sabato 25 ottobre 2025
Il mondo com'è (490)
Wicker Man – Non si dice, ma
perché non sarebbe il progenitore di Gulliver – più o meno consapevolmente nella
fantasia dell’attempato e colto Jonathan Swift? Secondo l’IA “«The Wicker Man»” si
riferisce sia all’iconico film horror britannico del 1973 che alla figura
centrale del suo finale, un grande idolo di vimini in cui il protagonista viene
bruciato vivo come sacrificio umano per la fertilità della
terra. Storicamente, il termine indica una statua di vimini usata dai
Druidi per sacrifici umani, sebbene l’esistenza effettiva di tali pratiche sia
dibattuta dagli storici, con le prove che provengono principalmente da antiche
fonti greco-romane, come quelle di Giulio Cesare”.
Anche il padre, anche inadatto, c’è per sempre
Germania e Italia unite - come nella vita e nel lavoro
della regista - in una storia di amore estivo, giovanile, distratto, ma seguito
da una genitorialità immatura e incapace – tanto buona, ma. Finché Leo (una
strepitosa ragazzina, Juli Grabenhenrich, si stanca dei vezzeggiativi telefonici
insistenti della madre assente e parte alla ricerca del padre che ha visto in un
video scaricato dalla madre e non protetto: un uomo felice, uno sportivo, che
pratica e insegna il surf. Con la carta di credito della madre, e con l’inglese
spedito, arriva a Marina Romea, la non proverbiale spiaggia di Ravenna, nella
spettrale stagione invernale, aggravata dalle mareggiate, e dalle ruspe dell’interminabile
ripascimento. Uno scenario di tempesta, quela sarà l’incontro col padre. Dapprima
commosso. Lui è ben un buon padre, sollecito, affettuoso, di un’altra bambina
che ha avuto da un’altra donna - anch’essa trascurata: una bambina che pange,
ma sa anche ridere. Poi collerico contro i sensi di colpa, di lui, contro se
stesso, che però proietta sulla figlia, che pure tanto ha voluto conoscerlo,
accampando volgarmente a propria scusante l’immaturità.
Il lieto fine c’è – la storia è del resto semplice,
comune, quotidiana. Ma questo è un film d’autore: accattivante per le immagini, i
tempi (il montaggio), le caratterizzazioni. Anche duro, sotto l’apparente equanimità
(non prendere partito), duro sulla genitorialità degli inadatti, incapaci,
eternamente immaturi. Dei misfitts, quelli che sanno fare tutto
(avventurosi, sradicati, solitari o egoisti) e non vengono a capo di nulla. Un
genitore, purtroppo?, c’è per sempre nel corso di una vita.
Alissa Jung, Paternal Leave, Sky Cinema, Now
venerdì 24 ottobre 2025
Problemi di base di merito - 885
spock
Viene prima
Zeus o prima Odino?
Prima il Sud o
prima il Nord?
Prima o dopo,
c’è una graduatoria?
In che senso –
temporale, geografico?
Al ghiaccio si
è meglio conservati?
O è la qualità
del fulmine che fa la differenza?
spock@antiit.eu
Wagner di lusso a Santa Cecilia
Nuovo allestimento, esecuzione in forma scenica,
interpreti wagneriani acclarati, l’orchestra dell’Accademia romana in grande
spolvero, e sul proscenio, non al buio nella fossa mistica, rinforzata da sei arpe, sotto la mano gentile di Daniel Harding, per
sole tre esecuzioni, tutte sold-out: grande festa a Roma,
all’inaugurazine della stagione dei concerti, per la “prima giornata della
sagra scenica ‘L’anello del Nibelungo’”. Magnifica prova dell’acustica della
sala, 2.800 posti, con i cantanti in fondo alla scena e dietro l’orchestra
invece che sul proscenio, stante l’insolito adattamento della sala da concerto.
Speciamente sonora – vivace, teatrale, operistica – Sieglinde, il soprano
lituano Vida Miknevičiūté. Col cattivo Hundig da lei rifiutato per Siegmund, il
basso danese Stephen Milling. Singolarmente afoni invece la veterana wagneriana
Miina-Liisa Värelä, Brünnhilde (sonora da ultimo, quando canta stesa per terra,
sotto l’ira di Wotan), e il Siegmund del tenore americano James McCorkle, forse
in un ruolo improvvisato (non vanta precedenti wagneriani).
Minimalista ma di effetto la messinscena: la regia,
di Vincent Hughet, la scenografia, di Pierre Yovanovitch, di scale a zigurrat, che hanno aiutato i cantanti a sovrastare il complesso orchestrale. Aiutata da un uso sapiente delle luci, a opera di Christophe Foret, e dai ricchi costumi di Edoardo Russo, della
sartoria Tirelli Trapetti. Uno scontornato al neon fa il bosco, la cavalcata
delle Valchirie si fa con le ombre cinesi.
“La Valchiria” è la più rappresentata della tetralogia,
e quindi si presuppone la più amata. O non è la meno macchinosa da rappresentare?
Perché, come si sa, è un drammaccio, di dubbi, incertezze, impossibilità. Ed è noiosissima, un interminabile recitativo o declamato, intervallato da dialoghi parlati in forma di lamenti – mai una gioia (“non c’è un dolore al mondo che non trovi qui la sua
espressioen più straziante”, Wagner scriveva a Caroline Sayn-Wittgenstein, la
compagna di Liszt). Alluzzò i wagneriani per l’incesto professo di Sieglinde e
Siegmund, gli amanti fratelli, che fanno anche un figlio – roba oggi da
educande. Ma questo amore non regge vicende tanto assurde quanto complicate
(dopo il secondo atto, dopo tre ore, vuoti visibili si sono fatti tra le
poltrone). Con poca musica, giusto forse la “cavalcata”, e l’intermezzo di arpe
e ottoni. Ma l’interesse stranamente rimane vigile: effetto della (sobria)
messinscena, e della sonorità degli interpreti?
Una Roma wagneriana è la sorpresa maggiore. Santa Cecilia
ha in programma, in forma scenica, tutta la tetralogia, un titolo l’anno. Anche
l’Opera quest’anno si inaugura con Wagner, “Lohengrin”.
R. Wagner, La Valchiria, Sala
Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica, Roma
giovedì 23 ottobre 2025
Israele a Beirut
A fine settembre e poi il 6 ottobre un generale israeliano con un arabo
perfetto ammonisce, ripreso o rilanciato da tutti i media, che questa o
quell’area o quartiere o palazzo di Beirut sarà bombardato dall’aviazione. E
poi sui cellulari si poteva avere la pianta esatta dell’area da bombardare.
Qualcuno si è anche appostato per vedere il bombardamento.
Nel Libano Sud, bombardato più volte da Israele durante la guerra, e
anche prima, da cui chi poteva è sfollato, il tentativo di ritornare dopo la
tregua, o comunque di recuperare qualche oggetto ancora utile, è stato seguito
da droni. Con l’ingiunzione di aprire casse, valige e altri involucri prima di
entrare, se i muri erano ancora in piedi. E di aprire i contenitori all’uscita,
per mostrare ciò che si porta via.
