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sabato 25 ottobre 2025

Il mondo com'è (490)

astolfo


Esecuzioni capitali – Sono privilegio e segno distintivo degli ayatollah, che pure sono tali in quanto uomini di fede e di dottrina. Più in generale, sono sempre più quasi esclusiva di paesi e regimi islamici – gli Stati Uniti ne registrano due in media al mese, massimo tre. L’ultimo rapporto di Amnesty International, “Death Sentences and Executions”, che riguarda il 2024, ne registra  1.518 nel corso dell’anno - il numero più alto del millennio, dopo il 2015, che ne registrò “almeno” 1634.
La maggior parte delle esecuzioni sono state effettuate – ma è la normalità da molti anni - nel Medio Oriente. L’unica novità è che il numero dei Paesi che hanno effettuato esecuzioni è da due anni in ribasso.
Il Rapporto non tiene conto della Cina, della Corea del Nord e del Vietnam. Paesi dove le esecuzioni non sono comunicate. In questi Paesi, però, si ritiene che siano il maggior numero, più che in quelli islamici. Soprattutto in Cina, che il Rapporto dice “il maggior boia” mondiale.
Iran, Iraq e Arabia Saudita registrano tra l’80 e il 90 per cento delle esecuzioni capitali globali. Anzi, esattamente: “L’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita sono stati responsabili della forte impennata di esecuzioni dell’anno scorso, avendo effettuato oltre il 91 per cento di quelle note”. E sono i Paesi nei quali le esecuzioni sono in aumento, anche corposo. Nel 2024 i tre paesi hanno registrato 1.380 esecuzioni, sulle 1.518 totali. L’Iraq ha quasi quadruplicato le esecuzioni (da almeno 16 ad almeno 63). L’Arabia Saudita ha raddoppiato il totale annuale, da 172 ad almeno 345. In Iran sono state impiccate 119 persone in più rispetto al 2023 - da almeno 853 ad almeno 972, due terzi (il 64 per cento) di tutte le esecuzioni note.
Si condannano a morte, soprattutto nel Medio Oriente, i sospetti di attività politiche, anche solo sotto forma di pensieri o conversazioni, “in particolare in Iran e in Arabia Saudita”, e le minoranze religiose (gli sciiti in Arabia Saudita). E le minoranze etniche, in Cina e altrove in Asia.
Diffusa anche la pena di morte per attività illegali, quali lo spaccio di stupefacenti. In questi casi, secondo il Rapporto, anche le condanne sono illegali: non si tiene conto delle procedure a difesa: “Oltre il 40 per cento delle esecuzioni del 2024 sono state effettuate illegalmente per reati collegati a sostanze stupefacenti”. In Cina presumibilmente e in Vietnam, e in Iran, Arabia Saudita e Singapore.
 
Murphy – “I Murphy” s’intendono Gerald Murphy e Sara Sherman Wiborg, la coppia di miliardari americani, lui con ambizioni di pittore, che egli anni 1920 animò, anche materialmente, la comunità di giovani scrittori americani approdati in Francia, Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos, Dorothy Parker. Dapprima a Parigi, dal 1923 a Cap d’Antibes, in una villa lussuosa, villa America, dove intrattenevano gli ospiti anche per lunghi periodi – specialmente affezionati ai Fitzgerald, per le debolezze e le intemperanze di Scott - che poi ne fece i personaggi centrali di “Tenera è la notte”, non incontrando i favori della coppia (oltre che della critica). Gerald era l’erede di una grossa ditta di pellami di Boston – che continuò a presiedere, anche se non a gestire, da Antibes - lei la pupilla di un miliardario di Cincinnati, fabbricanti di vernici. Il quale non gradiva il matrimonio, anche perché lei era maggiore di lui, e non il contrario, e di ben cinque anni – si incontrarono adolescenti ma si sposarono tardi, nel 2015, lui di ventisette anni, lei di trentadue, e saranno sempre una coppia felice (a quel che si vede dalla copiosa documentazione fotografica), oltre che duratura. Si stabilirono a New York, ebbero tre figli, e nel 1921 si trasferirono in Francia.
Hemingway, poco più che ventenne, e impecunioso, tra piccoli mestieri, ma già intraprendente su piazza, fu la loro carta da visita a Parigi, negli ambienti intellettuali e artistici: Picasso, Gertrude Stein, Coco Chanel, Cocteau, Fernand Léger, Dorothy Parker, Dos Passos. Picasso conobbero personalmente attraverso i Ballets Russes di Djaghilev, verso i quali la coppia si era indirizzata, come “volontari”. In parallelo, prendevano lezioni di pittura da Natalja Gončarova. Quando “Tenera è la notte” uscì, nel 1934, accolto male dalla critica, e anche dai Murphy, il loro incanto come anfitrioni in Costa Azzura era già finito. Lo stesso anno se ne tornarono in Ameria. Gerald Morirà nel 1964, “due giorni dopo il suo amico Cole Porter”, notano le biografie, Sara nel 1975.


Radioattività – Se ne sono dimenticate le implicazioni e le conseguenze: negative, in termini ambientali e di salute, oppure creative, sempre per la salute, in medicina. Per gli ottant’anni di bombardamenti atomici americani si è segnalata l’inavvertenza, all’epoca, degli effetti della radioattività – i bombardamenti erano stati analizzati sono il profilo distruttivo, sebbene la radioattività fosse ben conosciuta – per una dimenticanza? – da almeno mezzo secolo, da Becquerel e i Curie. Lasciando per inteso che il fenomeno, seppure con difficoltà e con lunghi studi, era stato poi interamente conosciuto, e quindi addomesticato. Mente la verità è che non se ne conoscono tutti gli effetti. E nemmeno la sua persistenza (la misura, l’attività) nei rifiuti atomici, delle centrali nucleari. Parte delle scorie vengono riprocessate, ma ci sono sempre residui, di cui non si sa determinare il periodo (comunque secolare) di attività.


Sundown Cities – Si sono chiamate negli Stati Uniti “città del tramonto” borghi, ma anche contee - e tuttora non si chiamano ma esistono (attraverso forme residenziali condominiali, e pratiche di “esclusione sociale”) - di comunità bianche che non ammettevano altre etnie, ma sostanzialmente escludendo gli afroamericani. I non bianchi potevano frequentarle di giorno per lavoro (in genere domestico) ma non risiedervi. “Città del tramonto” per la pratica di affiggere cartelli che ingiungevano ai non bianchi di abbandonare l’area prima del tramonto.

Un fenomeno ampliatosi con la fine dell’Età della Ricostruzione dopo la guerra civile, nel 1877, accompagnata dalla nascita e la forte crescita del Ku Klux Klan, i circoli suprematisti bianchi, sulla base di une serie di leggi, locali e statali, negli Stati ex schiavisti, ex confederati, che imponevano la segregazione razziale, dette “leggi Jim Crow”. E poi a metà Novecento, a difesa dal movimento per i diritti civili (se tutti devono avere gli stessi diritti, meglio stare soli). Nel 1968 abolite con legge federale, il Civil Right Act e il Fair Housing Right del 1968, durante la presidenza Johnson, il vice di Kennedy che gli succedette e fu poi eletto a fine 1964, che resero reato federale le restrizioni residenziali su base razziale.
Wikipedia censisce stato per stato le comunità storicamente Sun Down, su base induttiva, riesaminando i registri fiscali, i censimenti, e le ordinanze cittadine. Si escludevano anche ebrei, asiatici, nativi americani, e latini, o in genere cattolici. Molto diffusi erano i cartelli “no Blacks, no Dogs”. Intimidazioni, anche attraverso le forze dell’ordine, e regolamenti immobiliari per l’acquisto di abitazioni conformavano le Sundown Cities.  


