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mercoledì 7 settembre 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (300)

Giuseppe Leuzzi

Nord e Sud sono divisi nettamente e per sempre dalla Riforma. Peter Davidson, lo studioso scozzese che ha repertoriato tutte le “idee del Nord” (“The Idea of North”), lo dà per scontato, p. 43.: “La mappa delle relazioni fra Nord e Sud fu catastroficamente ridisegnata con la Riforma”, e dall’una e dall’altra parte “leggende nuovamente fiorirono su posti raramente visitati”.
Ma è un pregiudizio del Nord.

Muti pellegrino
Ogni anno, in settembre, prima di iniziare la nuova stagione di concerti e opere a Chicago e in giro per il mondo, sento il bisogno irrefrenabile di assorbire nuove energie dalle antiche radici delle due regioni da cui provengo: la Campania e la Puglia”, scrive il maestro Riccardo Muti sul “Corriere della sera”, iniziando a raccontare di come si sia trovato, turista fra i tanti una domenica a entrata gratuita, a suonare il pianoforte al museo di Capodimonte: “Molfetta, le grandi Cattedrali romaniche, Castel del Monte, misterioso maniero di Federico II, Napoli, mia città natale, e molti altri luoghi del grande Sud, a turno, ridanno vigore e entusiasmo alla mia attività di «musicista pellegrino”.
È “pellegrina” al Sud anche la musica.
Non c’è questa mancanza delle radici altrove: il Sud, sradicato, ne ha forte la nostalgia.

Il notabile Camilleri
Camilleri è nei lunghissimi selfie che si auto dedica, o in una con Saverio Lodato, una reviviscenza del – e un monumento al - notabilato, che il Sud ama, ma purtroppo non lo salva, e forse lo perde.
Camilleri è un notabile fluente narratore dell’era dei notabili. Meglio se di notabili. Non c’è altro nei suoi ricordi, sparsi per tante sue opere, e addensati in “La linea della palma”. Di quando ancora c’era nei paesi il circolo, di professionisti borghesi dabbene, avvocati, dottori, baroni, occasionalmente geometri ma impresari, nullafacenti, con l’unghia del mignolo lunga - segno del non lavoratore. Residuo e scimmiottamento del circolo dei nobili, con la sola occupazione di giocare a carte, nelle pause degli interminabili racconti e sceneggiati, in chiave sempre “boccaccesca” (buffonesca). I personaggi sono maschere, inalterabili, di loquela macchiettistica, come a un teatrino dopolavoristico, alla buona, tra parenti e sodali riconoscenti..
Le narrazioni del circolo, nella “Targa” e altrove, gli vengono gradevolissime. E gli apprezzamenti, mentre si professa in continuazione comunista, di emeriti fascisti, nonché di molteplici democristiani, intelligenti, colti, timorati di Dio, e se uomini di potere allora a fin di bene. Così era nel vecchio notabilato: galantuomo non mangia galantuomo. E più nel “fascistone”: il notabile nella sua ultima espressione, che non necessariamente doveva essere stato mussoliniano, ma sapeva risolvere tutto “tra amici” (questo è il carattere di cui Sciascia, e anche Camilleri, danno credito alla “vecchia mafia”, con più di una verosimiglianza: il mafioso tende a imitare il notabile, l’uomo di fiducia che non si pone domande). .
Nello stessa impalcatura socio-psicologica Camilleri proietta la sua biografia politica. Da sempre si vuole da sempre comunista, fin da ragazzo e sotto il fascismo - come gli ha rivelato il Vescovo, di cui era assiduo in quanto chierichetto. S’inventa anche una giornata con Vittorini muto, che era andato a trovare all’improvviso a Milano, nel 1948 o all’incirca, il giorno in cui fu scomunicato da Togliatti e dal Pci, che se lo prede sottobraccio e cammina con lui all’impazzata per Milano, come ripassasse quella che sarà “Conversazione in Sicilia”. Ma le prime poesie gliele pubblica Alba De Cespedes su “Mercurio”, e i primi racconti Aldo Garosci su “L’Italia socialista”.
Grande è nella sua memorialistica il numero dei fascistelli. Necessariamente, trattandosi di compagni d’infanzia e di scuola. Ma la sua vasta memorialistica dei democristiani eccellenti comprende anche Scelba e Andreotti. Mentre non ricorre un solo comunista. Benché stia sempre all’erta, all’ultimo messaggio politicamente corretto, cioè del Partito. Anche dopo che il Partito è morto, fino alla demolizione di Ciampi, il miglior presidente della Seconda Repubblica (uno scivolone?). Compromissorio.  La sezione comunista viene aperta a Porto Empedocle sotto l’amministrazione alleata per i buoni uffici del vescovo. Anche sul piano dei rapporti con la cultura dell’isola, da cui a lungo Camilleri si è estraniato: il rapporto non facile con Sciascia diventa una galleria di aneddoti mortali all’Immortale – il conformismo, questo di Camilleri non piaceva a Sciascia.
Notabile è anche il gusto dell’aneddoto. Tutto sempre speciale, per la verve narrativa. Per il taglio dell’aneddoto,  bonario e comunque, in qualche modo, condivisibile  Per i personaggi e le storie, tutto sempre speciale, anche se irrilevante: comico, tragico, commovente, repulsivo.