Al mercato rionale una persona sconosciuta s’incontra. Che, a parlarci,
ha un arabo non buono e anche un inglese non buono. Dice di essere un libanese
del Sud che era emigrato in Canada, ora ritornato per vedere se la vecchia casa
è ancora in piedi. Dopo questa conversazione è sparito.
(Queste naturalmente non sono cose viste, ma è “come se”, di narrazione
affidabile).
I quattro tempi del cinema
Il cinema, “certo, non è la vita, è l’invenzione
della vita, è un dialogo continuo con la vita”. È anche, come “Frank Capara disse:
«Il cinema è una malattia”». Io l’ho presa molto presto”. Da bambino. I suoi
festeggiavano col cinema. In casa non c’erano libri, il bambino soffriva di
asma, e quindi non poteva fare sport, il tempo libero si passava al cienma. E
per il bambino era “qualcosa di magico che cadeva lassù sullo schermo… Quando
entravamo, per me era come entrare in uno spazio sacro, una sorta di santuario dove
il mondo vivente intorno a me sembrava ricrearsi e realizzarsi”.
Il cinema visto con gli occhi di poi, caricando la
memoria di effetti forse successivi. Da grande, che cos’è il cinema? “Prima di
tutto, c’è la luce”. Come in ogni creazione, a partire dalla prima – “che significa
la creazione delle forme”. O come usa dire, vedere qalcosa “alla luce” di qualcos’altro.
“E poi c’è il movimento”. Qualcosa, questo “bisogno di catturare il movimento”,
che già urgeva “30 mila anni fa nelle pitture rupestri di Chauvet”. Si discute
chi ha “inventato” il cinema. Edison in America, i fratelli Lumière in Francia,
Friese-Greene e R.W.Paul in Inghiltera. E Aedward Muybridge. E le pitture
rupestri.
Il film dei fratelli Lumière che fu il primo
proiettato per un pubblico mostra un treno in arrivo alla stazione. È “il terzo
aspetto del cinema che lo rende così straordinariamente potente: è l’elemento
del tempo”. Il cinema si può dire “frammenti
di tempo”, come James Stewart lo disse in conversazione con Peter Bogdanovich.
E poi c’è Méliès, “il cui contributo al cinema delle
origini è al centro di ‘Hugo Cabret’: iniziò come mago e le sue immagini
furono trasformate in parte del suo spettacolo di magia dal vivo. Creò trucchi
fotografici e sorprendenti effetti speciali artigianali, e così facendo ricreò
la realtà”.
Poi è venuto il montaggio,
“tutto è stato portato oltre con il taglio”. Forse con Edwin S. Porter, 1903, “La
grande rapina al treno”, che passa in continuo dall’interno all’esterno del
vagone: “È questo è il quarto aspetto del cinema che è così speciale. Quella
deduzione. L’immagine con gli occhi della mente”.
Il miracolo è questo: “Per
me è lì che è nata l'ossessione. È ciò che mi fa andare avanti, non smette mai
di emozionarmi. Perché fai un'inquadratura, la unisci a un’altra e vedi una
terza immagine nella tua mente che in realtà non esiste in quelle altre due”.
Ejzenštejn ne ha scritto, chiamandolo “montaggio intellettuale”, e ne ha fatto
il centro della sua tecnica cinematogratfica. “Questo è ciò che mi affascina –
a volte è frustrante, ma sempre emozionante: se modifichi la tempistica del
montaggio anche solo di pochi fotogrammi, o anche di un solo fotogramma, allora
anche quella terza immagine nella tua mente cambia”.
Martin Scorsese, The Persisting Vision: Reading
the Language of Cinema, gratuito online (leggibile anche in italiano: La
visione persistente. Leggere il linguaggio del cinema)
mercoledì 22 ottobre 2025
Ombre - 796
Sarkozy non è simpatico, l’ex presidente
francese. Che ha rivoltato la Libia in odio all’Italia, aprendo una falla
gigantesca d’instabilità alla frontiera sud, e si augurò (con Angela Merkel) il
fallimento (default) dell’Italia. Ma ha saputo trasformare la sua
carcerazione in un evento di opinione a suo favore. Anche se è stato un criminale
cronico, con processi e condanne.
In Francia la politica ha ancora
domicilio.
La graduatoria delle performances
di Borsa delle banche europee vede ai primi posti banche italiane:
Unicredit + 940 per cento in cinque anni, dal 17 ottobre 2020, Bper + 845, Bpm
+ 769. Quarta viene una banca tedesca, Commerzbank, + 717 per cento. Bpm e
Commerzbank hanno accelerato nell’ultimo anno, trascinate dalle ops di
Unicredit. Un boom targato Unicredit?
Finalmente il “Corriere della sera” si accorge – se ne accorge Ferruccio de Bortoli - che i governi s’intromettono nella “proprietà delle aziende”. Il governo spagnolo su Bbva e quello di Roma su Unicredit. Ma limita il danno con un eufemismo: “Diventa importante la benevolenza di chi tira le leve”.
Si dimentica in fretta. Non molti anni fa l’Italia era il Paese dove l’economia era di partito – delle correnti Dc, con uno spruzzo di Psi, e qualche uomo di paglia che si dichiarasse repubblicano o liberale (manuale Cencelli). Oggi l’intervento è perfino sprezzante, con quel nome regale, “golden power”. Che poi sarebbe Giorgetti e Meloni uniti nella lotta.
Ristoranti semivuoti - che sempre sono pieni, dalle 11 alle 17 - al portico d’Ottavia a Roma, nel vecchio ghetto. Paura di attentati o sabotaggio? La Resistenza si fa al ristorante?
Nell’area del Portico dietro la sinagoga, dove si è parcheggiato da tempo memorabile, il vigile fa la multa, di sabato – pensando agli ebrei al tempio? Questa però è da Resistenza in piazza.
“Ogni giorno in Cisgiordania si segnalano imboscate, protette dall’esercito, contro i palestinesi”. Che ora si moltiplicano, per la raccolta delle olive. Secondo il “governo” palestinese, “il raccolto di quest’anno è il più pericoloso degli ultimi decenni: sradicati, spezzati o danneggiati 48.728 alberi, tra cui 37.237 ulivi”. Se anche fossero un decimo, una cifra spaventosa. Nei due anni di guerra “i coloni in Cisgiordania hanno compiuto 7.154 attacchi contro palestinesi o loro proprietà”. Il tutto in una ventina di righe, un piccolo riquadro. Obbligato da una foto che circola comunque sui social, di un colono col volto coperto che bastona una vecchia raccoglitrice di olive a terra, ed è la sola notizia di questa non guerra.
Dopo un anno e mezzo di tira-e-molla finisce nel ridicolo l’opa di Bbva, il secondo più grande banco spagnolo, su Sabadell, banca regionale catalana: le adesioni si fermano a un quarto del capitale. È stato politica contro mercato anche in Spagna nella vicenda, da sinistra invece che da destra, come nel caso di Unicredit-Bpm.
