Cerca nel blog

sabato 11 ottobre 2025

Cronache dell’altro mondo – di pace e bene (362)

L’approvazione del primo passo del piano di pace di Trump da parte di Israele è ventuta per un imprevisto empito di commozione. Lo raccontano Isaac Stanley-Becker e Vivian Salama sul sito dell’antitrumpiano “The Atlantic”:
“Prima che il governo israeliano approvasse la prima fase dell’accordo di pace con Hamas orchestrato dagli emissari del presidente Trump, il ministro intransigente Itamar Ben-Gvir aveva espresso la sua frustrazione. Solo il giorno prima aveva guidato un gruppo di ebrei in preghiera sul Monte del Tempio, il luogo focale di Gerusalemme che ospita anche la Moschea di Al Aqsa, e aveva invocato la «vittoria totale» a Gaza….
“Alla riunione, su invito di Netanyahu, erano presenti sia Jared Kushner, genero del presidente, sia Steve Witkoff, amico e inviato speciale di Trump. Erano arrivati ​​in Israele dall’estremità meridionale del Sinai, in Egitto, dove mercoledì avevano elaborato un documento di una sola pagina che sintetizzava i termini di un cessate il fuoco e di uno scambio di prigionieri, che potesse soddisfare sia Israele che Hamas.
“Ben-Gvir si rivolse ai due americani e disse loro che non avrebbe mai accettato un accordo… che libera detenuti palestinesi per atti di violenza contro cittadini israeliani inermi, e potrebbe in seguito portare all’amnistia per un gruppo terroristico responsabile dell’attacco più mortale nella storia del Paese. Witkoff, un investitore immobiliare newyorkese scelto da Trump per risolvere alcuni dei conflitti più complessi al mondo, rispose raccontando loro di aver perdonato la famiglia dello spacciatore responsabile della vendita dell’OxyContin che ha tolto la vita a suo figlio. L’inviato sembrava sull'orlo delle lacrime, ci hanno riferito due persone a conoscenza della conversazione. Ben-Gvir rimase impassibile, affermando che la differenza era che Hamas non si era pentita.
Alla fine, il governo israeliano ha approvato le prime fasi del piano di Trump: il ritiro delle Forze di Difesa Israeliane e la restituzione di tutti gli ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi. 

Toni Morrison, che impose gli scrittori afro

Toni Morrison scriveva denso e impegnativo, ma agli autori che curava come redattrice di Random House consigliava linguaggi semplici, leggibili da un vasto pubblico: privilegiava gli aspetti commerciali, specialmente nei debutti. Senza nulla togliere ai debuttanti “autori”, che invece proteggeva in casa editrice con le direzioni commerciali – una lunga lista di autori afroamericani affermati curati inizialmente e imposti da lei viene fatta. Ma sì ai personaggi di cui curava, con insistenza, volte con insofferenza, le autobiografie: Angela Davis, Muhammad Alì, Huey P. Newton. Invece proteggeva i suoi scrittori, se neri e giovani, dalle strategie pubblicitarie e commerciali della casa editrice.
Un lungo saggio, in forma di recensione di “Toni at Random: The Iconic Writer’s Legendary Editorship”, la storia editoriale di T. Morrison, di Dana A. Williams. Morrison lavorò alla Random House nei suoi quarant’anni, per una dozzina d’anni, dal 1972 al 1983 (dieci anni prima del Nobel). Unica redattrice afroamericana.
“Oggi conosciamo Morrison per la sua scrittura iconoclasta, che le valse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1993 e consolidò saldamente il suo posto nel canone letterario americano. Tuttavia, Toni at Random sottolinea il fatto che la scrittura di Morrison fu molto più di un risultato individuale. Nel pieno del Black Arts Movement, Morrison fu una dei tanti scrittori che ampliarono le possibilità di ciò che la letteratura nera poteva essere e fare. Il suo più grande riconoscimento negli anni Settanta e Ottanta fu la sua capacità di aprire le porte dell'accesso istituzionale alla comunità di scrittori a cui apparteneva. La capacità di Morrison di pubblicare scritti neri innovativi dipendeva dalla sua capacità di proporre i libri al caporedattore della Random House, James Silberman, e poi di commercializzarli sia al pubblico nero che a quello bianco”.
Un caso viene raccontato esemplare del modo di fare di Morrison in casa editrice, e del suo successo.
“Forse la più riluttante a impegnarsi in pubblicità per vendere i suoi libri fu Gayl Jones, che aveva solo 25 anni quando il suo primo romanzo, Corregidora (1975), fu pubblicato con grande successo di critica….. Nonostante (o forse proprio a causa) dell’estrema timidezza di Jones, Morrison si impegnò ancora più duramente del solito per ottenere blurbs da affermati scrittori neri – tra cui James Baldwin e Alice Walker – e si unì a Jones per interviste a sostegno di lei”. Il rapporto si dovette interrompere per le intromissioni dell’agente di Jones, “poi diventato suo marito, Robert Higgins, che Morrison considerava instabile e autoritario. Senza gli sforzi pubblicitari di Morrison, l’attenzione della critica si spense e Jones cessò di pubblicare per due decenni dopo il suicidio del marito nel 1998. La pubblicazione del romanzo Palmares (2021), iniziato sotto la direzione di Morrison alla fine degli anni ‘70, inaugurò una recente rinascita nella sua carriera e un ritorno ai riconoscimenti ottenuti con il suo primo romanzo”.
Marina Magloire, 
“To Free Someone Else”: Toni Morrison the Book Editor, “The Nation” 7 ottobre (leggibile anche in italiano)

Inizio modulo

venerdì 10 ottobre 2025

Problemi di base accuditivi - 884

spock


Prendersi cura per migliorare la vita?
 
O per sostituirsi, nervosamente?
 
Prendersi cura per alleviare o per aggravare?
 
Con affetto o con dispetto?
 
Per stare in pace con se stessi?