Wicker Man – Non si dice, ma perché non sarebbe il progenitore di Gulliver – più o meno consapevolmente nella fantasia dell’attempato e colto Jonathan Swift? Secondo l’IA “«The Wicker Man»” si riferisce sia all’iconico film horror britannico del 1973 che alla figura centrale del suo finale, un grande idolo di vimini in cui il protagonista viene bruciato vivo come sacrificio umano per la fertilità della terra. Storicamente, il termine indica una statua di vimini usata dai Druidi per sacrifici umani, sebbene l’esistenza effettiva di tali pratiche sia dibattuta dagli storici, con le prove che provengono principalmente da antiche fonti greco-romane, come quelle di Giulio Cesare”. 
Cesare come fonte del “wicker man” è improbabile. Un’antica stampa, del 1676, fa troneggiare l’“incantatore” – incantatore di fuscelli - su una moltitudine umana poco più consistente delle formiche in schiera. 

astolfo@antiit.eu

Anche il padre, anche inadatto, c’è per sempre

Germania e Italia unite - come nella vita e nel lavoro della regista - in una storia di amore estivo, giovanile, distratto, ma seguito da una genitorialità immatura e incapace – tanto buona, ma. Finché Leo (una strepitosa ragazzina, Juli Grabenhenrich, si stanca dei vezzeggiativi telefonici insistenti della madre assente e parte alla ricerca del padre che ha visto in un video scaricato dalla madre e non protetto: un uomo felice, uno sportivo, che pratica e insegna il surf. Con la carta di credito della madre, e con l’inglese spedito, arriva a Marina Romea, la non proverbiale spiaggia di Ravenna, nella spettrale stagione invernale, aggravata dalle mareggiate, e dalle ruspe dell’interminabile ripascimento. Uno scenario di tempesta, quela sarà l’incontro col padre. Dapprima commosso. Lui è ben un buon padre, sollecito, affettuoso, di un’altra bambina che ha avuto da un’altra donna - anch’essa trascurata: una bambina che pange, ma sa anche ridere. Poi collerico contro i sensi di colpa, di lui, contro se stesso, che però proietta sulla figlia, che pure tanto ha voluto conoscerlo, accampando volgarmente a propria scusante l’immaturità.
Il lieto fine c’è – la storia è del resto semplice, comune, quotidiana. Ma questo è un film d’autore: accattivante per le immagini, i tempi (il montaggio), le caratterizzazioni. Anche duro, sotto l’apparente equanimità (non prendere partito), duro sulla genitorialità degli inadatti, incapaci, eternamente immaturi. Dei misfitts, quelli che sanno fare tutto (avventurosi, sradicati, solitari o egoisti) e non vengono a capo di nulla. Un genitore, purtroppo?, c’è per sempre nel corso di una vita.
Alissa Jung, Paternal Leave, Sky Cinema, Now


venerdì 24 ottobre 2025

Problemi di base di merito - 885

spock

Viene prima Zeus o prima Odino?

 

Prima il Sud o prima il Nord?

 

Prima o dopo, c’è una graduatoria?

 

In che senso – temporale, geografico?

 

Al ghiaccio si è meglio conservati?

 

O è la qualità del fulmine che fa la differenza?


spock@antiit.eu

 


Wagner di lusso a Santa Cecilia

Nuovo allestimento, esecuzione in forma scenica, interpreti wagneriani acclarati, l’orchestra dell’Accademia romana in grande spolvero, e sul proscenio, non al buio nella fossa mistica, rinforzata da sei arpe, sotto la mano gentile di Daniel Harding, per sole tre esecuzioni, tutte sold-out: grande festa a Roma, all’inaugurazine della stagione dei concerti, per la “prima giornata della sagra scenica ‘L’anello del Nibelungo’”. Magnifica prova dell’acustica della sala, 2.800 posti, con i cantanti in fondo alla scena e dietro l’orchestra invece che sul proscenio, stante l’insolito adattamento della sala da concerto. Speciamente sonora – vivace, teatrale, operistica – Sieglinde, il soprano lituano Vida Miknevičiūté. Col cattivo Hundig da lei rifiutato per Siegmund, il basso danese Stephen Milling. Singolarmente afoni invece la veterana wagneriana Miina-Liisa Värelä, Brünnhilde (sonora da ultimo, quando canta stesa per terra, sotto l’ira di Wotan), e il Siegmund del tenore americano James McCorkle, forse in un ruolo improvvisato (non vanta precedenti wagneriani).
Minimalista ma di effetto la messinscena: la regia, di Vincent Hughet, la scenografia, di Pierre Yovanovitch, di scale a zigurrat, che hanno aiutato i cantanti a sovrastare il complesso orchestrale. Aiutata da un uso sapiente delle luci, a opera di Christophe Foret, e dai ricchi costumi di Edoardo Russo, della sartoria Tirelli Trapetti. Uno scontornato al neon fa il bosco, la cavalcata delle Valchirie si fa con le ombre cinesi.
“La Valchiria” è la più rappresentata della tetralogia, e quindi si presuppone la più amata. O non è la meno macchinosa da rappresentare? Perché, come si sa, è un drammaccio, di dubbi, incertezze, impossibilità. Ed è noiosissima, un interminabile recitativo o declamato, 
intervallato da dialoghi parlati in forma di lamenti – mai una gioia (“non c’è un dolore al mondo che non trovi qui la sua espressioen più straziante”, Wagner scriveva a Caroline Sayn-Wittgenstein, la compagna di Liszt). Alluzzò i wagneriani per l’incesto professo di Sieglinde e Siegmund, gli amanti fratelli, che fanno anche un figlio – roba oggi da educande. Ma questo amore non regge vicende tanto assurde quanto complicate (dopo il secondo atto, dopo tre ore, vuoti visibili si sono fatti tra le poltrone). Con poca musica, giusto forse la “cavalcata”, e l’intermezzo di arpe e ottoni. Ma l’interesse stranamente rimane vigile: effetto della (sobria) messinscena, e della sonorità degli interpreti?

Una Roma wagneriana è la sorpresa maggiore. Santa Cecilia ha in programma, in forma scenica, tutta la tetralogia, un titolo l’anno. Anche l’Opera quest’anno si inaugura con Wagner, “Lohengrin”.  
R. Wagner,
La Valchiria, Sala Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica, Roma

giovedì 23 ottobre 2025

Israele a Beirut

A fine settembre e poi il 6 ottobre un generale israeliano con un arabo perfetto ammonisce, ripreso o rilanciato da tutti i media, che questa o quell’area o quartiere o palazzo di Beirut sarà bombardato dall’aviazione. E poi sui cellulari si poteva avere la pianta esatta dell’area da bombardare. Qualcuno si è anche appostato per vedere il bombardamento.
Nel Libano Sud, bombardato più volte da Israele durante la guerra, e anche prima, da cui chi poteva è sfollato, il tentativo di ritornare dopo la tregua, o comunque di recuperare qualche oggetto ancora utile, è stato seguito da droni. Con l’ingiunzione di aprire casse, valige e altri involucri prima di entrare, se i muri erano ancora in piedi. E di aprire i contenitori all’uscita, per mostrare ciò che si porta via.
Al mercato rionale una persona sconosciuta s’incontra. Che, a parlarci, ha un arabo non buono e anche un inglese non buono. Dice di essere un libanese del Sud che era emigrato in Canada, ora ritornato per vedere se la vecchia casa è ancora in piedi. Dopo questa conversazione è sparito.
(Queste naturalmente non sono cose viste, ma è “come se”, di narrazione affidabile).