In Spagna la contesa era per la crescita di Bbva tra i giganti della banca europea, ma anche tra due grandi assicurazioni straniere, la tedesca Allianz, legata a Bbva, e la svizzera Zurich, socio praticamente di maggioranza di Sabadell. La funzione pubblica gestita dalle assicurazioni, per di più straniere, non è male come mercato, golden power compreso.
Ilaria Salis ragiona in fretta, nel mezzo dello sconcerto per la strage di Castel d’Azzano provocata dai tre fratelli Ramponi: si sono difesi dalla rapacità del governo e del capitalismo – i tre hanno provocato la strage per vendetta contro uno sfratto esecutivo (per debiti, ultradecennali). E quindi la strage è “colpa del sistema”. Non è vero – la vicenda è all’opposto, i tre avevano azionato il mercato fraudolentemente. Ma Salis riflette un rivoluzionarismo senza scopo, e senza senso. Frutto di una palese psicologia personale della donna. Ma anche di un rivoluzionarismo vuoto - sciocco.
Meloni che si difende da Landini in tv, dove l’ha detta, a qualche milione di persone, “cortigiana di Trump”: mezza pagina, pari (meno visibile), sul “Corriere della sera”. Zaia che si candida alle regionali nel Veneto una pagina, di fronte, molto visibile. Il leghismo sarà prevalente tra i lettori del giornale - chi altro se ne frega di Zaia, governatore di una regione che si governa da sola?
“La televisione israeliana non ha mostrato la devastazione a Gaza”, Amos Gitai, il regista. Che ripropone un suo dramma in teatro sull’assassinio di Itzak Rabin trent’anni fa, rimasto sostanzialmente impunito. Israele, l’isola democratica nel Medio Oriente?
Netanyahu ha sabotato precedenti intese per il rilascio degli ostaggi? Per poter prolungare la guerra, la “sua” guerra? Lo dice la madre di uno degli ostaggi, una delle tante che hanno battagliato in piazza per un’intesa. Ma è come se: la guerra doveva continuare fino alla distruzione radicale di Gaza.
“Non è scontato aumentare le produzioni negli Stati Uniti”, Fulvio Montipò, patron di Interpump (“numero uno al mondo nelle pompe ad alta pressione con il 50 per cento del mercato mondiale”), a proposito dell’America First di Trump: “Non si trova personale, le infrastrutture sono carenti, per trovare una fonderia si devono percorrere 1.500 km, la deindustrializzazione che c’è stata si sente”. Trump non è matto.
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Pasolini, il fratello Guido, e la Resistenza
Guido, Guidalberto detto Guido, nome di battaglia
Ermes (come Ermes Parini, scriverà Pier Paolo a Luciano Serra - il grande amico,
insieme con Serra, di Pier Paolo agli studi a Bologna, poi morto in Russia), entrato
nella Resistenza di soppiatto – senza dirlo alla madre, ma sì al fratello - nel
maggio del 1944, con le formazioni della Brigata Osoppo, sette mesi dopo viene
ucciso dai partigiani della brigata Garibaldi. Lui come molti altri della
Osoppo, nell’“eccidio di Porzûs”, a tradimento, in un’operazione accuratamente
preparata dai “garibaldini” con gli sloveni, che fece 17 vittime, nell’arco di
dodici giorni, fra 7 e il 18 febbraio del 1945. “Uno degli episodi più
drammatici della Resistenza”, dice l’editore. In realtà, una strage perpetrata
con accuratezza, programmata e disposta dal commissario politico del Pci a
Udine, nel quadro di un progetto che voleva la Carnia liberata per l’annessione
alla Jugoslavia del compagno Tito.
Pier Paolo ne scriverà diffusamente, ma in
“scartafacci” mai approntati per essere pubblicati. Il volumetto non è una
“lettera”, ma un misto di appunti commemorativi, poesie (in friulano, dai
“Chous in muàrt di Guido” e in italiano, “La passione del ‘45”), lettere
familiari in cui si fa cenno a Guido e ala sua morte. Materiale sparso,
riordinato da Graziella Chiarcossi. Con più di un motivo d’interesse –
latitando una vera biografia di Pasolini. Specie una lunga dettagliata lettera
di Guido dalla montagna a Pier Paolo (c’erano contatti, si facevano anche incontri:
Pina Kalc ne racconta qui uno balordamente avventuroso al quale accompagnò la
madre Susanna), in cui spiega il tradimento di sloveni e garibaldini. E la
lunga lettera di Pier Paolo a Luciano Serra a Bologna, a Ferragosto del 1945, in
cui spiega lo spirito avventuroso, fin da da bambino, del “buono” e “generoso”
Guido, “che è stato per vent’anni sempe vicino a me, a dormire nella stessa
stanza, a mangiare alla stessa tavola” – e si professerà anche lui, come Guido
e come Serra, “azionista” (Serra ricorderà Guido con un articolo un mese dopo
su “Giustizia e Libertà”, un periodico bolognese del Partito d’Azione che recuperava
la testata di Carlo Rosselli).
La commozione dura poco – più sentita è peraltro per
la madre, in mezza paginetta. I primi “scartafacci” narrativi di Pasolini,
“Amado mio” e “Atti impuri” (pubblicati nel 1982 ma scritti prima del 1950) non
fanno caso del fratello morto - e così tragicamente. Il protagonista senza nome
di “Atti impuri” fa tutto quello che Pasolini faceva a Casarsa e Versuta: la
scuola, la poesia, le sagre, i balli, i boschetti appartati lungo il fiume. Per
un lungo tratto il racconto è anche, caso unico nella enorme produzione
pasoliniana, dell’amica degli anni di guerra a Casarsa, la violinista Pina Kalc,
sotto il facile adattamento in Dina. Ogni tanto ricorre Guido, ma incidentalmente,
per la notizia della morte, per “i tremendi mesi del lutto”, per il lutto
stranamente breve, per una messa in suffragio. In questo ultimo caso
sacrilegamente: le pratiche con un ragazzo di cui non sa il nome lo hanno
eccitato tutta la notte, dice l’io narrante, “sì che stamattina (una giornata
finalmente splendida di sereno) mentre si celebrava una Messa nella chiesetta
di Viluta in suffragio di mio fratello nell’anniversario della morte,
assistendovi non riuscivo a staccare da me quel volto, che mi colmava di una
sfibrante dolcezza” – e continua: “Vivevo tutto nel mio ricordo troppo recente,
nel contatto ancora fisico con quel ragazzo fino a ieri straniero, che mi era
stato più vicino di quanto lo sia mai stata mia madre”.