Anche a costo di negarsi?

spock@antiit.eu


Nobel alla paura

“Ritiratevi in ​​un luogo sicuro e salvaguardate tutto ciò che è importante per voi, portatelo sottoterra, tutto ciò che avete, togliete i gioielli, il cibo, le fotografie dei bambini, la poltrona dove vi piace sedervi con un libro in mano, la tenda dietro la quale vi sentite al sicuro, dalla finestra; raccogliete tutto ciò che vi era caro, raccogliete le carte d'identità e i certificati di battesimo, prendete i soldi dalla banca e nascondeteli in cantina dietro il muro, ma in realtà ogni gioiello, ogni pezzo di cibo, ogni fotografia del bambino, ogni poltrona e ogni amato libro, ogni tenda e ogni documento, e in realtà tutti i soldi fino all'ultimo centesimo, e nascondete davvero tutte queste cose bene, ma davvero bene, sottoterra, così che almeno potrete credere fino ad allora che ci fosse un senso in tutto questo, finché non saremo arrivati, cercate protezione almeno fino ad allora, mentre siete ancora in grado di credere che non siamo ancora arrivati…”. L’umanità è messa in guardia – non solo qui, anche in altri racconti. Dal Nobel ungherese con molta concitazione, periodi lunghi una pagina, e atmosfere apocalittiche.
È come spiega Com Toibìn a commento: “La prosa del romanziere ungherese László Krasznahorkai è carica di minaccia, ma sarebbe un errore interpretarla come politica o come qualcosa che non arriva da nessuna parte. …. La sua immaginazione si nutre di paura e violenza autentiche; ha però un modo di rendere paura e violenza ancora più reali e presenti, estrapolandole da un contesto familiare”.
Una prosa dall’effetto curioso, sempre ansiogena. Si direbbe che Krasznahorkai, ungherese, ricostituisca con Thomas Bernhard, austriaco, una sorta di Cacania della concitazione – della narrazione senza pause e senza respiro (punto). Ma con una curiosa differenza. In Bernhard la concitazione, estesa su più pagine, se non per l’intero racconto, assume anche tonalità ironiche, sarcastiche, comiche, perfino idilliache, si procede nella lettura come se fosse punteggiata, “sagomata”. Su una pagina invece, come usa Krasznahorkai, assume un tono, oltre che concitato, minaccioso, costantemente. 

Un Nobel di genere, horror? Molto caduta degli dei, del mito, delle illusioni, del vecchio impero, dove spiriti e genti convivevano nella differenza. Quasi un ultimo vagito, minaccioso, della fantastica Mitteleuropa. Nella Europa odierna, senza bussola.
László Krasznahorkai, Animalinside, “The New York Review of Books” (leggibile anche in italiano)

giovedì 9 ottobre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (609)

Giuseppe Leuzzi


Ascolti in calo per “Lezioni di mafia” del giudice Gratteri su “La 7” dopo la prima curiosità: da1,1 milioni di audience al debutto a 950 mila e a 720 mila in quindici giorni. Forse le mafie non tirano 
più tanto, malgrado il brio che ci mette il giudice. Sarebbe il primo calo d’interesse da “La piovra” quarant’anni fa – la serie di cui la Polizia ha voluto insignire l’interprete, Michele Placido, qualche giorno fa del titolo di “poliziotto ad honorem”, per la fama che le avrebbe conquistato.

 
Emanuele Trevi, che ha passato le estati fino ai vent’anni dalla nonna materna in Calabria, e la celebra in “Mia nonna e il Conte”, dà un senso pieno al (poco) dialetto che usa: cibbia (gebbia), vagabundu e scostumatu. Sbaglia la trascrizione, e quindi le fonetica (cibbia è ggibbia), ma ha pieno il senso delle parole. Il senso cioè locale, dialettale. Non quello del vocabolario, della traduzione. Il dialetto ha sue valenze (significati, sfumature) che l’equivalente in lingua non ha. Il linguaggio è radicato.
 
La città italiana con più centri commerciali non è Milano: è Catania - secondo una ricerca di “Men’s Health”. Sempre al Sud, in Campania, le strutture più grandi: il Centro Commerciale “Campania”, a Marcianise, provincia di Caserta, e il “Vulcano Buono” a Nola, provincia di Napoli. Modernizzazione? Omonegeizzazione sicuramente, malgrado i leghismi.
 
La campagna regionale perdente di Pasquale Tridico, 5 Stelle, è stata puntata sul sottogoverno: soldi per tutti, senza faticare. Una campagna “laurina”, da Napoli anni 1950, affamata, negli anni 2020. Un errore così marchiano da non potersi attribuire a nessuno stratega elettorale. Ma è la forma mentis dell’emigrato. Dell’emigrato mentale come Tridico, che della Calabria si è ricordato solo perché spinto dai 5 Stelle. Che fa propria, sulle proprie origini, la narrativa dominante.
Si spiega che Tridico non sia stato votato neanche dai suoi, secondo l’Istituto Cattaneo, che analizza i flussi elettorali: “Da sinistra a destra”, al concorrente di Tridico, si è spostato un 5 per cento del voto, “dall’area «liberaldemocratica» e da elettori che nel 2024 avevano votato per il M5S”.
 