 

I quattro tempi del cinema

Il cinema, “certo, non è la vita, è l’invenzione della vita, è un dialogo continuo con la vita”. È anche, come “Frank Capara disse: «Il cinema è una malattia”». Io l’ho presa molto presto”. Da bambino. I suoi festeggiavano col cinema. In casa non c’erano libri, il bambino soffriva di asma, e quindi non poteva fare sport, il tempo libero si passava al cienma. E per il bambino era “qualcosa di magico che cadeva lassù sullo schermo… Quando entravamo, per me era come entrare in uno spazio sacro, una sorta di santuario dove il mondo vivente intorno a me sembrava ricrearsi e realizzarsi”.
Il cinema visto con gli occhi di poi, caricando la memoria di effetti forse successivi. Da grande, che cos’è il cinema? “Prima di tutto, c’è la luce”. Come in ogni creazione, a partire dalla prima – “che significa la creazione delle forme”. O come usa dire, vedere qalcosa “alla luce” di qualcos’altro. “E poi c’è il movimento”. Qualcosa, questo “bisogno di catturare il movimento”, che già urgeva “30 mila anni fa nelle pitture rupestri di Chauvet”. Si discute chi ha “inventato” il cinema. Edison in America, i fratelli Lumière in Francia, Friese-Greene e R.W.Paul in Inghiltera. E Aedward Muybridge. E le pitture rupestri.
Il film dei fratelli Lumière che fu il primo proiettato per un pubblico mostra un treno in arrivo alla stazione. È “il terzo aspetto del cinema che lo rende così straordinariamente potente: è l’elemento del tempo”.  Il cinema si può dire “frammenti di tempo”, come James Stewart lo disse in conversazione con Peter Bogdanovich.
E poi c’è Méliès, “il cui contributo al cinema delle origini è al centro di ‘Hugo Cabret’: iniziò come mago e le sue immagini furono trasformate in parte del suo spettacolo di magia dal vivo. Creò trucchi fotografici e sorprendenti effetti speciali artigianali, e così facendo ricreò la realtà”.
Poi è venuto il montaggio, “tutto è stato portato oltre con il taglio”. Forse con Edwin S. Porter, 1903, “La grande rapina al treno”, che passa in continuo dall’interno all’esterno del vagone: “È questo è il quarto aspetto del cinema che è così speciale. Quella deduzione. L’immagine con gli occhi della mente”.
Il miracolo è questo: “Per me è lì che è nata l'ossessione. È ciò che mi fa andare avanti, non smette mai di emozionarmi. Perché fai un'inquadratura, la unisci a un’altra e vedi una terza immagine nella tua mente che in realtà non esiste in quelle altre due”. Ejzenštejn ne ha scritto, chiamandolo “montaggio intellettuale”, e ne ha fatto il centro della sua tecnica cinematogratfica. “Questo è ciò che mi affascina – a volte è frustrante, ma sempre emozionante: se modifichi la tempistica del montaggio anche solo di pochi fotogrammi, o anche di un solo fotogramma, allora anche quella terza immagine nella tua mente cambia”.
Martin Scorsese, The Persisting Vision: Reading the Language of Cinema, gratuito online (leggibile anche in italiano: La visione persistente. Leggere il linguaggio del cinema)

mercoledì 22 ottobre 2025

Ombre - 796

Sarkozy non è simpatico, l’ex presidente francese. Che ha rivoltato la Libia in odio all’Italia, aprendo una falla gigantesca d’instabilità alla frontiera sud, e si augurò (con Angela Merkel) il fallimento (default) dell’Italia. Ma ha saputo trasformare la sua carcerazione in un evento di opinione a suo favore. Anche se è stato un criminale cronico, con processi e condanne.
In Francia la politica ha ancora domicilio.  


La graduatoria delle performances di Borsa delle banche europee vede ai primi posti banche italiane: Unicredit + 940 per cento in cinque anni, dal 17 ottobre 2020, Bper + 845, Bpm + 769. Quarta viene una banca tedesca, Commerzbank, + 717 per cento. Bpm e Commerzbank hanno accelerato nell’ultimo anno, trascinate dalle ops di Unicredit. Un boom targato Unicredit?


Finalmente il “Corriere della sera” si accorge – se ne accorge Ferruccio de Bortoli - che i governi s’intromettono nella “proprietà delle aziende”. Il governo spagnolo su Bbva e quello di Roma su Unicredit. Ma limita il danno con un eufemismo: “Diventa importante la benevolenza di chi tira le leve”.


Si dimentica in fretta. Non molti anni fa l’Italia era il Paese dove l’economia era di partito – delle correnti Dc, con uno spruzzo di Psi, e qualche uomo di paglia che si dichiarasse repubblicano o liberale (manuale Cencelli). Oggi l’intervento è perfino sprezzante, con quel nome regale, “golden power”. Che poi sarebbe Giorgetti e Meloni uniti nella lotta.


Ristoranti semivuoti - che sempre sono pieni, dalle 11 alle 17  - al portico d’Ottavia a Roma, nel vecchio ghetto. Paura di attentati o sabotaggio? La Resistenza si fa al ristorante?


Nell’area del Portico dietro la sinagoga, dove si è parcheggiato da tempo memorabile, il vigile fa la multa, di sabato – pensando agli ebrei al tempio? Questa però è da Resistenza in piazza.


“Ogni giorno in Cisgiordania si segnalano imboscate, protette dall’esercito, contro i palestinesi”. Che ora si moltiplicano, per la raccolta delle olive. Secondo il “governo” palestinese, “il raccolto di quest’anno è il più pericoloso degli ultimi decenni: sradicati, spezzati o danneggiati 48.728 alberi, tra cui 37.237 ulivi”. Se anche fossero un decimo, una cifra spaventosa. Nei due anni di guerra “i coloni in Cisgiordania hanno compiuto 7.154 attacchi contro palestinesi o loro proprietà”. Il tutto in una ventina di righe, un piccolo riquadro. Obbligato da una foto che circola comunque sui social, di un colono col volto coperto che bastona una vecchia raccoglitrice di olive a terra, ed è la sola notizia di questa non guerra.


Dopo un anno e mezzo di tira-e-molla finisce nel ridicolo l’opa di Bbva, il secondo più grande banco spagnolo, su Sabadell, banca regionale catalana: le adesioni si fermano a un quarto del capitale. È stato politica contro mercato anche in Spagna nella vicenda, da sinistra invece che da destra, come nel caso di Unicredit-Bpm. 


In Spagna la contesa era per la crescita di Bbva tra i giganti della banca europea, ma anche tra due grandi assicurazioni straniere, la tedesca Allianz, legata a Bbva, e la svizzera Zurich, socio praticamente di maggioranza di Sabadell. La funzione pubblica gestita dalle assicurazioni, per di più straniere, non è male come mercato, golden power compreso.


Ilaria Salis ragiona in fretta, nel mezzo dello sconcerto per la strage di Castel d’Azzano provocata dai tre fratelli Ramponi: si sono difesi dalla rapacità del governo e del capitalismo – i tre hanno provocato la strage per vendetta contro uno sfratto esecutivo (per debiti, ultradecennali). E quindi la strage è “colpa del sistema”. Non è vero – la vicenda è all’opposto, i tre avevano azionato il mercato fraudolentemente. Ma Salis riflette un rivoluzionarismo senza scopo, e senza senso.  Frutto di una palese psicologia personale della donna. Ma anche di un rivoluzionarismo vuoto - sciocco.


Meloni che si difende da Landini in tv, dove l’ha detta, a qualche milione di persone, “cortigiana di Trump”: mezza pagina, pari (meno visibile), sul “Corriere della sera”. Zaia che si candida alle regionali nel Veneto una pagina, di fronte, molto visibile. Il leghismo sarà prevalente tra i lettori del giornale - chi altro se ne frega di Zaia, governatore di una regione che si governa da sola?


“La televisione israeliana non ha mostrato la devastazione a Gaza”, Amos Gitai, il regista. Che ripropone un suo dramma in teatro sull’assassinio di Itzak Rabin trent’anni fa, rimasto sostanzialmente impunito. Israele, l’isola democratica nel Medio Oriente?


