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mercoledì 16 maggio 2012

Euroché? Un dialogo tra sordi

Nessun cenno da Hollande, nessuna iniziativa in cantiere per avviare la ripresa. Malgrado i sorrisi di circostanza, Monti non ha fiducia in una iniziativa europea per sbloccare la nuova crisi monetaria. A quattro mesi ormai dal suo avviso a inizio febbraio, “dobbiamo decidere che crescita vogliamo in un’Unione retta dal patto fiscale”, niente è stato fatto. E niente si preannuncia, né al G 8 né al vertice europeo. La mutualizzazione del debito attraverso gli eurobond, che dovrebbe essere l’asse della nuova Europa, non è bizzarra o improponibile come appare. A prima vista significa che i paesi virtuosi, i.e. la Germania, dovrebbero caricarsi il debito delle cicale. Di fatto significa che o l’euro e l’Europa esistono, oppure no. Una moneta non può avere quindici o ventisette politiche monetarie separate. Né può valere indefinitamente per ventisette paesi diversi: l’unificazione monetaria è stata divisata come la strada maestra verso l’unità europea, essendosi rivelata impercorribile quella strettamente politica, e quella militare, e solo in questa ottica ha senso. Il primo eurobond, ricordano le storie, fu quello emesso da Autostrade (allora Iri, cioè di proprietà pubblica) nel 1963, concordato da Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, coi banchieri Warburg di Londra. Un finanziamento semplice, elaborato e attuato da persone competenti, che fece felici i creditori, le banche e il debitore Autostrade, e segnò l’inizio dell’euromercato, col quale l’Europa è cresciuta. Erano obbligazioni aziendali, denominate in dollari, per un mercato mondiale. Il nuovo eurobond dovrebbe essere emesso dall’Unione Europea, o da una sua Agenzia del debito, a valere sui debiti degli Stati membri. Con modalità diverse a secondo dei tanti progetti messi in campo. Il più semplice e pratico, pratico, ed effettuale, è quello di Prodi e Quadrio Curzio, che vuole gli eurobond garantiti dalle riserve auree – l’Italia ha un terzo dell’oro europeo. Ma la qualità dei progetti incide poco sul dibattito. Che è attorno al “fare”, non al “che fare”. Cioè al non fare, la divisa della Germania.

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