Sudismi\sadismi
La partecipazione al voto alle regionali in Calabria è stata bassa oppure alta? Votano sempre in pochi, dicono i commenti più benevoli, la politica è estranea al Sud. E si svolge su pattern ridicoli – naturalmente non poteva mancare il commento irridente su questo aspetto del mangiaterroni Gian Antonio Stella, firma privilegiata del “Corriere della sera”, martedì 7: “Prometto tutto in stile «Cetto La Qualunque»”. 
L’Istituto Cattaneo sottolinea invece il contrario: in Calabria si vota, e a ragion veduta: “Dobbiamo sottolineare che, al contrario di quanto si potrebbe ritenere considerando i tassi di partecipazione ufficiali, la partecipazione alle regionali è notevolmente cresciuta rispetto alle politiche del 2022 e alle europee del 2024 (come del resto era capitato nel 2020 rispetto alle europee del 2019). Questo  perché in Calabria il numero degli aventi diritto al voto residenti all’estero è molto più elevato che in altre regioni: è pari a circa il 20 per cento degli aventi diritto. Questi elettori non sono inclusi tra gli aventi diritto nelle sezioni elettorali calabresi al voto per il parlamento nazionale, perché in quel caso possono votare in apposite circoscrizioni estere. Sono invece inclusi nella base su cui si computa il tasso di partecipazione “ufficiale” nel caso delle elezioni regionali e locali, in quanto possono esprimere il voto solo recandosi al seggio nel comune di origine. Ma, ovviamente, non tornano in Italia per votare.
“In Calabria il numero dei votanti è cresciuto in queste regionali, rispetto alle precedenti elezioni parlamentari (nazionali ed europee). E se si calcola il tasso di partecipazione alle regionali considerando solo i residenti, cioè coloro che realmente hanno la possibilità di partecipare al voto (e ne hanno realmente interesse), il tasso di partecipazione supera il 50 per cento, raggiungendo livelli simili a quelli a cui si sono collocate negli ultimi anni varie regioni del centro-nord”.
Ed è un voto semmai maturo, attesta il Cattaneo: “Molti elettori calabresi ….tendono stabilmente a orientarsi…. verso candidati al consiglio regionale dell’area centrista, o meglio di candidati privi di 
una chiara connotazione ideologica, più presenti nel territorio”. Non verso i demagoghi, bensì verso candidati moderati, fattuali.

Certo, si può sempre dire che questo voto, a candidati “presenti sul territorio”, è un voto di scambio. Ma la politica è uno scambio, il voto – il voto è una delega. Bisogna fare, in questo “scambio”, la differenza che non si fa, tra uno scambio specifico, di favori, posti, soldi, e uno politico, di fiducia, ancorché reciproca.
 
La donna del Sud
Le “storie familiari” sono inattendibili, spiega Emanuele Trevi nel racconto sul lato materno della famiglia, in Calabria, “Mia nonna e il Conte”, ma un dato dà per certo: “Quello che è sicuro è che la madre di mia nonna”, la bisnonna, “vissuta in tempi certamente meno fiabeschi e avventurosi, era altrettanto capace di esigere quello che le spettava, senza fare compromessi”- girava da ragazza per il paese, senza dare scandalo, con una piccola pistola nella borsetta, “allo scopo di scoraggiare i corteggiatori” che non le piacevano. E si 
spinge per questo, e sulla propria esperienza nelle estati passate con la nonna, ad argomentare, invece del matriarcato, il Nonnarcato. In aggiunta all’incipit ormai famoso, “mia nonna diventò bellissima dopo gli ottanta”, esuma la Grande Madre mediterranea del “grande psicologo junghiano, nonché astrologo e chiromante, Ernst Bernhard”, quella che vizia i figli, il figlio, e quindi diventa “cattiva madre”, per dire che, “nella maggioranza delle famiglie del sud, chi comanda davvero, stringendo saldamente il suo scettro di emozioni primarie, è semmai la Madre della Madre: la millenaria, zodiacale, rupestre, Nonna Mediterranea”. Un “Nonnarcato” dunque. Che, benché sprovvisto di “simboli venerabili”, statue, santuari, grotte, crepacci, e di poemi epici e racconti “storici”, non per questo è meno reale – di donne “che siano sarde, cicladiche o tirreniche, dalmate o berbere”.

La sua, di nonna, di Trevi, “era pur sempre una divinità tirrenica, appartenente al temibile, indomabile, antichissimo ceppo calabrese: perspicace, volubile, testarda, capace di leggerti un pensiero nella testa prima ancora che tu stesso l’avessi formulato”.    
 
Nero Calabria, nero Aosta
“Lei sa perché Molti valdostani hano i capelli neri?”, chiede d’acchito al suo intervistatore, Paolo Bricco del «Sole 24 Ore», l’intervistato Vito Gamberale, che è stato un manager pubblico di successo di grandi imprese, ed è nostalgico della “fabbrica”, della “manifattura”, dell’industria. E si risponde: “In Calabria, nel Settecento e nell’Ottocento, si trovavano importanti centri siderurgici. Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, in provincia di Vibo Valentia, costituivano uno dei maggiori poli industriali del Regno delle Due Sicilie. Arrivarono ad avere milleseicento operai. Producevano ghisa e ferro. Realizzavano le armi per l’esercito dei Borboni e le rotaie per la linea ferroviaria Portici-Napoli. Dopo l’unità d’Italia il Sud, che nonostante mille arretratezze aveva alcuni fra i poli pù avanzati della penisola, subì una deindustrializzazione. I Piemontesi intensificarono lo sfruttamento delle miniere in Valle d’Aosta e, nel 1907, fondarono la Società Anomina delle Miniere di Cogne. Molti calabresi, che sapevano di metallurgia e di siderugria, si trasferirono, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in Valle d’Aosta”.
 
Cronache della differenza: Calabria
“Che il feudalesimo fosse una caratteristica calabrese”, fa mordace Nisticò nella “Controstoria della Calabria”, 60, è una stramberia. I baroni, salvo qualche eccezione, “non lasciarono alcuna memoria di sé”. Tanto meno si atteggiarono a mecenati di artisti, come usava in Iralia. Ma non senza ragione: “Se leggiamo di Ruggero e Marfisa, figli di Ruggero di Risa (Reggio), della Chanson d’Aspremont e del romanzo Aspramonte, lo leggiamo sì ma nei versi del Boiardo e dell’Ariosto di Ferrara; mentre questa notizia, se mai sia giunta a Reggio, noncommosse e non commuove nessuno”.
Colpa dei baroni?
 
“La più romantica delle province italiane”, è la conclusione che lo scrittore austriaco Friedrich Werner Van Ostéren antepone al suo racconto di viaggio “Povera Calabria”, 1908. Dove racconta di esistenze “umbratili”.
 