Netanyahu ha sabotato precedenti intese per il rilascio degli ostaggi? Per poter prolungare la guerra, la “sua” guerra? Lo dice la madre di uno degli ostaggi, una delle tante che hanno battagliato in piazza per un’intesa. Ma è come se: la guerra doveva continuare fino alla distruzione radicale di Gaza.


“Non è scontato aumentare le produzioni negli Stati Uniti”, Fulvio Montipò, patron di Interpump (“numero uno al mondo nelle pompe ad alta pressione con il 50 per cento del mercato mondiale”), a proposito dell’America First di Trump: “Non si trova personale, le infrastrutture sono carenti, per trovare una fonderia si devono percorrere 1.500 km, la deindustrializzazione che c’è stata si sente”. Trump non è matto.

Pasolini, il fratello Guido, e la Resistenza

Guido, Guidalberto detto Guido, nome di battaglia Ermes (come Ermes Parini, scriverà Pier Paolo a Luciano Serra - il grande amico, insieme con Serra, di Pier Paolo agli studi a Bologna, poi morto in Russia), entrato nella Resistenza di soppiatto – senza dirlo alla madre, ma sì al fratello - nel maggio del 1944, con le formazioni della Brigata Osoppo, sette mesi dopo viene ucciso dai partigiani della brigata Garibaldi. Lui come molti altri della Osoppo, nell’“eccidio di Porzûs”, a tradimento, in un’operazione accuratamente preparata dai “garibaldini” con gli sloveni, che fece 17 vittime, nell’arco di dodici giorni, fra 7 e il 18 febbraio del 1945. “Uno degli episodi più drammatici della Resistenza”, dice l’editore. In realtà, una strage perpetrata con accuratezza, programmata e disposta dal commissario politico del Pci a Udine, nel quadro di un progetto che voleva la Carnia liberata per l’annessione alla Jugoslavia del compagno Tito.
Pier Paolo ne scriverà diffusamente, ma in “scartafacci” mai approntati per essere pubblicati. Il volumetto non è una “lettera”, ma un misto di appunti commemorativi, poesie (in friulano, dai “Chous in muàrt di Guido” e in italiano, “La passione del ‘45”), lettere familiari in cui si fa cenno a Guido e ala sua morte. Materiale sparso, riordinato da Graziella Chiarcossi. Con più di un motivo d’interesse – latitando una vera biografia di Pasolini. Specie una lunga dettagliata lettera di Guido dalla montagna a Pier Paolo (c’erano contatti, si facevano anche incontri: Pina Kalc ne racconta qui uno balordamente avventuroso al quale accompagnò la madre Susanna), in cui spiega il tradimento di sloveni e garibaldini. E la lunga lettera di Pier Paolo a Luciano Serra a Bologna, a Ferragosto del 1945, in cui spiega lo spirito avventuroso, fin da da bambino, del “buono” e “generoso” Guido, “che è stato per vent’anni sempe vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare alla stessa tavola” – e si professerà anche lui, come Guido e come Serra, “azionista” (Serra ricorderà Guido con un articolo un mese dopo su “Giustizia e Libertà”, un periodico bolognese del Partito d’Azione che recuperava la testata di Carlo Rosselli).
La commozione dura poco – più sentita è peraltro per la madre, in mezza paginetta. I primi “scartafacci” narrativi di Pasolini, “Amado mio” e “Atti impuri” (pubblicati nel 1982 ma scritti prima del 1950) non fanno caso del fratello morto - e così tragicamente. Il protagonista senza nome di “Atti impuri” fa tutto quello che Pasolini faceva a Casarsa e Versuta: la scuola, la poesia, le sagre, i balli, i boschetti appartati lungo il fiume. Per un lungo tratto il racconto è anche, caso unico nella enorme produzione pasoliniana, dell’amica degli anni di guerra a Casarsa, la violinista Pina Kalc, sotto il facile adattamento in Dina. Ogni tanto ricorre Guido, ma incidentalmente, per la notizia della morte, per “i tremendi mesi del lutto”, per il lutto stranamente breve, per una messa in suffragio. In questo ultimo caso sacrilegamente: le pratiche con un ragazzo di cui non sa il nome lo hanno eccitato tutta la notte, dice l’io narrante, “sì che stamattina (una giornata finalmente splendida di sereno) mentre si celebrava una Messa nella chiesetta di Viluta in suffragio  di mio fratello nell’anniversario della morte, assistendovi non riuscivo a staccare da me quel volto, che mi colmava di una sfibrante dolcezza” – e continua: “Vivevo tutto nel mio ricordo troppo recente, nel contatto ancora fisico con quel ragazzo fino a ieri straniero, che mi era stato più vicino di quanto lo sia mai stata mia madre”.
Resta in questa “lettera” l’interesse per il Pasolini mancato partigiano – e non per caso. Della Resistenza lo indigna il cinismo, nella reazione a caldo, quando ha avuto notizia dell’eccidio. Dopo la Liberazione, dopo tre mesi o quattro dall’eccidio - e confusamente (la “lettera” propriamente detta, il primo testo della raccolta, è datata 12 maggio 1945). I sopravvissuti sono reticenti, “per paura dei comunisti”. Mentre a Udine, “il giorno della liberazione, il capo della Garibaldi e il capo della Osoppo si sono baciati” – notevole anticipazione del compromesso storico, poi partito Democratico. Ma già prima degli eventi, niente pathos sulla Resistenza: “Tu avevi molta fiducia negli uomini, sei andato a metterti proprio in messo alle loro beghe, credendoli affari di qualche importanza”. La pensava come Pavese - quello del cosiddetto taccuino segreto, che di fatto sono interlocuzioni, domande a se
 stesso - al quale però si imputa per questo grave colpa.

Le brigate Osoppo-Friuli erano state fondate a Natale del 1943, al coperto del seminario di Udine, da volontari democristiani e laico-socialisti (azionisti), in funziione anti-tedesca e anti-slava. L’eccidio di Porzûs, di cui rimase vittima anche Guido Pasolini, avvenne fra il 7 e il 18 febbraio 1945, e fece 17 vittime. A opera di partigiani “garibaldni”, cioè del Pci che operava per l’annessione della Carnia alla Jugoslavia di Tito – che Tito aveva già liberato. Le responsabilità sono state accertate: non c’è solo la lettera di Guido a Pier Paolo, testimonianze e prove si sono accumulate, anche in sede giudizairia. Ma la vicenda è scarsamente ricordata e poco studiata, se non in ambito locale.
Una pubblicazione necessaria, per quanto modesta - che pur nella imminenza dei cinquanta anni della morte di Pasolini, non ha avuto una sola eco.
Pier Paolo Pasolini, Lettera al fratello, Garzanti, pp. 95 € 5,90

martedì 21 ottobre 2025

Letture - 593

letterautore


Bugia – "La bugia è un boomerang che non perdona” – Goliarda Sapienza, “Taccuini”, 22 gennaio 1990 (inediti, cit. da Angelo Pellegrino, “Ritratto di Goliarda Sapienza”, in appendice a G. Sapienza, “L’arte della gioia”, Einaudi, p. 557).
 
Ciclopi – “Occhi rotondi”: Savinio ne ricorda l’etimo in “Capri”, 17.
 
Coerenza - “Parola utopica a tutto tondo che già negli anni ’40-50 rappresentava una delle tante bugie ideologiche o certezze dogmatiche in nome delle quali innumerevoli lutti, crimini, dolori, ecc. hanno potuto essere perpetrati impunemente” – Goliarda Sapienza, “Taccuini”, 22 gennaio 1990 (inediti, citati da A. Pellegrino, “Ritratto di Goliarda Sapienza”).
 
Faraglioni – “Faraglioni non è il nome particolare dei due celebri scogli che emergono presso la costa sud di Capri: è un termine marinaresco. Faraglioni pure chiamano in Sicilia i grandi scogli che sorgono davanti Aci Castello” -A. Savinio, “Capri”, 67.
 
