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venerdì 31 maggio 2019

Il mondo com'è (376)


astolfo

Brexit – La regina Vittoria, la massima esponente, si può dire, dell’inglesità, al tempo dell’impero, del massimo splendore, era tedesca, con qualche antenato scozzese.

Riccardo Cuor di Leone è creazione inglese dell’Ottocento. Prima, e di suo, era un normanno a tutti gli effetti. Di lingua francese, non praticava il sassone, che non conosceva. Scriveva – anche poesie – in provenzale.

Cosenza – È stata fatale a molti condottieri. Alessandro il Molosso, il re epirota, nel 330 a.C. dopo aver conquistato tutta la Magna Grecia. Alarico,il re dei Visigoti, nel 410, dopo il sacco di Roma. Ibrahim II, nel 902, l’emiro di Ifriqiya (Tunisia), che aveva conquistato la Sicilia e parte della Calabria, e si accingeva a risalire la penisola. Si può dire una sorta di baluardo per l’Italia contro i conquistatori.

Non lontano, a Martirano, morì il primogenito di Federico II di Svevia, Enrico, Suo primo erede, da lui ancora in vita nominato re di Sicilia e di Germania, col nome di Enrico VII. Enrico in Germania, lontano dall’influenza paterna, prese il partito dei feudatari ribelli, e poi della Lega Lombarda. Il padre lo destituì dai titoli regali con l’accusa di alto tradimento. Che avrebbe comportato l’esecuzione, ma Federico II la tramutò nella carcerazione a vita. Nel trasferimento dal castello-prigione di Nicastro a quello di Martirano in Calabria, Enrico si suicidò buttandosi da un dirupo. Era chiamato “lo sciancato”, per una zoppia rimediata cadendo da ragazzo da cavallo. Ed era butterato dalla lebbra, contratta pare per contatto, con donne portatrici sane. Una storia alternativa lo vuole morto invece di malaria, ma sempre a Martirano. Federico II lo fece seppellire con onori regali nel Duomo di Cosenza. Anche questa morte si può dire difensiva: il Sud, dopo essere stato, inutilmente, longobardo, non fu con Enrico VII tedesco – o lombardo?


Lucien Laurat – Pseudonimo di Otto Maschl, viennese, uno dei più convinti e maggiori esperantisti e insieme un militante marxista, tra i fondatori del partito Comunista austriaco nel 1921. Nonché, nello stesso anno, del partito Comunista francese, per i rapporti intensi che intratteneva col suo fondatore, Boris Souvarine.
Nello stesso 1921, e fino al 1923, fu il corrispondente a Berlino di “L’Humanité”, il giornale del Pcf. Ma nel 1923 fu imprigionato in Francia, catturato alla frontiera mentre tentava di uscire clandestinamente, per sospetta attività sovversiva. Liberato dopo quattro mesi, sempre nel 1923 raggiunse Souvarine a  Mosca. Dove divenne specialista del russo, traduttore, e professore di Economia all’Università dei Lavoratori Orientali. Alla morte di Lenin, fu tra gli oppositori di Stalin e Zinoviev, insieme con Angelo Tasca, Karl Radek e August Thalmeier. Fino al 1927, quando scampò all’arresto a Bruxelles, e poi a Parigi. Trasmetteva da Mosca notizie a Souvarine a Parigi in esperanto.
Fu uno degli animatori anche dell’associazione a-nazionale mondiale della lingua, la Sta, Sennacieca Asocio Tutmond, dal pre-congresso internazionale di Dresda nel 1919, quando aveva vent’anni, a quello di Praga nel 1921, che portò alla fondazione della Sat.
In Francia continuò instancabile l’attività politica, nella posizione che poi si dirà “trockista”, cioè critica. Dapprima nel Pcf, responsabile dell’economia alla scuola di formazione della Cgt, la Cgil francese. Ma progressivamente se ne allontana. Nel 1930 è tra i fondatori di un raggruppamento autonomo dal partito Comunista. Tre anni dopo entrava nella Sfio, il partito socialista francese, creandovi la rivista “Le combat marxiste”. Nello stesso tempo restava legato a Souvarine, uno tra i più assidui collaboratori della rivista “La Critique Sociale” da Souvarine fondata nel 1931, con Queneau, Bataille, Simone Weil. Aderendo anche al Cercle Communiste Démocratique dello stesso Souvarine, in posizione  critica verso l’incipiente stalinismo – i due riuscirono, con un larga mobilitazione intellettuale, a far liberare Victor Serge a Mosca.
Mobilitato nel 1939 come francese, e presto prigioniero, riuscì a evadere. Per finire collaboratore di pubblicazioni collaborazioniste. Escluso dalla Sfio, ci rientra alcuni anni, ma senza più suolo politico. Vivrà fino al 1973, senza più storia.