Resta in questa “lettera” l’interesse per il Pasolini
mancato partigiano – e non per caso. Della Resistenza lo indigna il cinismo,
nella reazione a caldo, quando ha avuto notizia dell’eccidio. Dopo la
Liberazione, dopo tre mesi o quattro dall’eccidio - e confusamente (la
“lettera” propriamente detta, il primo testo della raccolta, è datata 12 maggio
1945). I sopravvissuti sono reticenti, “per paura dei comunisti”. Mentre a
Udine, “il giorno della liberazione, il capo della Garibaldi e il capo della
Osoppo si sono baciati” – notevole anticipazione del compromesso storico, poi
partito Democratico. Ma già prima degli eventi, niente pathos sulla Resistenza:
“Tu avevi molta fiducia negli uomini, sei andato a metterti proprio in messo
alle loro beghe, credendoli affari di qualche importanza”. La pensava come Pavese - quello del cosiddetto taccuino segreto, che di fatto sono interlocuzioni, domande a se stesso - al quale però si imputa per questo grave colpa.
Le brigate Osoppo-Friuli erano state fondate a Natale
del 1943, al coperto del seminario di Udine, da volontari democristiani e
laico-socialisti (azionisti), in funziione anti-tedesca e anti-slava. L’eccidio di Porzûs, di
cui rimase vittima anche Guido Pasolini, avvenne fra il 7 e il 18 febbraio
1945, e fece 17 vittime. A opera di partigiani “garibaldni”, cioè del Pci che
operava per l’annessione della Carnia alla Jugoslavia di Tito – che Tito aveva
già liberato. Le responsabilità sono state accertate: non c’è solo la lettera
di Guido a Pier Paolo, testimonianze e prove si sono accumulate, anche in sede
giudizairia. Ma la vicenda è scarsamente ricordata e poco studiata, se non in
ambito locale.
Una pubblicazione necessaria, per quanto modesta -
che pur nella imminenza dei cinquanta anni della morte di Pasolini, non ha
avuto una sola eco.
Pier Paolo Pasolini, Lettera al fratello,
Garzanti, pp. 95 € 5,90
martedì 21 ottobre 2025
Letture - 593
letterautore
Bugia – "La bugia è un
boomerang che non perdona” – Goliarda Sapienza, “Taccuini”, 22 gennaio 1990
(inediti, cit. da Angelo Pellegrino, “Ritratto di Goliarda Sapienza”, in appendice
a G. Sapienza, “L’arte della gioia”, Einaudi, p. 557).
Ciclopi – “Occhi rotondi”:
Savinio ne ricorda l’etimo in “Capri”, 17.
Coerenza - “Parola utopica
a tutto tondo che già negli anni ’40-50 rappresentava una delle tante bugie ideologiche
o certezze dogmatiche in nome delle quali innumerevoli lutti, crimini, dolori,
ecc. hanno potuto essere perpetrati impunemente” – Goliarda Sapienza,
“Taccuini”, 22 gennaio 1990 (inediti, citati da A. Pellegrino, “Ritratto di
Goliarda Sapienza”).
Faraglioni – “Faraglioni non
è il nome particolare dei due celebri scogli che emergono presso la costa sud
di Capri: è un termine marinaresco. Faraglioni pure chiamano in Sicilia i
grandi scogli che sorgono davanti Aci Castello” -A. Savinio, “Capri”, 67.
San Francesco – È tornato (di moda).
Non col papa defunto, con la reintroduzione del giorno festivo. uelo che magnifica la povertà. Le rivisitazioni
del santo si rincorrono, un po’ come anticipatore della green economy,
un po’ come santo che rivaluta la povertà. Cazzullo, “Francesco, il primo italiano”,
a capo di tutte le classifiche, romanzi compresi (naturalmente dietro il romance,
della scrittrice sarda “Hazel Riley”, e l’obbligatorio, benché noioso, Dan
Brown), Barbero, il vecchio Chesterston (e il vecchio Bargellini?) – in attesa di
rivalutare infine anche Chiara Frugoni, che ne sapeva più di tutti?
Italia – “«L’Italia era
coraggiosa, romanzesca, spirituale, generosa. Inoltre, si poteva trovare in
essa tutte le bizzarrie di cui i sensi imperiosi e indigenti hanno bisogno per
essere appagati o eccitati. Tutta la giovinezza dell’Italia si svolge senza
piani, senza progetti, senza seguito, senza alcun controllo. Tutte le sue
azioni avevano un carattere di frivolezza, mancanza di riflessione, corruzione,
astuzia. L’Italia! Vorrei fare in questo libro il ritratto di una passione”,
annotava Jean Giono del suo “Il disastro di Pavia” – “1525: la sconfitta
di Francesco I in Italia”: “Passione
politica, certo, ma prima di tutto passione”.
Leopardi – Fu anche
comico - stroncatore, p.es., nei “Pensieri”, al XX: “Se avessi l’ingegno
del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna
dall’imitazione de’ cavalieri erranti, cosí io l’Italia, anzi il mondo
incivilito, da un vizio… non meno crudele… Parlo del vizio di leggere o di
recitare ad altri i componimenti propri, (che) oggi, che il comporre è di
tutti, e che la cosa più difficile è il trovare uno che non sia autore, è
divenuto un flagello, una calamità pubblica, una nuova tribolazione della vita
umana”.
Letteratura impossibile – Ci sono romanzi “impossibili”, spiegava Nabokov nella postfazione alla prima
edizione di “Lolita”, dopo una serie di rifiuti da molti editori: “Esistono
almeno tre temi assolutamente tabù per quanto concerne la maggior parte degli
editori americani”, scriveva spiegando la vicenda editoriale di “Lolita”, il
suo primo romanzo americano (scritto in inglese), sulla pedofilia. “Gli altri
due sono: un matrimonio tra negro e bianca o negra e bianco che sia
completamente e luminosamente fortunato e dia luogo a un gran numero di figli e
di nipoti; e l’ateo completo che conduce un’esistenza serena ed utile, e muore
nel sonno all’età di centosei anni”. Scriveva
nel 1952. Oggi quei romanzi sono possibili, e anzi “hanno mercato”. Ma quel
linguaggio non è più possibile, da tempo.
Modesta – Alla protagonista
de “L’arte della gioia” Goliarda Sapienza ha dato il nome di Modesta Maselli,
pittrice, sorella di Citto Maselli, marito di Goliarda – “una figura femminile
da lei un tempo amata”, secondo Angelo Pellegrino, “Ritratto di Goliarda
Sapienza” (del “passaporto sottratto alla sorella di Maselli, che molto le
somigliava”, la scrittrice si è anche servita per provare a vendere i gioielli
sottratti a un’amica – nella farlocca vicenda messa su per “provare” il carcere,
la vita da reclusa.
Noia – Segno di distinzione - dal Settecento fino al secondo Novecento - in
ambito intellettuale? Lucia Berlin, nel racconto “Andado”, al centro della
raccolta “Sera in paradiso”, la rileva raccontando la sua vita agiata a Santiago
del Cile dopo la guerra, e si chiede il perché. “Perché è segno di raffinatezza
essere annoiati?”, si chiede del bello della compagnia, “altero, sdegnoso in tweed
inglese”: “Viaggiatori eleganti e amanti del teatro affettano lo stesso corrucciato
aspetto di noia. Perché non dire: «Il viaggio? una meraviglia! Bellissima
rappresentazione!»”.
