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lunedì 14 maggio 2012

Il boom tedesco gonfiato dai minijob

“È solo un caso che il record dei minijob e il boom dell’economia siano andati insieme”, afferma l’agenzia pubblica tedesca per il lavoro interinale. Ma lo dice perché la cosa è contestata. Dal sindacato, da alcuni studiosi, e da alcuni centri di ricerca. La conclusione, provvisoria, è che il boom tedesco, in controtendenza sull’economia europea, sia “produttivistico”. Alimentato cioè da una rete di economia in nero legalizzata, costituita dai minijob. Con un effetto reddito negativo sul risparmio e sui consumi interni, e positivo sui costi dei servizi per la produzione.
L’allarme è partito dalla crescita dei minjob. Erano cinque milioni quando la categoria fu sancita per legge nel 2003, sono ora 7,5 milioni. Che in aggiunta ai tre milioni di disoccupati statisticamente rilevati, fanno un totale di più di un terzo rispetto alla forza lavoro occupata a tempo pieno di 28,4 milioni. La crescita di questa forma di precariato legale sarebbe, per alcuni commentatori, all’origine del boom elettorale di socialdemocratici e verdi nella Nord-Renania Westfalia ieri – ma fu proprio un governo rosso-verde, quello del cancelliere Schröder, a legalizzare l’istituzione nel 2003.
I minijob sono occupazioni temporanee, fino a un massimo di 400 euro al mese, che vanno esenti da tasse e contributi sociali, sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. Pagati all’ora, per un massimo di 9,75 euro all’Ovest, 7,03 all’Est. Ma con un larga percentuale di retribuzioni di 5 euro l’ora. Per il 63 per cento sono occupazioni femminili. Nei settori prevalentemente dei servizi: pulizie, ristorazione e alberghi, sanità, assistenza.
L’ufficio federale del lavoro interinale fa valere che tre quarti di datori di lavoro di minijob hanno un massimo di tre dipendenti. E che poco meno della metà dei minijobber sono dipendenti unici. Contesta cioè la formazione di un’economia legale in nero. Calcola inoltre che l’esenzione dei minijob dai contributi sociali non hanno gravato la previdenza, che registra una crescita constante dei contributi. Ma la scelta del 2003 viene criticata ora come “un errore”: ha incrementato il precariato invece di contribuito all’assorbimento della manodopera non occupata.

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