San Francesco – È tornato (di moda). Non col papa defunto, con la reintroduzione del giorno festivo. uelo che magnifica la povertà. Le rivisitazioni del santo si rincorrono, un po’ come anticipatore della green economy, un po’ come santo che rivaluta la povertà. Cazzullo, “Francesco, il primo italiano”, a capo di tutte le classifiche, romanzi compresi (naturalmente dietro il romance, della scrittrice sarda “Hazel Riley”, e l’obbligatorio, benché noioso, Dan Brown), Barbero, il vecchio Chesterston (e il vecchio Bargellini?) – in attesa di rivalutare infine anche Chiara Frugoni, che ne sapeva più di tutti?
 
Italia – “«L’Italia era coraggiosa, romanzesca, spirituale, generosa. Inoltre, si poteva trovare in essa tutte le bizzarrie di cui i sensi imperiosi e indigenti hanno bisogno per essere appagati o eccitati. Tutta la giovinezza dell’Italia si svolge senza piani, senza progetti, senza seguito, senza alcun controllo. Tutte le sue azioni avevano un carattere di frivolezza, mancanza di riflessione, corruzione, astuzia. L’Italia! Vorrei fare in questo libro il ritratto di una passione”, annotava Jean Giono del suo “Il disastro di Pavia” – “1525: la sconfitta di Francesco I in Italia”: “Passione politica, certo, ma prima di tutto passione”.
 
Leopardi – Fu anche comico - stroncatore, p.es., nei “Pensieri”, al XX: “Se avessi l’ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna dall’imitazione de’ cavalieri erranti, cosí io l’Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio… non meno crudele… Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri, (che) oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è il trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, una nuova tribolazione della vita umana”. 
 
Letteratura impossibile – Ci sono romanzi “impossibili”, spiegava Nabokov nella postfazione alla prima edizione di “Lolita”, dopo una serie di rifiuti da molti editori: “Esistono almeno tre temi assolutamente tabù per quanto concerne la maggior parte degli editori americani”, scriveva spiegando la vicenda editoriale di “Lolita”, il suo primo romanzo americano (scritto in inglese), sulla pedofilia. “Gli altri due sono: un matrimonio tra negro e bianca o negra e bianco che sia completamente e luminosamente fortunato e dia luogo a un gran numero di figli e di nipoti; e l’ateo completo che conduce un’esistenza serena ed utile, e muore nel sonno all’età di centosei anni”.  Scriveva nel 1952. Oggi quei romanzi sono possibili, e anzi “hanno mercato”. Ma quel linguaggio non è più possibile, da tempo. 
 
Modesta – Alla protagonista de “L’arte della gioia” Goliarda Sapienza ha dato il nome di Modesta Maselli, pittrice, sorella di Citto Maselli, marito di Goliarda – “una figura femminile da lei un tempo amata”, secondo Angelo Pellegrino, “Ritratto di Goliarda Sapienza” (del “passaporto sottratto alla sorella di Maselli, che molto le somigliava”, la scrittrice si è anche servita per provare a vendere i gioielli sottratti a un’amica – nella farlocca vicenda messa su per “provare” il carcere, la vita da reclusa.
 
Noia – Segno di distinzione  - dal Settecento fino al secondo Novecento - in ambito intellettuale? Lucia Berlin, nel racconto “Andado”, al centro della raccolta “Sera in paradiso”, la rileva raccontando la sua vita agiata a Santiago del Cile dopo la guerra, e si chiede il perché. “Perché è segno di raffinatezza essere annoiati?”, si chiede del bello della compagnia, “altero, sdegnoso in tweed inglese”: “Viaggiatori eleganti e amanti del teatro affettano lo stesso corrucciato aspetto di noia. Perché non dire: «Il viaggio? una meraviglia! Bellissima rappresentazione!»”.
 
Platone - È venuto in gran voga, all’improvviso, quale araldo dell’amore: Matteo Nucci, “Platone. Una storia d’amore”. Pietro Del Soldà, “Amore e libertà”, Massimo Gramellini, “L’amore è il perché”.
 
Russia
– “Per me diventa sempre più chiaro che la Russia è la mia patria – tutto il resto è paese straniero”. Rilke lo scrisse nella foia per Lou Salomé, che gliel’ha fatta scoprire, la Russia dopo la sessualità a letto, in due lunghe immersioni, nel 1899 e nel 1900. Ma non si smentì a mente fredda – sempre legato a Leonid Pasternak, il padre pittore, nonché a Boris, e a Marina Cvetaeva soprattutto. E per i mesi terminali volle a segretaria e confidente una giovane russa, Genija Černosvitova.
 
“Sciti giganteschi e fulvi” trova Savinio a Capri, alla Marina Piccola, nel 1926, che “usano troneggiare  nell’acqua assieme con le loro donne non meno fulve e gigantesche” – i russi mezzo emigrati e mezzo no, come Gorki’j (che allora si era spostato a Sorrento).
 
Suicidio
– Un’“azione vitale” Goliarda Sapienza lo fa dire al (suo) analista (Ignazio Majore) ne “Il filo di mezzogiorno” – il romanzo di qualcuno che “muore perché ha vissuto”: “Ci sono suicidi veri e suicidi, come è stato il suo, che non sono altro che un’azione vitale, un gesto per uscire fuori da una morte lenta o da una situazione difficile. Cerchi di ricordare: lei non voleva morire, voleva solo cambiare”.
 
Telemaco
- L’eroe dell’ “Odissea” lo vuole Piero Boitani. Il “vero eroe”, non solo perché il poema si occupa esclusivamente di lui nei primi quattro canti, la “Telemachia”, ma di più perché la sua è la narrazione di come nasce un eroe, e il suo viaggio alla ricerca del padre è un vero viaggio di ricerca e di scoperta – il viaggio di Ulisse non è quello di Dante, oltre le colonne d’Ercole della conoscenza, ma un viaggio di ritorno, tra nostalgie e amnesie, solo accidentato, e di un personaggio non eroico, anzi poco volitivo, piuttosto anzi passivo. Ne ha trattato ne “Il grande racconto di Ulisse”, ne parla, in sintesi, e con più nettezza, sul “Sole 24 Ore Domenica”.

Specialista di Letterature Comparate, e di Odisseo-Ulisse, autore anche, prima de “Il grande racconto”, di un “Miti. Ulisse fonda l’Occidente”, Boitani vede da ultimo nell’“Odissea” una “metafora della vita”, e nella “Telemachia” il racconto di una ricerca, benché condita delle solite casualità, occorrenze impreviste.
La “Telemachia”, se non l’“Odissea”, come primo “romanzo di formazione”, nella ricerca di un sentiero nella vita?
 
Ulisse
- “Eroe di sopportazione”, lo ricorda Savinio (“Capri”, 13), citando Omero, “i canti iniziali, del viaggio di Telemaco”.

letterautore@antiit.eu

Una vera principessa - nostalgia

“Arbasino, Visconti, Praz e Bianca Riccio, il circuito in cui conobbi Domietta”, ai primi del ‘72. Una “vera principessa” - secondo il decalogo che in quei primi Settanta Dario Fo andava propagandando col “Mistero buffo” (“un conte è un conte anche se è nudo”). Già incontrata socialmente a Firenze, come Laudomia, che era il suo vero nome, Hercolani, che era il nome del marito, un principe bolognese.
“Non era bela, era bellissima”. Di conversazione “sottile e ironica”. Di “natura generosa, forse spontanea, ma non semplicce – non pacchiana.
Un ritratto non inappropriato per un giornale “comunista”.
Alvar Gonzalez-Palacios, Domietta Del Drago, principessa irreale, “il Manifesto - Alias”, online  

lunedì 20 ottobre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (610)

Giuseppe Leuzzi
“«Non è fatto ancora», aveva detto Becco d’Avvoltoio del popolo calabrese”, annota lo scrittore austriaco Friedrich Werner van Oestéren nei suoi ricordi di viaggio del 1908, “Povera Calabria”. Lo fa dire al vetturino, che chiama Becco d’Avvoltoio, sempre alludendo al famoso “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” di D’Azeglio. Non è “fatto”, intende correttamente van Oestéren, nel senso che non ha, non padroneggia, il “linguaggio” comune, il modo di essere, di intendere, e di fare – l’idem sentire de republica.
Detto della Calabria, ma vale per tutto il Sud – la “questione meridionale” c’è, eccome, e non solo per il leghismo.
 
