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domenica 22 gennaio 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (314)

Giuseppe Leuzzi

Marcello Moretti, “il grandissimo Arlecchino strehleriano”, ricorda Camilleri in “Segnali di fumo”, accettò di recitare in uno spettacolo messo su dallo stesso Camilleri, un “monodramma”, un monologo. Benché diffidato da Grassi e Strehler, direttore e direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano, al quale l’attore era legato. “Fu un trionfo”, dice Camilleri. Quando Moretti morì, il Piccolo gli dedicò un volume, con tutte le sue rappresentazioni, “tutte, meno quella”. Milano non perdona.

È Napoli che imita Saviano, ora con la paranza dei bambini - dopo Scampia, e dopo Castelvolturno?
O sono i Carabinieri che, leggendo Saviano, scoprono il crimine?
Che i Carabinieri leggano, anche solo Saviano, è però una buona cosa.


“Muti alla Scala: torno a casa”, “La Scala, Muti e il modello Milano”, “La Scala riabbraccia Riccardo Muti”. Tripudi e clarine sul ritorno a Milano del maestro dopo dodici anni di confino. Ma non si dice che Muti fu cacciato dall’orchestra milanese, dal sindacalismo delle “pause”, caffè, pipì, etc. - patrocinato al solito dalla Cgil. L’accumulazione si fa con l’ipocrisia? Bisogna credere fortemente in se stessi, anzi proporsi (ahi, Torno!) come modelli.

Il Gran Ritorno Muti ha fatto con la “sua” orchestra, la Chicago Symphony. Organizzato dal “Corriere della sera” per lanciare “Muti alla Scala”, collana di venti opere in dvd. Preparato da giugno, con una mostra dall’analogo titolo. 

Italia terra dei tori
Erano italici per i Greci, era Italia, la parte tra Calabria e Salento sullo Jonio. E non si sa perché. Wikipedia propone una soluzione allettante, se non vera, legata al toro, la cui onomastica, se non più i simbolismi, s’incontra molto in Calabria:
“Tra le proposte che motivano il nome al di là di una vera e propria analisi linguistica può essere ricordata quella di Domenico Romanelli (“Antica topografia istorica del Regno di Napoli”, Napoli 1815), il quale, basandosi sull’antica ma mai pienamente accettata ipotesi che esso stesse in relazione con i tori, lo spiegava con il fatto che coloro che provenivano dal mare da ovest vedessero sagome taurine nelle penisole Brezia e Japigia .

“Nei tempi antichi le terre dell'attuale Calabria erano conosciute come Italia. I Greci indicarono l'origine del nome in Ouitoulía, dal vocabolo “Italòi” (plurale di Italós), termine con il quale i coloni achei che giunsero nelle terre dell’attuale Calabria ambiguamente designavano sia i Vituli, una popolazione che abitava le terre a sud dell’istmo di Catanzaro, il cui etnonimo era etimologicamente relato al vocabolo indicante il toro, animale sacro ai Vituli e da loro divinizzato, che i tori stessi: il greco italós infatti è di derivazione italica, specificamente deriva dalla osco-umbra uitlu, toro appunto (vedasi il latino uitellus, forma con suffisso diminutivo che significa vitello). Ouitoulía venne così a significare “terra dei Vituli” o “terra dei tori”. A supporto di questa ipotesi, si ricorda che nella parte meridionale della penisola calabrese esistono toponimi di origine magnogreca (alcuni tradotti in latino dai Normanni) probabilmente facenti capo alla più antica etimologia di terra dei tori (dei bovini): Bova, Bovalino, Taurianova, Gioia Tauro, ecc.”.

Si dà come un salmo “Conosce il toro colui che lo possiede”. Ma tra i “Salmi” non c’è – né in altro luogo della Bibbia. Si trova il toro anche dove non c’è? E perché non tra i Micenei, che furono in “Italia” prima dei Greci?

Sicilia
La “Sicilia del dopo Pirandello” è “la spina dorsale”del Novecento letterario: Borgese, Vittorini, Brancati, Pizzuto, Lampedusa, Sciascia, D’Arrigo, Bonaviri, Bufalino e Consolo (nonché Mazzaglia, Savarese, Addamo, Perriera, o i poeti Quasimodo, Cattafi, Piccolo, Buttitta,Vann’Antò, nonché Rosso di San Secondo)”-  W. Pedullà. “Il mondo visto da sotto”, 94. E ce ne sono altri.

Si tiene a Messina, al museo regionale della città, una mostra “Mediterraneo luoghi e miti”, ricca di reperti. Li colleziona il Mart di Rovereto, che ha organizzato la mostra. 

Il museo regionale di Messina, in una villetta di periferia, una ex filanda, espone alcuni Antonello e Caravaggio, residuati della collezione Ruffo della Scaletta. Che nessuno conosce, i Ruffo, della Scaletta e non, gli Antonello e i Caravaggio.

I Ruffo furono grandi collezionisti: lasciarono a Scilla oltre 1.500 tele. Con opere di Raffaello, Tiziano, Veronese, Tintoretto, Rubens, Guido Reni, Mattia Preti, Luca Giordano, Orazio Gentileschi. La collezione fu avviata dal principe Tiberio. Che alla morte lasciò al figlio Guglielmo 650 tele. Alla morte di Guglielmo, nel 1748, la collezione era salita a 1.500 tele.
Aveva cominciato don Antonio Ruffo di Bagnara principe di Scaletta – dal nome di un feudo messinese della moglie. Committente tra i tanti di Rembrandt e Artemisia Gentileschi, che protesse alla triste fine. Collezionista di Rubens, Breugel, Mattia Preti, Poussin, Borgonone, Salvator Rosa.

