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martedì 9 maggio 2023

L’africano di Pietro il Grande

“Esperimento in prosa” è il sottotitolo. Il primo tentativo di romanzo di Puškin. E il primo di tante incompiute –  eccetto “La figlia del capitano” - e tuttavia per molti aspetti opere finite, un po’ come i nonfiniti di Michelangelo: racconti frammentari che pure tengono.
Il progetto era di un “Otello” russo all’epoca di Pietro il Grande, della modernizzazione (europeizzazione) della Russia. Ne rimane un ritratto dello zar, di vita semplice e di volontà irriducibile, che il rinnovamento volle radicale, anche violento,  e sempre e solo monocratico. Delineato attraverso le vicende di uno dei dei suoi più stretti confidenti, Ibrahim, un africano, ex schiavo nativo del Camerun, comprato bambino a Costantinopoli  dall’ambasciatore russo, l’uomo d’affari serbo Raguzinsky, che  gliene fece dono. La zar rimase colpito dal brio e l’intelligenza del ragazzo e lo fece consacrare suo figlioccio, curandone personalmente l’istruzione. In questo abbozzo di romanzo ha fatto un’esperienza di anni a Parigi, per acquisire gli usi di mondo e l’arte militare, ha combattuto per i francesi in Spagna, ha una relazione  intima con una contessa, e ritorna a Pietroburgo, a ventisette anni, per la delusione d’amore – la sua relazione non potendo andare oltre la clandestinità. Fuori Pietroburgo è atteso alla posta dallo zar Pietro, che ha saputo del suo ritorno. A corte si ritrova privilegiato tra i privilegiati. E lo zar in persona s’incarica d’imporlo come marito e genero in una famiglia di  Bojardi.
Il “negro di Pietro il Grande” è il bisnonno africano di Puškin per la parte materna, Abram Petrovic (come fosse figlio di Pietro, n.d.r.) Gannibal – nome che si è dato in memoria di Annibale. Che fu di fatto nelle grazie di Pietro il Grande, divenendone un generale – del Genio, si direbbe oggi, specialista di fortificazioni. A Parigi fu notato da Voltaire, “la tela scura dell’illuminismo russo” – procurerà a Diderot, cinquant’anni dopo, l’invito a Pietroburgo alla corte di Caterina II. È il romanzo di questa ascendenza che Puškin, di famiglia di antica nobiltà, molto anteriore a quella degli zar, e di forte snobismo, avrebbe voluto scrivere, l’eredità di Gannibal essendosi trasferita ai suoi tratti somatici, per più aspetti negroidi.
Un romanzo, un progetto di romanzo, a specchio. Dapprima il contrasto tra Parigi e la Russia: una vita ricca a Parigi, lustra di scandali amorosi e finanziari, e la vasta fabbrica fangosa che era la Russia. Con pochi usi di mondo, ma con un netto contrasto, voluto dallo zar, tra il russo, che i bojardi parlavano, l’antica nobiltà, e il francese che lo zar novellamente imponeva a corte. L’abbigliamento tradizionale dei boiardi, il caffettano, un camicione ampio, lungo fino ai piedi, e i nuovi abiti “alla francese”, da indossare nelle cerimonie dette “assemblee”, sorta di balli, a corte e fuori, che Pietro il Grande volle per immettere anche le donne nella società. Di due giovani mandati a Parigi, Korsakov al rientro è vanitoso e vantone, sa di essere diprezzato dai bojardi e li dispezza. Gannibal invece no, li rispetta, e quindi viene accettato e rispettato. Ed è il ruolo che Puškin voleva, di un’innovazione che non cancellasse la tradizione. E fa risolvere allo zar con l’oganizzazione del matrimonio del suo figlioccio africano in una grande famiglia tradizionale. Adolescente a disagio in collegio, dove veniva anche deriso per i tratti somatici, se ne fa una ragione: il bisnonno è anche se stesso.
Tra i tanti romanzi non finiti, di questo Puškin non era insoddisfatto. Ne pubblicò i due capitoli centrali. Una delle ipotesi sul nonfinito è che Puškin vi temeva se stesso, il suo possibile degrado a Otello, nella storia tumultuosa del matrimonio con la giovane, bella, e incostante moglie. Ma siamo nel 1828, è ancora presto per la gelosia che lo avrebbe portato alla morte, in duello, dieci anni dopo – il matrimonio con Natal’ja Gončarova sarà nel 1831. Quel che è certo è che Puškin visse sempre a pieno la sua condizione di mulatto (“octoron” in inglese, ottavino). Per la carnagione olivastra e i capelli crespi – al liceo era, in alternativa, “il francese” per i modi ricercati, e “la scimmia”. E per la gelosia – che legava all’Otello di Shakespeare, quasi fosse una condizione antropologica.
Si scherzava va molto a S an Pietroburgo sule origini africane di Puškin. Il romanzo potrebbe essere stato interrotto alla pubblicazione nell’agosto del 1830, sul periodico “L’ape del Nord”, di una lettera semiseria di Faddey Bulgarin, che diceva l’avo di Puškin comprato a Istanbul per una bottiglia di rum. Puškin reagì nervosamente. Ma era pur sempre il “nome allegro” che Blok sentirà ancora risuonare, uno che portava “con allegria e gentilezza il suo fardello” – al pettegolezzo di Bulgarin rispose con orgoglio nei versi “La mia genealogia”.
Alexander Puškin, Il negro di Pietro il Grande, ebook

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