Platone - È venuto in gran
voga, all’improvviso, quale araldo dell’amore: Matteo Nucci, “Platone. Una
storia d’amore”. Pietro Del Soldà, “Amore e libertà”, Massimo Gramellini,
“L’amore è il perché”.
Russia – “Per me
diventa sempre più chiaro che la Russia è la mia patria – tutto il resto è
paese straniero”. Rilke lo scrisse nella foia per Lou Salomé, che gliel’ha fatta
scoprire, la Russia dopo la sessualità a letto, in due lunghe immersioni, nel
1899 e nel 1900. Ma non si smentì a mente fredda – sempre legato a Leonid Pasternak,
il padre pittore, nonché a Boris, e a Marina Cvetaeva soprattutto. E per i mesi
terminali volle a segretaria e confidente una giovane russa, Genija Černosvitova.
“Sciti giganteschi e fulvi” trova Savinio a Capri, alla Marina Piccola,
nel 1926, che “usano troneggiare nell’acqua
assieme con le loro donne non meno fulve e gigantesche” – i russi mezzo emigrati
e mezzo no, come Gorki’j (che allora si era spostato a Sorrento).
Suicidio – Un’“azione
vitale” Goliarda Sapienza lo fa dire al (suo) analista (Ignazio Majore) ne “Il
filo di mezzogiorno” – il romanzo di qualcuno che “muore perché ha vissuto”: “Ci
sono suicidi veri e suicidi, come è stato il suo, che non sono altro che un’azione
vitale, un gesto per uscire fuori da una morte lenta o da una situazione difficile.
Cerchi di ricordare: lei non voleva morire, voleva solo cambiare”.
Telemaco - L’eroe dell’ “Odissea”
lo vuole Piero Boitani. Il “vero eroe”, non solo perché il poema si occupa esclusivamente
di lui nei primi quattro canti, la “Telemachia”, ma di più perché la sua è la
narrazione di come nasce un eroe, e il suo viaggio alla ricerca del padre è un
vero viaggio di ricerca e di scoperta – il viaggio di Ulisse non è quello di Dante,
oltre le colonne d’Ercole della conoscenza, ma un viaggio di ritorno, tra nostalgie
e amnesie, solo accidentato, e di un personaggio non eroico, anzi poco volitivo,
piuttosto anzi passivo. Ne ha trattato ne “Il grande racconto di Ulisse”, ne parla,
in sintesi, e con più nettezza, sul “Sole 24 Ore Domenica”.
Specialista di Letterature Comparate, e di Odisseo-Ulisse, autore anche, prima
de “Il grande racconto”, di un “Miti. Ulisse fonda l’Occidente”, Boitani vede da
ultimo nell’“Odissea” una “metafora della vita”, e nella “Telemachia” il racconto
di una ricerca, benché condita delle solite casualità, occorrenze impreviste.
La “Telemachia”, se non l’“Odissea”, come primo “romanzo di formazione”, nella
ricerca di un sentiero nella vita?
Ulisse - “Eroe di sopportazione”,
lo ricorda Savinio (“Capri”, 13), citando Omero, “i canti iniziali, del viaggio
di Telemaco”.
letterautore@antiit.eu
Una vera principessa - nostalgia
“Arbasino, Visconti, Praz e Bianca Riccio, il
circuito in cui conobbi Domietta”, ai primi del ‘72. Una “vera principessa” - secondo
il decalogo che in quei primi Settanta Dario Fo andava propagandando col “Mistero
buffo” (“un conte è un conte anche se è nudo”). Già incontrata socialmente a
Firenze, come Laudomia, che era il suo vero nome, Hercolani, che era il nome
del marito, un principe bolognese.
“Non era bela, era bellissima”. Di conversazione “sottile
e ironica”. Di “natura generosa, forse spontanea, ma non semplicce – non pacchiana.
Un ritratto non inappropriato per un giornale “comunista”.
Alvar Gonzalez-Palacios, Domietta Del Drago,
principessa irreale, “il Manifesto - Alias”, online
lunedì 20 ottobre 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (610)
Giuseppe Leuzzi
“«Non è
fatto ancora», aveva detto Becco d’Avvoltoio del popolo calabrese”, annota
lo scrittore austriaco Friedrich Werner van Oestéren nei suoi ricordi di
viaggio del 1908, “Povera Calabria”. Lo fa dire al vetturino, che chiama Becco
d’Avvoltoio, sempre alludendo al famoso “fatta l’Italia, bisogna fare gli
italiani” di D’Azeglio. Non è “fatto”, intende correttamente van Oestéren, nel
senso che non ha, non padroneggia, il “linguaggio” comune, il modo di essere,
di intendere, e di fare – l’idem sentire de republica.
Detto della
Calabria, ma vale per tutto il Sud – la “questione meridionale” c’è, eccome, e
non solo per il leghismo.
Nel
ritratto esilarante della nonna materna, “Mia nonna e il Conte”, Emanuele Trevi
fa un tributo alla madre,
che non nomina (Eleonora D’Agostino). Psicoterapeuta come il padre Mario. Non influente
come il padre, cui Trevi ha già dedicato un lungo racconto, “La casa del mago”,
né famosa:
“Una divinità tirrenica, appartenente al temibile, indomabile, antichissimo
ceppo calabrese: perspicace,
volubile, testarda, capace di leggerti un pensiero nella testa prima ancora che
tu stesso l’avessi
formulato”. La famosa “donna del Sud”, della letteratura veneto-lombarda.
“I dati sulla lettura non sono
confortanti”, fa notare Cristina Taglietti a Stefano Mauri, il pad di Gems, il
secondo gruppo editoriale italiano dopo Mondadori, sul “Corriere della sera”:
“Ci sono ampie aree di sottosviluppo”, è la risposta, “soprattutto al Sud.
Fatalmente abbassano gli indici di lettura, che al Nord sono invece in linea
con gli altri Paesi europei”. Ci sono due Italie anche nella lettura.
Al voto per
la Regione Campania una sfilza di figli si candidano al consiglio: De Luca
(indirettamente), Mastella, Casillo, Cesaro, Manfredi, Fiola, Demitry,
Mensorio. Tutti impegnati a sostegno del candidato vincente, Fico. Che si dice
di sinistra, ma di sicuro è 5 Stelle, come dire l’anti-politica,
l’anti-affarismo, l’anti-nepotismo, l’anti. Si direbbe anti-conformismo,
salutare. E invece è una forma di
dipendenza – “la” dipendenza micidiale: lo svuotamento della politica.
Savinio,
“Capri”, 23, nota sul più grande degli scogli li Galli le rovine di un castello
medievale, inteso a
impedire che “i pirati musulmani impiantassero in quel luogo una specie di
Fraxinetum marittimo”.
Frascineto – oggi borgo arberëshe in Calabria, nome derivato dai frassini che alberavano
l’antica concessione, il Casale del Duca – era l’insediamento musulmano in
Provenza, di corsari del
regno di Granada, che dominò la costa ligure e le Alpi tra l’887 e il 972.
