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martedì 15 maggio 2012

La fine è suicida dello stato sociale

“Tutto indica che lo stato sociale è finito”: Monti da ultimo ne fa la constatazione (l’avrebbe fatta con i suoi interlocutori politici e sindacali), da osservatore freddo. C’era l’assistenza prima dello Stato sociale, e questo può spiegare la tranquilla accettazione da parte di Monti, buon credente, della fine dello Sato sociale. Non c’era la previdenza, e l’elemosina e le cure erano amministrate dai parroci e i conventi. Qualcosa di simile c’è già da alcuni decenni per l’assistenza agli immigrati, l’assistenza ai malati di droga, Aids, etc., e di nuovo l’elemosina ai poveri (pasti, vestiti, ricoveri). Ma ognuno vede che è un modello improponibile: sussidiario ma non su larga scala o generale.
Il movimento del resto, nei grandi paesi che se ne erano finora privati, è verso una maggiore copertura sociale, sia sanitaria che previdenziale, negli Usa, in Brasile, in India, e nella Russia postcomunista. Anche per rimediare a un’assistenza sanitaria che, lasciata al mercato, non regolata e non tariffata, è insostenibile: o il costo è eccessivo, o le cure non sono garantite (i dentisti romeni o spagnoli).
Non si può del resto abbandonare la previdenza, soprattutto se si vuole liberalizzare il mercato del lavoro. La riforma Fornero è debole in questo: adottata per decreto nell’urgenza della crisi dello spread, ne sconta la debolezza alle Camere nel voto sulla liberalizzazione (flessibilità) del mercato del lavoro. La protezione del risparmio è il solo cardine su cui impiantare un mercato del lavoro flessibile. È anche l’ultimo baluardo della “legge”, dello Stato di leggi su cui da alcuni secoli il mondo s’è organizzato. Il liberalismo, per quanto superficialmente ideologizzato, non saprebbe rinunciarvi.

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