Riforma Visentini – È l’insieme di norme che regolano il fisco dal 1974. Di cui subito di poteva dire:
“I capitalisti, che Constant voleva privare, al pari dei lavoratori, dei diritti politici, si confermano razza padrona d’ogni virtù e hanno con la ritenuta alla fonte l’arma che fiaccherà per sempre gli antipatrioti. Metà dei cittadini, i salariati, paga l’imposta sul reddito prima ancora di percepire lo stesso reddito, l’altra metà può pagare quando e quanto vuole. Oppure, con un’evangelica fuga in Svizzera, può non pagare. Ciò che si sapeva si conferma: si può essere un piccolo funzionario e rientrare, per aver pagato le tasse, fra i centomila italiani ricchi. Uno che non può più fare i ponti e neanche andare al ristorante.
“La riforma fiscale è lusinghiera col personale d’ordine, che sbalza in alto nei registri del fisco. Ci si può sentire per questo patrioti, onorevoli se non onorati, e quasi ricchi. Ma questo succede perché il professor Visentini ha eliminato i ricchi.
“«Un buon tributo lascia sempre gli individui nella posizione relativa in cui li trova», è saldo precetto di scienza delle finanze. Ma l’avvocato onorevole professore Visentini ha tolto i ricchi dagli elenchi delle tasse. Non hanno busta paga e, talvolta, i milioni li incassano all’estero, quindi nulla se ne sa. Anche i meno ricchi che lavorano in proprio, che incassano in contanti. E intanto si scontano dal reddito l’automobile, la benzina, le bollette, i viaggi, il ristorante, e l’istruzione, compresi i libri che costano tanto. Il che fa sempre comodo: più si spende, meno tasse si pagano, il fisco progressivo diventa la loro rendita, si lavora col fisco - si lavora per modo di dire, lo slogan dei ricchi, se ne avessero bisogno, sarebbe: “Non lavorare, lo Stato pensa a te”.
“Ci sono questi buchi nel fisco inflessibile della riforma Visentini, che sono veri e propri tesori, in quanto non si esauriscono come le miniere ma si ricostituiscono, e anzi si moltiplicano. Il fisco come investimento, bisognava pensarci, la moltiplicazione del capitale attraverso lo Stato, Marx sarà invidioso. Le professionalità si stanno affinando, un bravo fiscalista vale già più del miglior chirurgo.
“L’arciliberale Bruno Visentini, che tutto ciò ha disegnato, apprezzato avvocato dei ricchi, uomo di principi morali, e per questo cocco di Berlinguer, è riuscito a creare uno Stato patrimoniale democratico. Le fortune, se non la ricchezza del Paese, saranno realizzate attraverso le rendite fiscali. E ci si arricchisce progressivamente, seppure in rapporto inverso: più ricchi i più ricchi.
“Questo non sarà sempre possibile. Le spese facili dei nuovi ricchi spingeranno l’inflazione a livelli insostenibili per i ceti medi, creando nuovi poveri che lo Stato non avrà più soldi per sussidiare. Di scarsa saggezza è la legge pure per i padroni: le tasse anticipate dalle imprese strangoleranno le imprese e il lavoro. Le imprese dovranno mantenere lo Stato se danno lavoro, e questo tra non molto sarà intollerabile. L’onesto lavoratore sa che guadagna quel netto, lo vorrà giustamente aumentato, e per questo s’incazzerà col padrone. Che però deve dare allo Stato, tra imposte, tasse e contributi, la stessa cifra che dà al lavoratore, e questo presto lo farà fallire. Anche perché lo Stato è vorace, e con la ritenuta alla fonte ha ora un rubinetto aperto cui attingere, ne vorrà di più.
“Il professor Visentini, che è contrario alla spesa dello Stato insaziabile, gli ha messo in mano l’arma letale. Ma nel frattempo un nuovo assetto sociale sarà maturato. Il professore ha statuito che il paese sarà terziario, commerciante anzitutto e delle libere professioni, è lì che si creano le rendite fiscali, si fanno i soldi. La classe operaia lasciando centrale nell’area del corner”.
È pur vero che Visentini, essendo laico, non può fare molto nell’Italia cattolica. Non per esempio nel caso della famiglia. La famiglia italiana paga sul reddito un’imposta che è tredici volte quella della famiglia tedesca, e sette volte quella francese. Ma la colpa non è dei laici repubblicani. È che l’Italia è il paese della Democrazia Cristiana e del Vaticano, che, via la Corte Costituzionale da loro espressa, hanno stabilito essere l’individuo e non la famiglia l’unità patrimoniale. Questo va contro l’ideologia matrimoniale, e conferma la natura diabolica della chiesa: si capisce che tutti corrano a separarsi, e che i patti paramatrimoniali ostativi si moltiplichino. Inoltre, costituisce un caso per la polemica sul capitalismo, se l’individuo è privilegiato in ambito protestante o non di più in ambito cattolico. Infine, ristabilisce condizioni di equità. Per l’economia politica, Nietzsche l’ha già spiegato, la parabola del ricco epulone e il povero Lazzaro si presenta invertita: è il ricco che merita il premio”.


astolfo@antiit.eu

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