“La Calabria ci prende alla prima con quel suo classico viso che non ha forse l’uguale di purezza e di nobiltà in tutta la casata” d’Italia, “fatto più bello dalla sventura”. È lirico Antonio Baldini a metà del suo viaggio in Calabria nel 1931. Sono prime impressioni di un viaggio fugace. Ma come un’istantanea: “È la parente povera… Ha la fronte bianca cme il marmo e l’occhio molto intento dei fatalisti… Col suo accento nativo, a voce alta e cadenzata, dice cose semplici e severe in un suo tono appassionato… Si studia in tutti i modi di offrirci la migliore ospitalità nella sua casa quasi vuota e cadente… Il frasario cittadino le darebbe fastidio”. Però, “bisogna adattarsi”.
 
Le meraviglie non sono finite: “In nessun altro paese come in Calabria le farmacie fanno venire voglia anche al forastiero di prendere una seggiola ed entrare in discussione. Parlatori di primordine, ornatissimi patrocinanti, liberi maestri d’eloquenza, c’è da stare a sentire incantati; gente che parla con la compostezza di un re sul trono…. Con l’allure di un predicatore..., piacendosi straordinariamente del suono delle proprie parole. Parla così fiorita e magnificente che per le cose correnti non resta che il dialetto. Tradandatona nei fatti, agguerritissima nelle apparenze. Avvocati come piovesse”.
 
E non è tutto. “Calabria, casamadre dell’Ospitalità italiana”, la elegge Baldini. Stendhal in Calabria, dove non ci fu, “non per niente diceva di avere colto sulla bocca dei calabresi il modulo ampio e fluente del tirate di Tito Livio”.
 
È stata, oltre che il tema di molte fantasie, fantasticata scena di molti avvenimenti del mito. L’ultima spiaggia di Oreste. Rifugio variato di Ulisse, nel suo svagato peregrinare. La piana dove fu rapita Persefone. Il porto di Agatocle.
 
In sintesi, nella seconda guera (punica) i Bruzi e i Lucani si schierarono con Annibale, per difendersi da Roma. Quando Annibale, ridotto a Squillace, prima di imbarcarsi per Cartagine, chiese agli alleati di seguirlo, questi si rifiutarono. Annibale li fece sterminare, nel santuario di Era Lacinia a Crotone. I superstiti furono ridotti in schiavitù dai Romani.
I prigionieri di guerra diventavano “schiavi pubblici”. Gellio dice che gli schiavi pubblici erano chiamati “bruziani”.
 
Amedeo Matacena jr, imprenditore delle traghetto Villa San Giovanni-Messina, passa con Berlusconi e viene subito colpito, montagne di inchieste per mafia. In una delle quali viene anche condannato, per concorso esterno. Cinque anni. Che passa a Dubai. Con una (seconda) moglie. E poi con un terza, sposata con “rito africano”. Dopo il quale la madre protettiva muore, e lui pure, senza malattie, a 59 anni. Basta un “rito africano” per atterrare un mafioso calabrese.
I Matacena sono napoletani - Amedeo Matacena padre era uno stimato medico a Napoli. Ma la cosa non cambia: il problema è l’antimafia.


leuzzi@antiit.eu

Giallo al rallentatore

Un giallo di ombre, ma non di misteri. Di ambiente, di mood. In questa terza serie, sempre sceneggiata, diretta e interpretata da tutte donne – un solo ruolo maschile, di spalla (qui ci sono anche un marito e una famiglia, ma sono un diversivo - più spaziato e lento del solito. Come per fare minutaggio.
Petra-Cortellesi è sempre seguita nei suoi silenzi, sguardo fisso sbarrato, che si vorrebbero misteriosi, per lunghi tratti, in ambienti spogli e chiusi. La trama è ancora meno importante (avvincente) delle prime serie: in un convento di suore c’è stato il furto del Bambinello nella cripta, e l’assassinio del restauratore della stessa cripta.
Maria Sole Tognazzi, Petra, Sky

mercoledì 8 ottobre 2025

Letture - 592

letterautore
 
A.Christie
– Anticonformista, al limite della misoginia? A Poirot fa dire, a proposito di violenze domestiche: “Io mi sono occupato di molti casi del genere. In ventidue era l’uomo, ma in sessanta (ottanta? – n.d.r.)) a menare le mani era lei”.
 
Colomba
– Simbolo di pace, è una bestia aggressiva – come quasi tutti i volatili, il più bello, il gabbano, è il più feroce.  “Sembra che il piccione sia un animale crudele. Quando si batte con un altro piccione, si accanisce su di lui finché non muore”, Tahar Ben Jelloun, “Cinquanta paradossi”. Il cardinale Ravasi, citando lo scrittore sul “Sole Domenica”, lo conferma con l’esperienza personale - che è quella di tutti, peraltro. Ma, antifrasticamente con gli eventi contemporanei?, fa risalire l’equivoco alla Bibbia, “Genesi” 8,11, il racconto del diluvio: “Quando le acque si ritirarono, la colomba rientrò nell’arca di Noè «reggendo nel becco una tenera foglia di ulivo», altro simbolo di pace”.
Il cardinale non manca di rilevare che in arabo e in ebraico il saluto è lo stesso: shalōm, salām, pace.
 
Ex voto
– Voti, penitenze, una “follia religiosa” per lo scrittore austriaco, ben cattolico, Van Oestéren, 1874-1953, italianista fluente, che viaggiò, specie al Sud (della Calabria pubblicò anche un diario di viaggio, “Povera Calabria”), in un articolo sul quotidiano viennese “Vossische Zeitung” - che poi ha ripreso, spiega Teodoro Scamardi nella postfazione alla traduzione di “Povera Calabria”, da lui curata, dalla rivista dei modernisti tedeschi “Das Neue Jahrhndert”, n.2, 10 gennaio 1909. Dove lega le forme religiose di fanatismo, devozione eccessiva, pratiche umilianti (strisciare, leccare, colpirsi), culti bizzarri, “a fini di lucro”.
 