Facendo la
storia delle Crociate come prima manifestazione del deprecato eurocentrismo si trascura che
si fecero in reazione alle devastazioni dell’Oriente cristiano, e a secoli di scorrerie arabe impunite e durature,
anche di molti decenni, in Sicilia, in Puglia (emirati di Bari e Taranto), in
Calabria (emirati di Tropea, Santa Severina, Amantea).
La donna cucuzza –
o la matriarca del Sud
La “donna del Sud”, dunque,
oltre che vestirsi di nero, è matriarca. Perlomeno lo è stata, ma non in tempi
remoti. La fa matriarca Nadia Terranova nel suo ultimo romanzo, “Corta è la
memoria del cuore”, per come se ne legge sul “Foglio”. Un racconto che partirebbe
“dai silenzi cupi della sicilianissima matriarca Teresa”. Non dell’Ottocento,
la matriarca si laureava negli anni Cinquanta – si laureava in legge, a
Messina, dove col severissimo rettore Pugliatti a Messina in Legge si
laureavano in pochi. Insomma, è la nonna di Terranova. Che Terranova dice
“colta e intelligente”, secondo ne scrive “il Foglio”, ma dall’“occhio
pesante”, cioè predisposto al peggio, premonitore, scrutatore, antevisionario
di sciagure.
Nella sintesi che Maria Pia
Farinella fa sul quotidiano: “Si farà consegnare dal marito tutto ciò che
guadagna per amministrarlo lei. E farà pesare su tutta la famiglia la sua
fatica, il fardello di crescere i figli. Un ricatto morale che è un modo molto
siciliano di esercitare il potere. Alzando il prezzo per poter esercitare
ancora più potere. Una recriminazione continua in cui l’onnivora patriarca si
fa vittima. Per non pagare mai dazio”.
“Falla come vuoi sempre è
cucuzza”, diceva il genitore, rigido sui cibi portati in tavola ma a cui la
“cucuzza” non piaceva in nessun modo.
Ma c’è di più: Farinella esuma
a supporto di Terranova un’intervista di Sciascia a Franca Leosini, per
“L’Espresso”, nel 1974, in cui così risponde al quesito perché non aveva
personaggi femminili nei suoi racconti, se non di sbieco: “La ragione profonda”,
risposta, “era l’avversione per la società matriarcale. Ho visto sempre che le
donne hanno comandato, e hanno comandato sempre annientando l’uomo”. L’uomo?
“In fondo questa virilità siciliana si riduce a ben poco. Brancati l’ha messo
in luce”. Un matriarcato malefico: “È lei, la donna, a consigliare la viltà, la
prudenza, l’opportunismo, l’interesse particolare”.
Peggio, aggiunge Farinella, già capo redattore Rai a Palermo: “Nel lungo video che ho realizzato alla Rai
Sciascia afferma….: «Mi conforta il fatto che uno scrittore straniero, un
osservatore perspicace della realtà siciliana come Dominique Fernandez, abbia
visto anche la mafia collegata a questo impero della donna»”.
Da non credere. Sempre per épater
le bourgeois, scandalizzare i benpensanti? Sciascia non ne aveva bisogno.
Ma è vero che “visse sempre”, nota Farinella, “circondato da donne…. Sei donne
nella stessa casa con Leonardo Sciascia”, moglie, figlie e zie. E che la moglie, si può aggiungere, Maria, insegnante, buona cuoca, ospitando Marcelle Padovani, che col marito scriveva una lunga intervista, cucinò un ottimo pranzo, si schermì col dorso della mano dai complimenti che la ospite si apprestava a tributarle, e non disse verbo per tutto il pasto.
Se l’uzbeko è meglio del cubano
Sui medici
cubani in Calabria paginate, da anni, quasi ogni girono. Sugli infermieri
uzbeki a Milano e
Monza niente, solo il commediografo Massini artiglia la “non notizia” – in una breve riflessione, su un
settimanale letterario,
“Robinson”. Sui medici
cubani in corsia in Calabria una campagna di denigrazione triennale contro il
presidente della
Regione Calabria Occhiuto che ce li ha messi, in mancanza d’altro – prendendosi
la gestione della
sanità regionale, dopo che per un dodicennio era servita a laute pensioni
aggiuntive a cosiddetti “commissari,
prefetti in pensione e generali. E da ultimo una inchiesta giudiziaria scandalistica
della Procura renziana della Repubblica di Cosenza.
“Lombardia,
un progetto di formazione” è invece il titolo pudico (ipocrita) con cui si
comunica l’assunzione di 100 infermieri dell’Uzbekistan. Avanguardia di altre
centinaia - ma non si può dire: per ora sono soltanto “in formazione”. Da uno
dei tanti paesi, cioè, in cui deve operare Medici senza Frontiere – per
debellare la tubercolosi, che da alcuni decenni ha un ritorno in Asia centrale,
fino al Pakistan.
Occhiuto,
del resto, non rivoluzionava. L’Emilia-Romagna, p.es., regione insospettabile e
non criticabile,
impiega personale sanitario asiatico e latinoamericano da almeno un trentennio
– dopo avere
provato incentivare il personale formato al Sud con affitti bloccati e perfino
gratuiti. Ma in Calabria
no, niente funziona, figuriamoci i cubani – al calabrese non si dà da bere. La
questione meridionale
è bene anche una questione dei meridionali.
Singolare
anche la ricezione del “messaggio” della cosa, che la cosa suscita. L’artefice
delle due chiamate
straniere, in Calabria e in Lombardia, è lo stesso, Bertolaso, la ricezione è diversa.
Scandalizzata – “aristocratica”, passatista - in Calabria, la cui sanità
peraltro quotidianamente
ci si diletta a immiserire, mentre in Lombardia, lì sì che ci sanno fare.
Questa
puzza al naso delle pezze al culo farebbe una bella farsa, se non fosse un
dramma.
Cronache della differenza: Aspromonte
“Nessuno può
permettersi una vacanza a via Aspromonte”, intima il protagonista di Antonio Pennacchi,
“Mammut”, p. 116, il sindacalista Benassa, nel mentre che aizza i compagni di lavoro a
“occupare” la centrale nucleare di Latina – a via Aspromonte “dove c’è il
carcere giudiziario”,
spiega l’autore. La montagna forse più simpatica, alberata, luminosa, aperta da
tutti i lati sul mare,
sempre legata a morte e lutto. Anche a Latina.
Lo scrittore austriaco
Friedrich Werner van Oestéren, che vi fece lunga randonnée a
dorso di mulo – mentre la
guida gli trotterellava accanto a piedi, per risparmiare sulla tariffa – “meravigliato”
lo trova “un altopiano completamente piatto, delimitato in lontananza dai margini di un bosco”
non “aspro” come si aspettava – come direbbe il nome. È solo arrivato ai Piani d’Aspromonte
in realtà, luogo privilegiato di colture, allora come oggi, malgrado
l’abbandono delle campagne,
di ortaggi e varietà pregiate di grano. Un terrazzato aperto sul mare:
“L’Aspromonte non era dunque
una catena di montagne, ma un grande altopiano!”. Ma non c’era più ignoranza
allora di oggi.