Nel ritratto esilarante della nonna materna, “Mia nonna e il Conte”, Emanuele Trevi fa un tributo alla madre, che non nomina (Eleonora D’Agostino). Psicoterapeuta come il padre Mario. Non influente come il padre, cui Trevi ha già dedicato un lungo racconto, “La casa del mago”, né famosa: “Una divinità tirrenica, appartenente al temibile, indomabile, antichissimo ceppo calabrese: perspicace, volubile, testarda, capace di leggerti un pensiero nella testa prima ancora che tu stesso l’avessi formulato”. La famosa “donna del Sud”, della letteratura veneto-lombarda.
 
“I dati sulla lettura non sono confortanti”, fa notare Cristina Taglietti a Stefano Mauri, il pad di Gems, il secondo gruppo editoriale italiano dopo Mondadori, sul “Corriere della sera”: “Ci sono ampie aree di sottosviluppo”, è la risposta, “soprattutto al Sud. Fatalmente abbassano gli indici di lettura, che al Nord sono invece in linea con gli altri Paesi europei”. Ci sono due Italie anche nella lettura.
 
Al voto per la Regione Campania una sfilza di figli si candidano al consiglio: De Luca (indirettamente), Mastella, Casillo, Cesaro, Manfredi, Fiola, Demitry, Mensorio. Tutti impegnati a sostegno del candidato vincente, Fico. Che si dice di sinistra, ma di sicuro è 5 Stelle, come dire l’anti-politica, l’anti-affarismo, l’anti-nepotismo, l’anti. Si direbbe anti-conformismo, salutare.  E invece è una forma di dipendenza – “la” dipendenza micidiale: lo svuotamento della politica.
 
Savinio, “Capri”, 23, nota sul più grande degli scogli li Galli le rovine di un castello medievale, inteso a impedire che “i pirati musulmani impiantassero in quel luogo una specie di Fraxinetum marittimo”. Frascineto – oggi borgo arberëshe in Calabria, nome derivato dai frassini che alberavano l’antica concessione, il Casale del Duca – era l’insediamento musulmano in Provenza, di corsari del regno di Granada, che dominò la costa ligure e le Alpi tra l’887 e il 972.
Facendo la storia delle Crociate come prima manifestazione del deprecato eurocentrismo si trascura che si fecero in reazione alle devastazioni dell’Oriente cristiano, e a  secoli di scorrerie arabe impunite e durature, anche di molti decenni, in Sicilia, in Puglia (emirati di Bari e Taranto), in Calabria (emirati di Tropea, Santa Severina, Amantea). 
 
La donna cucuzza – o la matriarca del Sud
La “donna del Sud”, dunque, oltre che vestirsi di nero, è matriarca. Perlomeno lo è stata, ma non in tempi remoti. La fa matriarca Nadia Terranova nel suo ultimo romanzo, “Corta è la memoria del cuore”, per come se ne legge sul “Foglio”. Un racconto che partirebbe “dai silenzi cupi della sicilianissima matriarca Teresa”. Non dell’Ottocento, la matriarca si laureava negli anni Cinquanta – si laureava in legge, a Messina, dove col severissimo rettore Pugliatti a Messina in Legge si laureavano in pochi. Insomma, è la nonna di Terranova. Che Terranova dice “colta e intelligente”, secondo ne scrive “il Foglio”, ma dall’“occhio pesante”, cioè predisposto al peggio, premonitore, scrutatore, antevisionario di sciagure.
Nella sintesi che Maria Pia Farinella fa sul quotidiano: “Si farà consegnare dal marito tutto ciò che guadagna per amministrarlo lei. E farà pesare su tutta la famiglia la sua fatica, il fardello di crescere i figli. Un ricatto morale che è un modo molto siciliano di esercitare il potere. Alzando il prezzo per poter esercitare ancora più potere. Una recriminazione continua in cui l’onnivora patriarca si fa vittima. Per non pagare mai dazio”.
“Falla come vuoi sempre è cucuzza”, diceva il genitore, rigido sui cibi portati in tavola ma a cui la “cucuzza” non piaceva in nessun modo.
Ma c’è di più: Farinella esuma a supporto di Terranova un’intervista di Sciascia a Franca Leosini, per “L’Espresso”, nel 1974, in cui così risponde al quesito perché non aveva personaggi femminili nei suoi racconti, se non di sbieco: “La ragione profonda”, risposta, “era l’avversione per la società matriarcale. Ho visto sempre che le donne hanno comandato, e hanno comandato sempre annientando l’uomo”. L’uomo? “In fondo questa virilità siciliana si riduce a ben poco. Brancati l’ha messo in luce”. Un matriarcato malefico: “È lei, la donna, a consigliare la viltà, la prudenza, l’opportunismo, l’interesse particolare”.
Peggio, aggiunge Farinella, già capo redattore Rai a Palermo: “Nel lungo video che ho realizzato alla Rai Sciascia afferma….: «Mi conforta il fatto che uno scrittore straniero, un osservatore perspicace della realtà siciliana come Dominique Fernandez, abbia visto anche la mafia collegata a questo impero della donna»”.
Da non credere. Sempre per épater le bourgeois, scandalizzare i benpensanti? Sciascia non ne aveva bisogno. Ma è vero che “visse sempre”, nota Farinella, “circondato da donne…. Sei donne nella stessa casa con Leonardo Sciascia”, moglie, figlie e zie. E che la moglie, si può aggiungere, Maria, insegnante, buona cuoca, ospitando Marcelle Padovani, che col marito scriveva una lunga intervista, cucinò un ottimo pranzo, si schermì col dorso della mano dai complimenti che la ospite si apprestava a tributarle, e non disse verbo per tutto il pasto.  
 
Se l’uzbeko è meglio del cubano
Sui medici cubani in Calabria paginate, da anni, quasi ogni girono. Sugli infermieri uzbeki a Milano e Monza niente, solo il commediografo Massini artiglia la “non notizia” – in una breve riflessione, su un settimanale letterario, “Robinson”. Sui medici cubani in corsia in Calabria una campagna di denigrazione triennale contro il presidente della Regione Calabria Occhiuto che ce li ha messi, in mancanza d’altro – prendendosi la gestione della sanità regionale, dopo che per un dodicennio era servita a laute pensioni aggiuntive a cosiddetti “commissari, prefetti in pensione e generali. E da ultimo una inchiesta giudiziaria scandalistica della Procura renziana della Repubblica di Cosenza.
“Lombardia, un progetto di formazione” è invece il titolo pudico (ipocrita) con cui si comunica l’assunzione di 100 infermieri dell’Uzbekistan. Avanguardia di altre centinaia - ma non si può dire: per ora sono soltanto “in formazione”. Da uno dei tanti paesi, cioè, in cui deve operare Medici senza Frontiere – per debellare la tubercolosi, che da alcuni decenni ha un ritorno in Asia centrale, fino al Pakistan.
Occhiuto, del resto, non rivoluzionava. L’Emilia-Romagna, p.es., regione insospettabile e non criticabile, impiega personale sanitario asiatico e latinoamericano da almeno un trentennio – dopo avere provato incentivare il personale formato al Sud con affitti bloccati e perfino gratuiti. Ma in Calabria no, niente funziona, figuriamoci i cubani – al calabrese non si dà da bere. La questione meridionale è bene anche una questione dei meridionali.
Singolare anche la ricezione del “messaggio” della cosa, che la cosa suscita. L’artefice delle due chiamate straniere, in Calabria e in Lombardia, è lo stesso, Bertolaso, la ricezione è diversa. Scandalizzata – “aristocratica”, passatista - in Calabria, la cui sanità peraltro quotidianamente ci si diletta a immiserire, mentre in Lombardia, lì sì che ci sanno fare.
Questa puzza al naso delle pezze al culo farebbe una bella farsa, se non fosse un dramma.