Harijan – Della stessa radice sanscrita di “ariano”? È il termine indù, che Gandhi ha provato a liberare, con la comunità e il periodico dallo steso nome, e oggi è perfino parola “incorretta” e quindi proibita, per “intoccabile”. L’ariano della nobiltà teutonica o caucasica è sì “figlio di Dio”, - questa la traduzione di “harijan - ma nel senso di paria, intoccabile. Quanta filologia, quanta storia, anche filosofia, e quante guerre, per la “razza ariana”.
Uno spreco di cui fa la sintesi “La morte è giovane”, romanzo in via di pubblicazione: “La storia della Grecia nasce nel 1840, quando la filologia critica interruppe il filone della storia provvidenziale e se ne fece giudice, libera quindi d’inventare l’“arianesimo”. Che l’università Georgia Augusta di Gottinga veniva elaborando da un secolo: a un certo punto, dice il modello “ariano” della storia greca, dal Nord arrivano gli elleni, parlanti indo-europeo, e soggiogano la cultura egea. Rinata dopo la disfatta nel ‘18 a centro meritorio della fisica, con la meccanica quantistica di Heisenberg, Pauli, von Neumann, Oppenheimer e Born, Gottinga è stata per due secoli la culla della storia eretta a scienza grazie all’invenzione della filologia. Con gli “ariani” e la Grecia fu tedesca pure Roma, la letteratura romanza, la storia, la chimica, la filosofia. Incluso il Giordano Bruno italiano, riportato in vita quattro volte nel solo Ottocento, da Adolf Wagner, Lagarde, Lasson, Kühlenbeck – dopo essere stato salvato ai posteri dai re di Francia e d’Inghilterra. Nel 1770 Blumenthal aveva imposto la prima graduatoria delle razze, inventando il caucasico. Winckelmann la Grecia delle statue patinate quale ideale di bellezza. Tra il 1820 e il 1840 Karl Otfried Müller, il filologo di Gottinga, dà significato culturale e politico alla storia “antica moderna”, con la scoperta dei dori. Era la filologia dei primati – di Ariano vero c’è solo il santo a Venezia, all’isola dei Morti.

La parola nasce dal suono negativo iniziale del sanscrito, un’aspirata equivalente al “non”, seguito dalla radice ar-.., che è di tutti i composti, compresi i nomi propri (Artaserse, Artabano, etc., il celtico Artù), col senso di valore (impresa, nobiltà, superiorità) – eroe, il tedesco Herr, arte, artefice, etc., - ma piace pensarla come il negativo di “ariano”. 

 
Nonnarcato – “La Grande Madre mediterranea è in Italia una madre primitiva”. Così Ernst Bernhard - “il grande psicologo junghiano, nonché astrologo e chiromante” (E. Trevi, “Mia nonna e il Conte”, p.18) – in “Il complesso della Grande Madre” (nella raccolta “Mitobiografia”). Con i noti effetti boomerang: “Essa vizia per lo più i suoi figli con la massima istintività… Ma quanto più li vizia, tanto più li rende dipendenti da sé”, trasformandosi, da “buona madre nutrice e protettrice… nella cattiva madre”.
Trevi, figlio di Mario Trevi, altro grande junghiano, discepolo di Bernhard, non è d’accordo: “Come tutte le teorie”, obietta a Bernhard, “anche quella della Grande Madre finisce per occultare dettagli dell’esperienza quotidiana che non sono meno evidenti”. Per conto suo, nella sua propria famiglia, e per quanto ha potuto vedere al Sud nella sua esperienza, “chi comanda davvero… è la Madre della Madre: la millenaria, zodiacale, rupestre Nonna Mediterranea” – anche se “questo Nonnarcato” non s’illustra come il matriarcato di simboli e culti venerabili, statue, santuari.
 
Sante-papesse – Ci sono più casi, nella tradizione, più o meno veritiera, di donne che si sono volute uomo, per entrare in convento o per fare carriera ecclesiastica. Di questa seconda specie, in realtà, non ci sono casi storici, certificati. Quello famoso della papessa Giovanna (una inglese nata nata in Germania, a Magonza), che sarebbe succeduta a Leone IV nell’855, e avrebbe regnato per due anni, cinque mesi e quattro giorni che avrebbe passato a Roma fornicando, poiché dopo quel tempo, nel corso di una processione, dal Colosseo a San Clemente, avrebbe partorito, non è vero. Lo spiega il medievista Tommaso di Carpegna Falconieri in una ricerca di prossima pubblicazione di cui dà conto Paolo Mieli sul “Corriere della sera”. Ci sarebbe stata una papessa, ma a Oriente, una patriarca nella chiesa di Costantinopoli - se ne saprebbe da una lettera (non spedita) di papa Leone IX al patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario.
Ci sono invece, documentate, “un’infinità di donne di cui si racconta che condussero una vita di santità vestendo abiti maschili e mantenendo celata la loro condizione femminile”.
Ci sono state dunque molte donne che hanno voluto essere uomini. Non ci sono stati invece uomini che hanno provato a farsi monache, nemmeno per insidiarne, come era l’uso, le virtù – nemmeno per scherzo, per così dire.
 
