anche lui, non resiste al richiamo dell’acqua di sorgente dell’Aspromonte, e nella faticosa ascesa a Montalto a dorso di mulo annota: “Quando un ruscelletto” si accostò al
margine del sentiero, l’accompagnatore-guida pedestre “si piegò e bevve con tanto gusto” che anche il viaggiatore illustre si sente attratto e si fa riempire la tazza che porta per le emergenze: “L’acqua ghiacciata, purissima, era rinfrescante e ristorava magnificamente. Bevvi sino all’ultima goccia”

leuzzi@antiit.eu

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