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spock
Libertà è
liberare?
Cioè: ama il
tuo prossimo, etc.?
La santità è
complicata?
Si può essere
ottimisti solo per essere poveri?
O se la felicità
può essere povera?
Se il povero
può essere ricco (solo) di spirito?
spock@antiit.eu
L’Europa deve pagare dazio, e deve raddoppiare
le spese militari. E non per una difesa comune, europea: per sostenere le
spese Nato, alleviandone gli Stati Uniti.
Trump all’improvviso, ottenuto dall’Eurpa
quanto chiedeva, alza un muro contro la Cina. Non politico, non militare, economico.
Dopo i sorrisi, i colloqui, le intese, le promesse di incontri, che non vengono
rimangiati. Giusto per costringere la Cina a trovare sbocchi in Europa, a qualsiasi
prezzo. Cioè a prezzi imbattibili – si veda per abbigliamento, high fashion compresa, o automobili. Oppure col ricatto:
altrimenti niente terre rare e niente batterie.
È un sospetto. nemmeno un indizio. Ma è
una vita che gli Stati Uniti hanno nel mirino l’Europa. È come se gli Usa di
Biden, da vice con affari in Ucraina e poi da presidente, avessero spinto l’Europa
a separarsi dalla Russia. Quindi inerme ora all’ovvio assalto-ricatto cinese.
Nella
prima parte lo storico – da sempre in polemica col sionismo, con lo Stato confessionale
e colonizzatore - analizza storia e ideologia del sionismo. Nella seconda la
creazione del “popolo palestinese”, per l’ottusità e la volenza del sionismo. Nella terza, “Verso la fine di Israele”, con gli
esiti fallimentari del sionismo, con l’“incapacità del processo di pace” finora
di proporre soluzioni viabili, che dice il segno tramonto di Israele, propone e
analizza “sette mini-rivoluzioni cognitive” per trasformare-recuperare “lo
Stato collassato” in “uno nuovo”. A cui aggiunge un’ottava “minirivoluzione”:
un disegno o sogno di “una nuova Palestina del dopo Israele nell’anno 2048”. Tra
non molto cioè, e quindi un passaggio infine ottimista. “Il collasso del
sionismo e la pace possibile in Palestina” è il sottotitolo.
Pappé
parte da una constatazione, che questo sito poteva fare il giorno dopo il 7
ottobre, ovvia cioè, che invece non si fa: i palestinesi hanno combattuto una guerra,
feroce ma dura. A cui va aggiunta un’altra ovvia constatazione: Israele ha
vinto, e non poteva che vincere, ma con difficoltà, senza merito, e senza guadagni, anzi con la prospettiva di doversi in qualche modo ricredere e riconfigurare. Ma lo storico israeliano
dice che dopo questa guerra Israele è destinato a una disintegrazione
inevitabile. E questo non è possibile e non è vero: Israele è ben lì, sui suoi
piedi, e ben sorretto dagli Stati Uniti.
“Da
storico, evidenzio che la fine di Israele sembra sia già cominciata”. Un po’ perché
tutta l’area ha un futuro incerto: “La Siria si è già disintegrata come Stato,
il Libano è finito di recente fra gli Stati falliti”, e in Iraq, o “in posti remoti
come lo Yemen, il Sudan, la Libia”, la deflagrazione è il motore. E così “stiamo
assistendo alla fine dello Stato d’Israele”. Una conclusione però temperata da
un “o se non altro (alla fine) del progetto sionista quale lo conosciamo”.
Si
parte per la verità con un interrogativo: “Dovremmo parlare della fine di
Israele?” Gli Stati periscono, la Jugoslavia, il Vietnam del Sud, “o finiscono come
se niente fosse”, e nel caso di Israele è esagerato, nota lo stesso storico. Altri
sviluppi possono venire da esempi che non la Jugoslavia, in forma di cambio di
regime, radicale: Sudafrica, Cile, Argentina, Iraq. Pappé propende per questa seconda
ipotesi. Ma in una forma forse utopistica - a prescindere da Netanyahu e dalle destre
che lo sostengono: uno Stato non teocratico o confessionale, non razziale (c’è
ancora pudore a usare le parole giuste, ma lo Stato di Israele si vuole
ebraico, e quindi non ha spazio per altri).
Alla
fine, il libro nasce dall’intenzione di “offrire un’interpretazione più speranzosa,
più positiva degli eventi che sono seguiti al 7 ottobre 2023”. Quello che si sta
sbriciolando” è “lo Stato d’Israele come uno Stato ebraico”. E questo si rileva non per “una posizione
politica…. : è un processo oggettivo che è già cominciato”.
Con
capitoli del tipo “La morte dell’industria della pace”.
Il tema si moltiplica, da qualche mese. Soprattutto da
parte di ebrei non sionisti - non sioisti attivi, con legami o intrecci con
Israele, o comunque schierati: Furio Colombo e Anna Foa i più eminenti in
Italia. Papp fra i tanti, come già Anna Foa un anno prima, esamina gli eventi da
storico. E quindi è necessariamente
pessimista – o ottimista, se “Israele” è un male, quello di Netanyahu come quello
di Ben Gurion. Ma si sottovaluta – quale che sia il giudizio etico che sottende
a queste trattazioni - la forza di questo - o questa? - Israele: il sostegno
incondizionato, finanziario e militare, degli Stati Uniti, di cui è la “base” nel
Medio Oriente e nel Mediterraneo.
Su questo Pappé ha giusto un § iniziale “La pax
americana dal 1967 a oggi”. Per dire che gli Stati Uniti hanno sempre protetto
Israele all’Onu nelle votazioni sulla Cisgiordania, sulla politica di
colonizzazione forzata. Ma c’è molto di più.
Per gli Stati Uniti – e in fondo anche per l’Europa –
vale quello che il generale Haig, il capo di gabinetto che nel 1974 convinse
Nixon alle dimissioni, poi segretario di Stato di Reagan, ebbe a dire in questa
funzione: “Israele è la più grande portaerei americana al mondo, è inaffondabile,
non porta nemmeno un soldato americano, e presidia una regione critica per la
sicurezza”. Il presidente egiziano Al Sisi deve a Israele una decina di anni fa
il blocco martellante, con droni, elicotteri e aerei, del tentativo di Hamas di
allungare Gaza al nord del Sinai – una campagna incidentale, come di un
intervento di polizia contro minacce terroristiche, che tuttavia è andata avanti
per un paio d’anni. Lo stesso con i bombardamenti dei siti nucleari di Saddam Hussein
a suo tempo, e dell’Iran ora. Per non dire della “liberazione “ di Beirut,
palazzo per palazzo, casa per casa, dai depositi di Hezbollah.
Ilan Pappé, La fine di Israele, Fazi, pp. 288
€ 18,50