Storie di famiglia – “Le storie d famiglia non sono né vere né finte”, Emanuele Trevi, “Mia nonna e il Conte”, p. 30: “Il loro grado di attendibilità non si misura sulle testimonianze e su documenti, perché consistono di fili narrativi così ingarbugliati che n
on si può separarli e distinguerli, privilegiando i più ragionevoli e tralasciando le palesi assurdità”. Servono a “cementare i cosiddetti legami di sangue”.


letterautore@antiit.eu

Renzi a Cosenza – o uno scandalo giudiziario

Succede in Calabria, e quindi non fa notizia, ma il processo-non processo a carico di Occhiuto, presidente uscente e rientrante della Regione, ha tutte le apparenze di uno scandalo. Una notizia di reato non seguita da imputazioni specifiche. A opera di giudici, il Procuratore capo e i due sostituti, che vantano – vantavano fino a qualche tempo fa – fede o affiliazione “renziana”.
Si sa come vanno le cose, questi legami si negano ma si cercano, per la carriera (non è colpa dei giudici se le nomine sono politiche, etc. etc.). La Procura di Cosenza è in debito con l’uomo più potente d’Italia per un quinquennio, fino al 2017 o 2018, presidente del consiglio, segretario del Pd, “rottamatore” dei politici ultracinquantenni. Poi in bassa fortuna ma specializzato nel far cadere i governi – o almeno lui così si pensa. Ex critico della giustizia politica nel caso dei suoi genitori, e dei suoi colloqui alle stazioni di servizio sull’autostrada. Giustizialista con Occhiuto, con due liste al voto, e probabilmente nemmeno un consigliere sui trenta eletti.
Renzi in Calabria vanta un “clamoroso risultato”, dice l’Istituto Cattaneo, che studia il voto e i flussi di voto: riuscì a invertire nel 2014 la tendenza che vede i calabresi votare per il centrodestra alle regionali, dopo aver votato per il centrosinistra alle politiche e alle europee: conquistò la Calabria. Ora, in bassa fortuna, tenta anche la lui la pista giudiziaria?
Sarebbe la parte succulenta di un voto di fatto senza storia, e senza gran peso specifico. Ma non  è nemmeno citato nelle cronache politiche, fra le tante dichiarazioni, interviste e lunghe pagine su 
Renzi a giorni alterni nei media mainstream.


La fascista Meloni paladina degli ebrei

Seguire i social è tempo perso – sprecato. Ma una cosa è curiosa: l’anti-semitismo è di sinistra.  Anche non estrema.
L’antisemitismo propriamente detto. Che non è di chi diffida di Israele o lo critica. Quello di chi odia, senza nemeno dirsi perché, gli ebrei in quanto ebrei. La rete è piena di quelli che si fanno un punto di deridere i “fozzagioggia”. Che sono quelli che sostengono il governo. I “fozzagioggia” in specie sono derisi perché Giorgia fornirebbe armi a Israele.
Le forniture sono in realtà bloccate dall’inizio della guerra per regolamenti europei. Ma gli anti-fozzagioggia fanno della fascista Meloni (Natala Aspesi dixit) una sostenitrice degli ebrei, anzi una paladina.

Sesso senza sesso

Un’imprenditrice di successo cinquantenne, sposata con un regista fantasioso con cui ha un’ottima intesa, amorevole e accudente con le figlie adolescenti, s’infatua di una ragazzo che, dopo averla aiutata dall’assalto di un cane sul marciapiedi affollato della metropoli, si ritrova in azienda come stagista. E imbastisce con lui, benché sfrontato e invadente, una relazione sadomaso. Senza problemi per il resto della vita – inutile raccontare il resto, per cui il film ambisce alla qualifica di thriller.
Si definisce anche erotico, ma è fiacco anche in quello - è un ginnastica, senza erotismo. Problematico sì: perché Nicole Kidman – l’imprenditrice è lei - è stata migliore attrice a Venezia nel 2024? E perché il film può vantare il titolo di “uno dei dieci migliori film del 2024”? Un anno sventurato?
Halina Reijn, Babygirl, Sky Cinema, Now

martedì 7 ottobre 2025

Una guerra senza pace

L’assalto del 7 ottobre era una guerra, si spiegava nel sito il giorno dopo – una guerra e non un atto di terrorismo, come i tanti subiti dagli Stati Uniti, la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania. Ed è stata una guerra molto dura, la più aspra oltre che lunga dopo quella del 1948, della nascita di Isarele. E come nel 1948, va ora aggiunto, non si conclude con una pace.
Non c’è un vincitore netto.  Israele deve accettare delle condizioni. E non ci sarà pace: Israele non intende fare pace.
Israele nel suo insieme, non solo la destra al governo con Netanyahu. Nessun governo precedente ha mai affrontato la questione politica. Gli accordi di Oslo del 1993 non sono stati applicati, neanche prima dell’assassinio di Itzak Rabin, che li aveva sottoscritti. Quelli di Camp David nel 2000 erano vuoti.
La soluzione di polizia non paga – non funziona, oltre che mettere Israele dalla parte del torto, giuridico e politico. Specialmente dopo questa guerra, ma anche prima. Si stima che un palestinese su cinque sia passato per le carceri israeliane, anche senza condanna, quindi un milione – tra essi migliaia di ragazzi sotto i 12 anni. A nessun effetto pratico, se Hamas ha potuto fare guerra contro Israele – di fatto contro gli Stati Uniti – per due anni.
Dopo una guerra, specie dopo una sanguinosa come questa, viene la pace. Se c’è un vincitore.  