Guy Verhofstadt, il capo dei liberali europei, i più europeisti di tutti, gli eletti di Grillo li voleva, eccome, nel suo gruppo parlamentare. Pur conoscendoli bene, da italianista praticante, per antieuropeisti. Per avere più poltrone di comando nel Parlamento europeo, e più soldi. Non sarà Verhofstadt un alias siciliano?

Il presidente Crocetta, ultimo nella graduatoria di merito e popolarità del “Sole 24 Ore” fra tutti i presidenti di Regioni, non si arrende. Non sa che fare, ma un indiano, Mahesh Panchavaktra, gli  propone un aeroporto nuovo e lui ci si butta. Panchavaktra si occupa di molte cose, tra l’altro di infrastrutture: le studia, le consiglia, le progetta anche, a un costo. Per l’aeroporto nuovo ci vogliono 300 milioni. Ma Crocetta non si fa il conto, pensa che l’indiano provvederà – non è un magnate? La Sicilia, cosmopolita, poliglotta e tutto, è sempre un’isola.

Camilleri ha (“Segnali di fumo”) un “imprenditore quarantacinquenne” che appena poteva si catapultava su un’isola attorniata da “squali ferocissimi”, si tuffava con bombole e macchina da presa, e “in breve tempo riusciva a familiarizzare”: gli squali  “ben resto diventavano mansueti compagni di gioco”. Un domatore di squali siciliano a tempo perso, un eccentrico, un barone di Münchhausen? Camilleri assicura la storia vera. Ma è verosimile. Che sia vera oppure inventata.

“Un siciliano non scriverebbe mai una lettera alla madre. Questa è sempre presente, anche se fisicamente è lontana” – Walter Pedullà, che ha studiato a Messina, ed è stato amico di eccellenti siciliani, D’Arrigo, Bonaviri, Vittorini, opina per la società matriarcale? Ci sarebbero problemi per la mafia, tutta maschile. O non è una traccia feconda?

È assolutista. Quando si chiese “che fare?”, Sciascia si rispose che la Sicilia è irredimibile. In effetti, da quando Sciascia è morto, non sono trent’anni, paesi piagati peggio della Sicilia si sono redenti, il Sud Africa per dire. La Corea del Sud negli stessi anni si è fatta uno dei paesi più efficienti e ricchi al mondo. Per non dire della Cina. E dunque ha ragione Sciascia?

La strada che divide
C’è in Calabria, nella parte più dotata e depressa, la strada con più curve d’Italia e forse del mondo, la ex SS 112 Bo-Ba, o Ba-Bo - i due terminali sono Bagnara sul Tirreno e Bovalino sullo Jonio: un migliaio di curve tornanti per 61 km. Spesso non percorribili per intero da circa settant’anni, per frane o smottamenti, ma questo non vuol dire. Ora declassata a SP 2, ma pur sempre la seconda arteria della provincia di Reggio Calabria.
È una strada che divide e non unisce, anche questo è un record. Non tanto agevola il contatto fra il Tirreno e lo Jonio, per il quale era stata disegnata nel 1928, quanto lo scoraggia. In tutti i sensi: molto meglio fare le strade delle comunità di montagna e interpoderali dello Zillastro, si arriva prima e si gode la natura - i boschi, le luci i silenzi – oppure quella tradizionale del piano della Lìmina, tra Cinquefrondi e Mammola, altro paesaggio straordinario, alpestre. Fino alla superstrada Rosarno-Gioiosa negli anni 1980, Jonio e Tirreno sono stati nella provincia di Reggio Calabria profondamente estranei.
La Bovalino-Bagnara serve una dozzina di paesi dell’Aspromonte ma non gli facilita niente. Soprattutto non ai centri più interni, Delianuova, Scido, Santa Cristina, sul versante tirrenico. I cui abitanti trovano difficile collegarsi con Bagnara, e quindi col capoluogo, dove pure devono recarsi di frequente. E per accedere allo Jonio devono correre giù nell’altro senso, verso il Tirreno, a uno degli accessi alla strada veloce Rosarno-Gioiosa, che s’incunea con una breve galleria tra l’Aspromonte e le Serre. Si può fare, partendo da casa, in un’ora. La Bagnara-Bovalino, benché a metà percorso, ne richiede due, nel migliore dei casi . Molto dipende dai mezzi pesanti cui capita prima o poi di doversi accodare senza possibilità di sorpasso, e dalle frane con deviazione. Specie dopo un terremoto, anche minimo, o un temporale, per fragilità costituzionale intervenuta e mai sanata con l’alluvione del 1951.
Dal 1998 il rifacimento della SP 2 figura in primo piano alla Provincia di Reggio Calabria. C’è un progetto esecutivo del tracciato, con gallerie e ponti. Ci sono state varie prime pietre dei lavori. Ci sono anche i nomi dei manufatti, il ponte strallato Lizzati, il viadotto Giovanni Paolo II. Ma non ci sono i manufatti. Né i lavori per avviarli.
Perché la nuova strada non si fa? Perché la vecchia basta e avanza, anzi è un paradiso per gli appaltatori: è un cantiere permanente. Rifarla con criteri aggiornati costerebbe probabilmente molto meno, ammortizzando la spesa in, poniamo, trent’anni. Ma, poi, gli appalti? Non è a questo che servono le strade?
Si dice: è la Calabria. Ma a Cosenza il riattraversamento comodo, ed ecologico, della Sila l’hanno progettato e realizzato trent’anni fa. C’è Sud e Sud.

leuzzi@antiit.eu

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