Il bosco è quello dove Garibaldi “fu ferito a una gamba”. Il ricordo di
fatta di laterizi
disposti a strati in modo grossolano”. Sarà succeduto
da altri monumenti grossolani
e come sinistri, specie quello odierno –
forse legati a sordità massoniche?
Garibaldi
van Oestéren trova affidato a “una lapide commemorativa fatta di laterizi grossolani disposti a strati in modo grossolano". Sarà succeduto da altri monumenti grossolani e come sinistri, specie quello odierno (che nessuno infatti ora più visita) - forse legati a simbologie massoniche?
Van Oestéren trova il suo
Aspromonte anche “incolto, spoglio”, ma
non si rende conto che è nella stagione
morta. È partito da
Sant’Eufemia alle quattro del mattino tra contadini e
contadine che lo
affiancavano a piedi nella lunga salita – “gente armata di
pala e
accetta”, in realtà di zappa e accetta.
Allora
e fino al dopoguerra, agli anni 1960, si saliva alla Montagna per sentieri, oggi
si va per nugoli di strade, ogni piccolo paese ne ha una sua.
Poi il viaggiatore – in foto un aristocratico austriaco primissimo Novecento, allora trentaquattrenne, molto azzimato, viaggiatore in solitario – incontra, come si incontra oggi, l’abetaia, “una vera, magnifica abetaia formata da abeti rossi, che si levavano imponenti verso il cielo! Dai rami emanava un profumo delizioso, un forte e gradevole odore di resina”. Con proprietà terapeutiche: popolate di “casetta di legno… con le pareti di abete rosso e un tetto di tegole” (costruzioni stagionali, smontabili, in uso fino a qualche decennio fa), dove “gente affetta da malattie polmonari veniva per curarsi e temprarsi all’aria di montagna”.
E poi i faggi: “Dopo una leggera salita cominciava il regno del faggio, un regno molto esteso che giungeva sino alla cima del Montalto. Secco, e luminoso. Oggetto, allora come oggi, di frequente disboscamento – c’è sempre una “industria boschiva”. “Che questo albero stupendo cresca così bene da queste parti” lo gratifica della interminabile lenta ascesa. Allora come oggi, “ogni tanto un cuculo, senza mai stancarsi faceva risuonare il suo grido” – “per il resto solo un grande silenzio”.
“L’acqua in Alvaro”, lo scrittore dell’Aspromonte, “è l’elemento primario, vitale, sacrale, liminare. Tra vita e morte, diluvio e fonte di memoria e di vita” - Vito Teti, “La lunga notte di Alvaro”, in “Corriere della Calabria”, 8 giugno 2025: “Già nel libretto giovanile su Polsi sono dominanti la dimensione del mangiare insieme, dell’acqua come purificazione, del pellegrino come errante che cerca acqua fresca, verità e senso”.
Nello stesso volumetto Alvaro riprende la leggenda dell’“Acqua della prena”, della donna incinta (“prena” in dialetto), che si riposò a metà dell’erta tra Polsi e Puntone della Croce, pregando la “Madonna affinché le facesse trovare un po’ d’acqua per dissetarsi, e la sorgente zampillò.
Van Oestéren, anche lui, non resiste al richiamo dell’acqua di sorgente dell’Aspromonte, e nella faticosa ascesa al Montalto a dorso di mulo annota: “Quando un ruscelletto” si accostò al margine del sentiero, il mulattiere-guida pedestre “si piegò e bevve con tanto gusto”“ che anche il viaggiatore illustre se ne sente attratto, e si fa riempire la tazza che porta alla cintura per le emergenze: “L’acqua ghiacciata, purissima, era rinfrescante e ristorava magnificamente. Bevvi fino all’ultima goccia”.
leuzzi@antiit.eu
Se Putin ha perso la guerra
E dunque Putin, come si legge, ha perso la guerra? Il contrario è
sostento da Trump, e quindi è sospetto. Ma la verità dei nostri media è sospetta
al contrario.
Sul “Corriere della sera”, che “il punto militare” affida a Marta
Serafini, inviata a Kiev, in alternativa con Guido Olimpio (da New York? dal Pentagono?
da Milano?), si legge: “Dall’inizio dell’invasione a gennaio di quest’anno le
perdite russe amontano a 640.000-877.000 soldati, di cui 137.000-228.000 sono
morti. E a metà ottobre il bilancio era aumentato di quasi il 60%, passando da
984.0000 a 1.438.000 perdite, di ui 190.000-480.000 morti”.
Dati significativi di fantasia?
L’avvertenza c’è: “Il dato è di Kiev” – i dati, cioè, buttati giù alla
rinfusa. Ma, di suo, il gironale è sicuro: “Per avere il Donbass (che ha già
occupato, n.d.r.) allo zar servono cinque anni”. Questo secondo “una stima dell’Economist”.
Ci piace vincere. Ma credere?
Le divinità nordiche erano mezzo latine
Il riesame di alcun “nuove” divinità femminili in
area germanica, agi albori della sua storia, dei (pochi) riferimenti ricavabili
da lapidi e iscrizioni, porta a collegarle alla presenza romana, di legioni e coloni,
tra le metà del primo secolo a.C. e la metà del successivo. Lungo il limes
romano-germanico sul medio Reno – come anche in Britannia. Aree di guarnigioni
e le circostanti “zone di interscambio” e canabae.
Canaba erano un po’ l’intendenza che segue l’esercito:
l’agglomerato civile e commerciale che si sviluppava attorno alle fortezze
legionarie permanenti (castra), di familiari dei soldato o di locali che
li ospitavano e offrivano merci o servizi – inizialmente capanne o baracche, poi
villaggi, in qualche caso città.
“La Germania Inferior cisrenana e da
considerare un territorio di insediamenti instabili (di genti prevalentemente
celtiche e germaniche), sottoposti periodicamente, dalla meta del sec. I a.n.e.
fino circa alla insurrezione batava del 69-70, a operazioni di rastrellamento e
reinsediamento da parte
dei Romani. In questo modo l’Impero si assicurava,
tra Reno, Mosa e Mosella, un’ampia area limitrofa agli accampamenti militari
ripopolata con un alto numero di veterani e dediticii: gentes, pagi
e civitates”
Sono esaminate cinque di queste “divinità”, tutte
femminili (“per rimettere in discussione un topos militare che ribaltava
i tradizionali ruoli femminili ritagliati funzionalmente nella società patriarcale
Germanica”): Baduhenna, Hariasa, Harimella, Fledimela,Vihanza,
Matres Alatarviae.
Un saggio breve - lungo quanto la bibliografia….. Enigmatico
anche i sottotitolo, “Note di teonimia germanica”. Ma denso senza essere concettoso.
Marco Battaglia, Numina proelii?, SSL,
pp. 16 , free online
domenica 19 ottobre 2025
Problemi di base - 884
spock
Libertà è
liberare?
Cioè: ama il
tuo prossimo, etc.?