La Grande Madre è la Nonna

Spassosa ricostruzione della nonna materna, con la quale Trevi ha passato le estati fino al 1985 o al 1987, quindi per oltre vent’anni, in Calabria, in un paese di mare, in una casa con un grande giardino, in mezzo al paese. “Come certe ragazzine”, è l’incipit – quela che “iniziano a raggiare …. nel giro di un’estate” – “mia nonna diventò bellissima dopo gli ottanta”. Nella stessa vena il seguito. Che è in realtà la storia materna di Trevi, dopo quella del padre e della casa del padre, “La casa del mago” (e quella degli amici morti presto, Rocco Carbone e Pia Pera, “Due vite”). Una storia di donne, tutte formidabili: la trisavola che si mise con un brigante, quello che l’aveva vendicata uccidendo l’assassino di suo marito, generoso e pio medico dei poveri; la bisnonna che girava con la pistola nella borsetta, quella che si era comprata quando si era invaghita del futuro marito, per paura che qualche malintenzionata glielo rubasse – questa è “longilinea” e “magra” come la madre, e altrettanto autoritaria. Il conte è un vero conte, nobiluomo napoletano, mite e mingherlino, cultore  dei Borboni, finito in paese, si presume, con servo-padrone molto gay, che incontra la nonna per chiedere un favore (poter attraversare il giardino nella quotidiana passeggiata da casa al mare): ne diventerà la compagnia quotidiana. Una liaison che culminerà in un sontuoso ricevimeno verso Eboli di vera nobiltà napoletana, nel quale la nonna farà una sorta di tardivo debutto.
Detto così non è niente. Ma Trevi sa farne una (piccola) epopea. Con la ricostruzione anche, suggestiva e breve (e per ogni aspetto veridica, si può attestare) di un piccolo mondo antico e ben caratterizzato – nella fattispecie molto calabrese, benché la Calabria sia lunga e varia, per storia e per mentalità.
Con numerose digressioni, altrettanto spassose. La Grande Madre mediterranea di tanti mitografi che invece sarebbe la Madre della Madre, ossia la Nonna – “sono stato più un cocco di nonna che un cocco di mamma” (con letteratura allegata). L’anamnesi di “Beautiful”. La nonna “cenerentola” a Eboli. La torre di guardia cinquecentesca alla marina e Francis Marion Crawford.
La location, non detta, è San Nicola Arcella. Il conte invece alla fine è individuato: è Erminio Scalera, degli “Aneddoti borbonici”.
Emanuele Trevi, Mia nonna e il Conte, Solferino, pp. 113 €15

lunedì 6 ottobre 2025

Si tratta un armistizio, non la pace

Il “piano di pace” di Trump non porterà alla pace tra Israele e i palestinesi, e forse nemmeno a Gaza. Porterà a un cessate il fuoco, e forse a un armistizio – se Israele decidesse di ritirare le sue truppe. Non alla pace.
Non si fa illusioni il nostro ministero degli Esteri – in linea probabilmente con le altre capitali europee. Trump vuole il Nobel per la pace, e quindi magnifica il suo “piano”. Che però non contiene nessuna garanzia che i palestinesi arrivino all’autodeterminazione – all’autonomia, all’indipendenza. Sicuramente non in Cisgiordania. E a Gaza il piano non dice come. La guerra continuerà con altri mezzi.
Trump si vuole garantito per i palestinesi dai governi arabi che lo assecondano: Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Emirati, Giordania - con l’aggiunta della Turchia e, per quello che possono contare, dell’Indonesia e del Pakistan. Ma l’Egitto e i principati arabi non sono stati mai garanti di una patria palestinese – e non potrebbero esserlo, diffidando del democraticismo, del radicalismo politico.  

Ma Trump non ha veramente cambiato idea

Non c’è un Trump di Gaza Riviera e un Trump (quasi) filo-palestinese, perlomeno a Gaza. Ci si è interrogati in America sul “pianto di pace”, se e perché Trump ha rotto con Netanyahu, e si è concluso che non c’è nessuna rottura.
Ci si è chiesti se Trump sia stato influenzato dai sondaggi di Pew Research, che danno gli ebrei americani divisi su Gaza, sulla guerra. Con una larga minoranza, il 39 per cento, che bolla l’offensiva su Gaza come genocidio. E quasi tutti, otto su dieci, scontenti per il prolungamento della guerra – colpa di Netanyahu per l’86 per cento, di Trump per il 61. Critici anche personaggi ebrei membri di spicco del Congresso, il senatore Sanders, Democratico, e il capogruppo repubblicano al Senato Schumer. Ma si è concluso che Trump si è speso per Israele per compiacere l’elettorato evangelico conservatore - che è più sionista, se possibile, dei sionisti radicali, che Israele riconducono alla Bibbia.
Trump, si è concluso, ha agito di conserva con Netanyahu. Che potrebbe iniziare un nuovo ciclo politico, post-bellico, liberandosi dei sionisti oltranzisti Ben Gvir e Smotrich. Non liberandosene, poiché dovrebbe andare alle elezioni e non le vincerebbe, ma facendo imporre dagli Stati Uniti, che armano e finanziano la guerra, la pausa bellica indigesta.
Trump si fa rappresentare nella mediazione al Cairo dal genero Jared Kushner. Una famiglia, i Kushner,  cui Trump è molto legato. Il giorno dell’Inaugurazione ha graziato il consuocero Charles, anche lui immobiliarista, che era in carcere per reati fiscali, e subito poi lo ha nominato ambasciatore alla corte d’Inghilterra. Charles Kushner e Netanyahu sono molto amici, da quando i Netanyahu stavano in America. Si deve a Kushner il progetto Gaza Riviera, o GREAT (Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation) Trust.

 