Cronache della differenza: Aspromonte
“Nessuno può permettersi una vacanza a via Aspromonte”, intima il protagonista di Antonio Pennacchi, “Mammut”, p. 116, il sindacalista Benassa, nel mentre che aizza i compagni 
di lavoro a “occupare” la centrale nucleare di Latina – a via Aspromonte “dove c’è il carcere giudiziario”, spiega l’autore. La montagna forse più simpatica, alberata, luminosa, aperta da tutti i lati sul mare, sempre legata a morte e lutto. Anche a Latina.

 
Lo scrittore austriaco Friedrich Werner van Oestéren, che vi fece lunga randonnée a dorso di mulo – mentre la guida gli trotterellava  accanto a piedi, per risparmiare sulla tariffa – “meravigliato” lo trova “un altopiano completamente piatto, delimitato in lontananza dai margini di un bosco” non “aspro” come si aspettava – come direbbe il nome. È solo arrivato ai Piani d’Aspromonte in realtà, luogo privilegiato di colture, allora come oggi, malgrado l’abbandono delle campagne, di ortaggi e varietà pregiate di grano. Un terrazzato aperto sul mare: “L’Aspromonte non era dunque una catena di montagne, ma un grande altopiano!”. Ma non c’era più ignoranza allora di oggi. 

Il bosco è quello dove Garibaldi “fu ferito a una gamba”. Il ricordo di
fatta di laterizi disposti a strati in modo grossolano”. Sarà succeduto
da altri monumenti grossolani e come sinistri, specie quello odierno –
forse legati a sordità massoniche?
Garibaldi van Oestéren trova affidato a “una lapide commemorativa  fatta di laterizi grossolani disposti a strati in modo grossolano". Sarà succeduto da altri monumenti grossolani e come sinistri, specie quello odierno  (che nessuno infatti ora più visita) - forse legati a simbologie massoniche?

Van Oestéren trova il suo Aspromonte anche “incolto, spoglio”, ma
non si rende conto che è nella stagione morta. È partito da
Sant’Eufemia alle quattro del mattino tra contadini e contadine che lo
affiancavano a piedi nella lunga salita – “gente armata di pala e
accetta”, in realtà di zappa e accetta.
Allora e fino al dopoguerra, agli anni 1960, si saliva alla Montagna per sentieri, oggi si va per nugoli di strade, ogni piccolo paese ne ha una sua. 

Poi il viaggiatore – in foto un aristocratico austriaco primissimo Novecento, allora trentaquattrenne, molto azzimato, viaggiatore in solitario – incontra, come si incontra oggi, l’abetaia, “una vera, magnifica abetaia formata da abeti rossi, che si levavano imponenti verso il cielo! Dai rami emanava un profumo delizioso, un forte e gradevole odore di resina”. Con proprietà terapeutiche: popolate di “casetta di legno… con le pareti di abete rosso e un tetto di tegole” (costruzioni stagionali, smontabili, in uso fino a qualche decennio fa), dove “gente affetta da malattie polmonari veniva per curarsi e temprarsi all’aria di montagna”.


E poi i faggi: “Dopo una leggera salita cominciava il regno del faggio, un regno molto esteso che giungeva sino alla cima del Montalto. Secco, e luminoso. Oggetto, allora come oggi, di frequente disboscamento – c’è sempre una “industria boschiva”. “Che questo albero stupendo cresca così bene da queste parti” lo gratifica della interminabile lenta ascesa. Allora come oggi, “ogni tanto un cuculo, senza mai stancarsi faceva risuonare il suo grido” – “per il resto solo un grande silenzio”.


“L’acqua in Alvaro”, lo scrittore dell’Aspromonte, “è l’elemento primario, vitale, sacrale, liminare. Tra vita e morte, diluvio e fonte di memoria e di vita” - Vito Teti, “La lunga notte di Alvaro”, in “Corriere della Calabria”, 8 giugno 2025: “Già nel libretto giovanile su Polsi sono dominanti la dimensione del mangiare insieme, dell’acqua come purificazione, del pellegrino come errante che cerca acqua fresca, verità e senso”.


Nello stesso volumetto Alvaro riprende la leggenda dell’“Acqua della prena”, della donna incinta (“prena” in dialetto), che si riposò a metà dell’erta tra Polsi e Puntone della Croce, pregando la “Madonna affinché le facesse trovare un po’ d’acqua per dissetarsi, e la sorgente zampillò.


Van Oestéren, anche lui, non resiste al richiamo dell’acqua di sorgente dell’Aspromonte, e nella faticosa ascesa al Montalto a dorso di mulo annota: “Quando un ruscelletto” si accostò al margine del sentiero, il mulattiere-guida pedestre “si piegò e bevve con tanto gusto”“ che anche il viaggiatore illustre se ne sente attratto, e si fa riempire la tazza che porta alla cintura per le emergenze: “L’acqua ghiacciata, purissima, era rinfrescante e ristorava magnificamente. Bevvi fino all’ultima goccia”. 


leuzzi@antiit.eu


Se Putin ha perso la guerra

E dunque Putin, come si legge, ha perso la guerra? Il contrario è sostento da Trump, e quindi è sospetto. Ma la verità dei nostri media è sospetta al contrario.
Sul “Corriere della sera”, che “il punto militare” affida a Marta Serafini, inviata a Kiev, in alternativa con Guido Olimpio (da New York? dal Pentagono? da Milano?), si legge: “Dall’inizio dell’invasione a gennaio di quest’anno le perdite russe amontano a 640.000-877.000 soldati, di cui 137.000-228.000 sono morti. E a metà ottobre il bilancio era aumentato di quasi il 60%, passando da 984.0000 a 1.438.000 perdite, di ui 190.000-480.000 morti”.
Dati significativi di fantasia?
L’avvertenza c’è: “Il dato è di Kiev” – i dati, cioè, buttati giù alla rinfusa. Ma, di suo, il gironale è sicuro: “Per avere il Donbass (che ha già occupato, n.d.r.) allo zar servono cinque anni”. Questo secondo “una stima dell’Economist”.
Ci piace vincere. Ma credere?

Le divinità nordiche erano mezzo latine

Il riesame di alcun “nuove” divinità femminili in area germanica, agi albori della sua storia, dei (pochi) riferimenti ricavabili da lapidi e iscrizioni, porta a collegarle alla presenza romana, di legioni e coloni, tra le metà del primo secolo a.C. e la metà del successivo. Lungo il limes romano-germanico sul medio Reno – come anche in Britannia. Aree di guarnigioni e le circostanti “zone di interscambio” e canabae.
Canaba erano un po’ l’intendenza che segue l’esercito: l’agglomerato civile e commerciale che si sviluppava attorno alle fortezze legionarie permanenti (castra), di familiari dei soldato o di locali che li ospitavano e offrivano merci o servizi – inizialmente capanne o baracche, poi villaggi, in qualche caso città.
“La Germania Inferior cisrenana e da considerare un territorio di insediamenti instabili (di genti prevalentemente celtiche e germaniche), sottoposti periodicamente, dalla meta del sec. I a.n.e. fino circa alla insurrezione batava del 69-70, a operazioni di rastrellamento e reinsediamento da parte
dei Romani. In questo modo l’Impero si assicurava, tra Reno, Mosa e Mosella, un’ampia area limitrofa agli accampamenti militari ripopolata con un alto numero di veterani e dediticii: gentes, pagi e civitates
Sono esaminate cinque di queste “divinità”, tutte femminili (“per rimettere in discussione un topos militare che ribaltava i tradizionali ruoli femminili ritagliati funzionalmente nella società patriarcale
Germanica”): Baduhenna, Hariasa, Harimella, Fledimela,Vihanza, Matres Alatarviae.
Un saggio breve - lungo quanto la bibliografia….. Enigmatico anche i sottotitolo, “Note di teonimia germanica”. Ma denso senza essere concettoso.
Marco Battaglia, Numina proelii?, SSL, pp. 16 , free online

domenica 19 ottobre 2025

Problemi di base - 884

spock


Libertà è liberare?
 