La santità è
complicata?
Si può essere
ottimisti solo per essere poveri?
O se la felicità
può essere povera?
Se il povero
può essere ricco (solo) di spirito?
spock@antiit.eu
Trump mette l’Europa all’angolo
L’Europa deve pagare dazio, e deve raddoppiare
le spese militari. E non per una difesa comune, europea: per sostenere le
spese Nato, alleviandone gli Stati Uniti.
Trump all’improvviso, ottenuto dall’Eurpa
quanto chiedeva, alza un muro contro la Cina. Non politico, non militare, economico.
Dopo i sorrisi, i colloqui, le intese, le promesse di incontri, che non vengono
rimangiati. Giusto per costringere la Cina a trovare sbocchi in Europa, a qualsiasi
prezzo. Cioè a prezzi imbattibili – si veda per abbigliamento, high fashion compresa, o automobili. Oppure col ricatto:
altrimenti niente terre rare e niente batterie.
È un sospetto. nemmeno un indizio. Ma è
una vita che gli Stati Uniti hanno nel mirino l’Europa. È come se gli Usa di
Biden, da vice con affari in Ucraina e poi da presidente, avessero spinto l’Europa
a separarsi dalla Russia. Quindi inerme ora all’ovvio assalto-ricatto cinese.
Israele è fallito, facciamolo diverso
"Una disintegrazione inevitabile, caotica e violenta dello Stato ebraico" sarebbe la sintesi del libro. Ma di fatto Pappé non si spinge a tanto. Nella
prima parte lo storico – da sempre in polemica col sionismo, con lo Stato confessionale
e colonizzatore - analizza storia e ideologia del sionismo. Nella seconda la
creazione del “popolo palestinese”, per l’ottusità e la volenza del sionismo. Nella terza, “Verso la fine di Israele”, con gli
esiti fallimentari del sionismo, con l’“incapacità del processo di pace” finora
di proporre soluzioni viabili, che dice il segno tramonto di Israele, propone e
analizza “sette mini-rivoluzioni cognitive” per trasformare-recuperare “lo
Stato collassato” in “uno nuovo”. A cui aggiunge un’ottava “minirivoluzione”:
un disegno o sogno di “una nuova Palestina del dopo Israele nell’anno 2048”. Tra
non molto cioè, e quindi un passaggio infine ottimista. “Il collasso del
sionismo e la pace possibile in Palestina” è il sottotitolo.
Pappé
parte da una constatazione, che questo sito poteva fare il giorno dopo il 7
ottobre, ovvia cioè, che invece non si fa: i palestinesi hanno combattuto una guerra,
feroce ma dura. A cui va aggiunta un’altra ovvia constatazione: Israele ha
vinto, e non poteva che vincere, ma con difficoltà, senza merito, e senza guadagni, anzi con la prospettiva di doversi in qualche modo ricredere e riconfigurare. Ma lo storico israeliano
dice che dopo questa guerra Israele è destinato a una disintegrazione
inevitabile. E questo non è possibile e non è vero: Israele è ben lì, sui suoi
piedi, e ben sorretto dagli Stati Uniti.
“Da
storico, evidenzio che la fine di Israele sembra sia già cominciata”. Un po’ perché
tutta l’area ha un futuro incerto: “La Siria si è già disintegrata come Stato,
il Libano è finito di recente fra gli Stati falliti”, e in Iraq, o “in posti remoti
come lo Yemen, il Sudan, la Libia”, la deflagrazione è il motore. E così “stiamo
assistendo alla fine dello Stato d’Israele”. Una conclusione però temperata da
un “o se non altro (alla fine) del progetto sionista quale lo conosciamo”.
Si
parte per la verità con un interrogativo: “Dovremmo parlare della fine di
Israele?” Gli Stati periscono, la Jugoslavia, il Vietnam del Sud, “o finiscono come
se niente fosse”, e nel caso di Israele è esagerato, nota lo stesso storico. Altri
sviluppi possono venire da esempi che non la Jugoslavia, in forma di cambio di
regime, radicale: Sudafrica, Cile, Argentina, Iraq. Pappé propende per questa seconda
ipotesi. Ma in una forma forse utopistica - a prescindere da Netanyahu e dalle destre
che lo sostengono: uno Stato non teocratico o confessionale, non razziale (c’è
ancora pudore a usare le parole giuste, ma lo Stato di Israele si vuole
ebraico, e quindi non ha spazio per altri).
Alla
fine, il libro nasce dall’intenzione di “offrire un’interpretazione più speranzosa,
più positiva degli eventi che sono seguiti al 7 ottobre 2023”. Quello che si sta
sbriciolando” è “lo Stato d’Israele come uno Stato ebraico”. E questo si rileva non per “una posizione
politica…. : è un processo oggettivo che è già cominciato”.
Con
capitoli del tipo “La morte dell’industria della pace”.
Il tema si moltiplica, da qualche mese. Soprattutto da
parte di ebrei non sionisti - non sioisti attivi, con legami o intrecci con
Israele, o comunque schierati: Furio Colombo e Anna Foa i più eminenti in
Italia. Papp fra i tanti, come già Anna Foa un anno prima, esamina gli eventi da
storico. E quindi è necessariamente
pessimista – o ottimista, se “Israele” è un male, quello di Netanyahu come quello
di Ben Gurion. Ma si sottovaluta, quale che sia il giudizio etico che sottende
a queste trattazioni, la forza di questo - o questa? - Israele: la larga base dello Stato confessionale (senza più cristiani, p. es., a Gerusalemme, Betlemme e altrove) e il sostegno
incondizionato, finanziario e militare, degli Stati Uniti, di cui è la “base” nel
Medio Oriente e nel Mediterraneo.
Su questo Pappé ha giusto un § iniziale “La pax
americana dal 1967 a oggi”. Per dire che gli Stati Uniti hanno sempre protetto
Israele all’Onu nelle votazioni sulla Cisgiordania, sulla politica di
colonizzazione forzata. Ma c’è molto di più.
Per gli Stati Uniti – e in fondo anche per l’Europa –
vale quello che il generale Haig, il capo di gabinetto che nel 1974 convinse
Nixon alle dimissioni, poi segretario di Stato di Reagan, ebbe a dire in questa
funzione: “Israele è la più grande portaerei americana al mondo, è inaffondabile,
non porta nemmeno un soldato americano, e presidia una regione critica per la
sicurezza”. Il presidente egiziano Al Sisi deve a Israele una decina di anni fa
il blocco martellante, con droni, elicotteri e aerei, del tentativo di Hamas di
allungare Gaza al nord del Sinai – una campagna incidentale, come di un
intervento di polizia contro minacce terroristiche, che tuttavia è andata avanti
per un paio d’anni. Lo stesso con i bombardamenti dei siti nucleari di Saddam Hussein
a suo tempo, e dell’Iran ora. Per non dire della “liberazione “ di Beirut,
palazzo per palazzo, casa per casa, dai depositi di Hezbollah.
Ilan Pappé, La fine di Israele, Fazi, pp. 288
€ 18,50
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