La mafia insorgenza democratica
Si legge e si vede nei “Beati Paoli”, il romanzone della malavita siciliana del Sette-Ottocento, di un secolo fa: le mafie sono un “prodotto” popolare. A mano a mano che la società si “sfarina” le mafie si allargano, in quell’indistinto popolare o “democratico” molto amato dai Carabinieri e dalla cultura un tempo comunista, che è il loro brodo di coltura.
Oggi separare il crimine è molto difficile - impossibile praticamente. La separazione tra “noi e loro”che fino a non molti decenni fa isolava le mafie e le teneva in soggezione, sull’esempio del Montalbano dei film, non è più attiva, dopo decenni d’incuria da parte dell’apparato repressivo, e quindi di una legittimazione – del bisogno, della povertà, della giustizia sociale. Le mafie sono mezzo imborghesite, si intrufolano, si mettono di traverso, by-passano, attraverso la pubblicistica e lo stesso apparato repressivo, soprattutto occhiuto col malaffare o il disordine “civile”. Mentre una volta tramavano a distanza, e sempre nel timore. Le borghesie hanno perso forza e difesa, avendo perduto l’autostima. I mafiosi erano isolati e tenuti a distanza, sono ora ovunque, nelle squadre di calcio, nella banda, nelle feste, al bar e in pizzeria, e fin nelle processioni. ,

Non è un fatto “di sangue”, di dna. Non è un fatto di bisogno. Non è un progetto politico. Che cos’è la mafia?
È un “fatto” politico, un esito: una deriva della democrazia. Si arriva alla mafia nella discesa della partecipazione popolare al potere, quando alcuni prendono la scorciatoia della violenza. Perché non c’è altrove? Perché altrove “gli altri”, borghesi, nobili, “feudatari”, imprenditori (industriali, commercianti), grandi e piccoli, professionisti, artigiani, lavoratori, non abdicano. Il cosiddetto ceto medio, comunque intermedio, in qualche modo si difende. Obbliga lo Stato a difenderlo. Non sceglie le professioni, lo Stato (Scuola, Interno e Giustizia), l’emigrazione,
La deriva democratica è il caso di Napoli, vistosamente preda del malaffare dopo essere stata “nobilissima”, e più della Sicilia. Più delicato, ma più recente e percorribile, per il cedimento della nascente borghesia, è il caso della Calabria. Un approccio repubblicano meditato e produttivo fu spazzato via cinquant’anni fa da quella che poi sarebbe stata la ‘ndrangheta. In assenza di una qualsiasi salvaguardia dell’apparato repressivo, i figli mollarono tranquillamente il “territorio”, per le professioni, lo Stato (Scuola, Interno, Giustizia) e l’emigrazione. Lasciarono ai nuovi ceti, che di deriva e in deriva approdano alla mafia – si è arrivati ora alla “formazione” o adescamento adolescenziale: si cresce violenti. In parallelo è andato il degrado dei servizi, cemento della comunità: delle professioni (medico, avvocato, tecnico), e dei mestieri (falegname, imbianchino, muratore, idraulico, carpentiere, potatore…). Della qualità e responsabilità. E, peggio, dell’impegno – la cosiddetta testardaggine.
In Sicilia la nobiltà - il cosiddetto feudalesimo – è stata soppiantata dalla classe verghiana della  “roba”, ma nel senso deteriore. Corleone, importante centro vitivinicolo e pecuario, con un assetto sociale diversificato e stabile, dopo gli “infeudamenti” del Seicento del vice-regno di Napoli coi soliti banchieri genovesi, che colpì anche la città (i corleonesi a un certo punto “si riacquistarono”), è stata lasciata nel dopoguerra ai mafiosi (Liggio, Navarra, Riina…), dall’assassinio impunito di Placido Rizzotto in poi, 1948 - già prima del 18 aprile. Castelvetrano, da un paio di decenni feudo di Matteo Messina  Denaro e del suo compare Tonino Vaccarino, ha inventato e produce l’uva Italia, e ospita una “cappella Sistina” - la chiesa di san Domenico ricca di affreschi e di statue, in straordinaria scenografia.
Virgilio Titone, saggista di Castelvetrano, autore di almeno due opere pregevoli in tema, “Considerazioni sulla mafia”, 1957, e “Storia, mafia e costume in Sicilia”, 1964, si arrovella sull’interrogativo. Ma, irato, giunge alla conclusione che la mafia è il sangue marcio. Un’assurdità. Da tutti i punti di vista, anche del polemista.

leuzzi@antiit.eu 

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