Cioè: ama il tuo prossimo, etc.?
 
La santità è complicata?
 
Si può essere ottimisti solo per essere poveri?
 
O se la felicità può essere povera?
 
Se il povero può essere ricco (solo) di spirito?

spock@antiit.eu

Trump mette l’Europa all’angolo

L’Europa deve pagare dazio, e deve raddoppiare le spese militari. E non per una difesa comune, europea: per sostenere le spese Nato, alleviandone gli Stati Uniti.
Trump all’improvviso, ottenuto dall’Eurpa quanto chiedeva, alza un muro contro la Cina. Non politico, non militare, economico. Dopo i sorrisi, i colloqui, le intese, le promesse di incontri, che non vengono rimangiati. Giusto per costringere la Cina a trovare sbocchi in Europa, a qualsiasi prezzo. Cioè a prezzi imbattibili – si veda per abbigliamento, high fashion compresa, o automobili. Oppure col ricatto: altrimenti  niente terre rare e niente batterie.
È un sospetto. nemmeno un indizio. Ma è una vita che gli Stati Uniti hanno nel mirino l’Europa. È come se gli Usa di Biden, da vice con affari in Ucraina e poi da presidente, avessero spinto l’Europa a separarsi dalla Russia. Quindi inerme ora all’ovvio assalto-ricatto cinese.
 

Israele è fallito, facciamolo diverso

"Una disintegrazione inevitabile, caotica e violenta dello Stato ebraico" sarebbe la sintesi del libro. Ma di fatto Pappé non si spinge a tanto. Nella prima parte lo storico – da sempre in polemica col sionismo, con lo Stato confessionale e colonizzatore - analizza storia e ideologia del sionismo. Nella seconda la creazione del “popolo palestinese”, per l’ottusità e la volenza del sionismo.  Nella terza, “Verso la fine di Israele”, con gli esiti fallimentari del sionismo, con l’“incapacità del processo di pace” finora di proporre soluzioni viabili, che dice il segno tramonto di Israele, propone e analizza “sette mini-rivoluzioni cognitive” per trasformare-recuperare “lo Stato collassato” in “uno nuovo”. A cui aggiunge un’ottava “minirivoluzione”: un disegno o sogno di “una nuova Palestina del dopo Israele nell’anno 2048”. Tra non molto cioè, e quindi un passaggio infine ottimista. “Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina” è il sottotitolo.
Pappé parte da una constatazione, che questo sito poteva fare il giorno dopo il 7 ottobre, ovvia cioè, che invece non si fa: i palestinesi hanno combattuto una guerra, feroce ma dura. A cui va aggiunta un’altra ovvia constatazione: Israele ha vinto, e non poteva che vincere, ma con difficoltà, senza merito, e senza guadagni, anzi con la prospettiva di doversi in qualche modo ricredere e riconfigurare. Ma lo storico israeliano dice che dopo questa guerra Israele è destinato a una disintegrazione inevitabile. E questo non è possibile e non è vero: Israele è ben lì, sui suoi piedi, e ben sorretto dagli Stati Uniti.
“Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra sia già cominciata”. Un po’ perché tutta l’area ha un futuro incerto: “La Siria si è già disintegrata come Stato, il Libano è finito di recente fra gli Stati falliti”, e in Iraq, o “in posti remoti come lo Yemen, il Sudan, la Libia”, la deflagrazione è il motore. E così “stiamo assistendo alla fine dello Stato d’Israele”. Una conclusione però temperata da un “o se non altro (alla fine) del progetto sionista quale lo conosciamo”. 
Si parte per la verità con un interrogativo: “Dovremmo parlare della fine di Israele?” Gli Stati periscono, la Jugoslavia, il Vietnam del Sud, “o finiscono come se niente fosse”, e nel caso di Israele è esagerato, nota lo stesso storico. Altri sviluppi possono venire da esempi che non la Jugoslavia, in forma di cambio di regime, radicale: Sudafrica, Cile, Argentina, Iraq. Pappé propende per questa seconda ipotesi. Ma in una forma forse utopistica - a prescindere da Netanyahu e dalle destre che lo sostengono: uno Stato non teocratico o confessionale, non razziale (c’è ancora pudore a usare le parole giuste, ma lo Stato di Israele si vuole ebraico, e quindi non ha spazio per altri).
Alla fine, il libro nasce dall’intenzione di “offrire un’interpretazione più speranzosa, più positiva degli eventi che sono seguiti al 7 ottobre 2023”. Quello che si sta sbriciolando” è “lo Stato d’Israele come uno Stato ebraico”.  E questo si rileva non per “una posizione politica…. : è un processo oggettivo che è già cominciato”.
Con capitoli del tipo “La morte dell’industria della pace”.
Il tema si moltiplica, da qualche mese. Soprattutto da parte di ebrei non sionisti - non sioisti attivi, con legami o intrecci con Israele, o comunque schierati: Furio Colombo e Anna Foa i più eminenti in Italia. Papp fra i tanti, come già Anna Foa un anno prima, esamina gli eventi da storico. E quindi  è necessariamente pessimista – o ottimista, se “Israele” è un male, quello di Netanyahu come quello di Ben Gurion. Ma si sottovaluta, quale che sia il giudizio etico che sottende a queste trattazioni, la forza di questo - o questa? - Israele: la larga base dello Stato confessionale (senza più cristiani, p. es., a Gerusalemme, Betlemme e altrove) e
 il sostegno incondizionato, finanziario e militare, degli Stati Uniti, di cui è la “base” nel Medio Oriente e nel Mediterraneo.

Su questo Pappé ha giusto un § iniziale “La pax americana dal 1967 a oggi”. Per dire che gli Stati Uniti hanno sempre protetto Israele all’Onu nelle votazioni sulla Cisgiordania, sulla politica di colonizzazione forzata. Ma c’è molto di più.
Per gli Stati Uniti – e in fondo anche per l’Europa – vale quello che il generale Haig, il capo di gabinetto che nel 1974 convinse Nixon alle dimissioni, poi segretario di Stato di Reagan, ebbe a dire in questa funzione: “Israele è la più grande portaerei americana al mondo, è inaffondabile, non porta nemmeno un soldato americano, e presidia una regione critica per la sicurezza”. Il presidente egiziano Al Sisi deve a Israele una decina di anni fa il blocco martellante, con droni, elicotteri e aerei, del tentativo di Hamas di allungare Gaza al nord del Sinai – una campagna incidentale, come di un intervento di polizia contro minacce terroristiche, che tuttavia è andata avanti per un paio d’anni. Lo stesso con i bombardamenti dei siti nucleari di Saddam Hussein a suo tempo, e dell’Iran ora. Per non dire della “liberazione “ di Beirut, palazzo per palazzo, casa per casa, dai depositi di Hezbollah.
Ilan Pappé, La fine di Israele, Fazi, pp. 288 € 18,50