In Polonia il vento è sempre di guerra

Non c’è molto sulla Polonia, di oggi e nemmeno di ieri. L’analisi più recente è questa, di un  diplomatico francese ex ambasciatore in Polonia. Che i giornali francesi hanno ripescato nelle ultime settimane, dopo che Varsavia ha firmato a maggio un Trattato di Nancy con la Francia, da cui il primo ministro Donald Tusk si attende un collegamento stretto con l’E 3, il collegamento informale Gran Bretagna-Germania-Francia che gestisce la politica europea di confrontation con la Russia. Questo succedeva con Tusk tornato al governo dopo la vittoria del suo partito, Piattaforma Civica (PO) al voto nell’ottobre del 2023. Poi, a giugno, la presidenza della Repubblica è andata a Karol Nawrocki, il candidato del partito destra PiS (Partito Diritto e Giustizia), lo stesso che aveva governato la Polonia prima di Tusk, e la Polonia è rimasta fuori dall’E 3. Questa l’analisi che Buhler traeva prima di questi eventi, fra una destra dichiaratamente nazionalista e una moderata, e malgrado il sicuro europeismo, attestato e rinforzato dall’enorme sviluppo economico ottenuto con l’adesione alla Ue, in soli venti anni. Ma proprio questo successo, secondo il diplomatico francese, riporta la Polonia post-Woytiła, fra una destra moderata e una radicale, indietro di un secolo. Alla rinascita del paese con i trattati di pace del 1919, che subito si proiettava in una politica di Grande Potenza. A Varsavia si respirerebbe un “tanto atteso «momento polacco»”, di una Polonia “chiave di volta della sicurezza europea”. Specie al confronto con la Russia. Favorito, con “aperto sostegno”, dal clero polacco, in contrasto con la linea pacifista del Vaticano. Un’ambizione che Buhler vede come “il risveglio dei fantasmi del passato, quei conflitti di memoria che gravano sui rapporti della Polonia coi suoi vicini”.
Questo risveglio Buhler reperisce nella politica anti-tedesca del PiS, e in quella anti-russa del PO. La Polonia rinata dopo l’occupazione sovietica non avrebbe rinunciato al mito della Polonia “jagellonica”, dominante tra il mar Nero e il Baltico, o in alternativa del “modello Pilsudskij”, perseguito dalla nuova Polonia, quella rinata a Versailles, tra le due guerre. Quella Polonia fece in pochi anni sei guerre contro i vicini per i confini: due con la Germania per la Slesia e la Prussia orientale, con l’Ucraina e con la Lituania perché si rifiutarono di rifare la “Polonia jagellonica” del Seicento, con la Russia, e con la Cecoslovacchia per il distretto di Teschen. I primi anni dell’indipendenza furono agitati anche per la questione delle minoranze, che si volevano assimilate o espulse: quattro milioni di ucraini, un milione e mezzo di ruteni, un milione di tedeschi, 100 mila lituani – e tre milioni di ebrei.
Quella Polonia fu per Franco nella guerra civile, e per Mussolini in Etiopia, e si prese parte della Slesia quando Hitler smembrò la Cecoslovacchia - salvo diventare preda di Hitler un anno dopo. Mai comunque in pace con i vicini. L’attacco hitleriano all’Urss nel 1941 fu recepito in Ucraina “come un presagio dell’imminente creazione di uno Stato ucraino indipendente”. Scatenando il nazionalismo ucraino contro i polacchi, in Ucraina e in Polonia – oltre che contro gli ebrei. Anche in Lituania l’invasione tedesca “diede ai lituani l’opportunità di vendicarsi dei polacchi di Wilno”, Vilnius in polacco, nonché degli ebrei. Dopo la guerra la Polonia si prese la Galizia, con, di nuovo,  mezza Prussia orientale e un po’ di Brandeburgo, e deportò sette-otto milioni di tedeschi nella Germania Ovest – nella guerra, sotto l’occupazione tedesca, la Polonia aveva perduto oltre un sesto della popolazione, sei milioni, solo per la metà ebrei.
Pierre Buhler, Pologne, histoire d'une ambition, Tallandier, pp. 272 € 21

domenica 5 ottobre 2025

Cronache dell’altro mondo – ebraiche (361)

La grande maggioranza degli ebrei americani ritengono che Israele sta commettendo crimini di guerra – secondo un sondaggio Pew Research (pubblicato venerdì). E il 39 per cento ritiene che sia un gencdio. Facendo distinzione, però, in maggioranza, tra il paese e il suo governo.
Il 61 per cento del campione ritiene – riteneva - che Israele sta(va) commettendo “crimini di guerra”, il 39 per cento un “genocidio”.
Il 94 per cento condanna Hamas per crimini di guerra.
Il 68 per cento è risultato critico nei confronti di Netanyahu, il capo del governo israeliano – un 20 per cento in più del tasso di disapprovazione di un sondaggio Pew Research cinque anni fa. Tuttavia, la maggioranza del campione ritiene Israele centrale all’“identità ebraica”.
La maggioranza si è anche detta in favore della continuazione degli aiuti americani, anche militari,  a Israele.
L’esito, secondo i sondaggisti, potrebbe preludere a “una rottura fra l’ebraismo americano e Israele dopo decadi di rapporti stretti”.

Ombre - 794

Due economisti sul “Sole 24 Ore”, Buti e Messori, non si capacitano sul dollaro che si deprezza ma senza intaccare la fiducia degli investitori, sempre attaccati all’America, ai suoi Treasury, alle sue Borse, e alle sue banche. Mentre è l’esito della tattica di Trump, al fondo degli innumerevoli annunci e controannunci: ripetere il successo di Reagan del 1985 con l’accordo del Plaza, rendere l’America più competitiva, e farne pagare il costo ai concorrenti imbattibili, allora il Giappone, oggi la Cina – l’Europa? don Abbondio, “un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”.  


L’Inps, solitamente cauto e affidabile, pubblica come dato statistico reddito medio lordo dei giornalisti dipendenti a 32.770 euro nel 2022 e a più del doppio l’anno dopo, 68.280. Questo nella categoria “iscritti Inps”. Nella categoria “ordini professionali” il giornalista dipendente aveva nel 2022 un reddito medio lordo di ben 67.000 euro. Quando si entra nel terreno delle Entrate (tasse) non si capisce più niente.

Venerdì nelle scuole ha scioperato il 7 per cento, nella sanità l’1,8. Cioè, non si dice ma si sa, gli ex bidelli, ora “collaboratori scolastici”, e i portantini. Che sono andati in campagna – son tutti abruzzesi o altolaziali. In compenso, frotte di genitori furenti per non sapere come organizzare la giornata dei figli. Politicamente cioè, fatta una sommatoria, un’autocastrazione. Solo per fare pubblicità a Landini – fa “andare in tv” Landini.

Landini indiceva scioperi a gogò alla Fiat quando era gestita da Marchionne e rinnovava gli impianti – a Pomigliano e a Melfi fu sconfessato ai referendum, gli votarono contro. Non ne ha fatto nessuno dacché Fiat-Stellantis ha ridotto la produzione in Italia, ora a un terzo, poco più di 300 mila vetture. Niente. E nessuno che lo rilevi, solo Calenda in breve sul “Foglio”.

Questo Landini è solo un “fenomeno” mediatico, creatura di “La 7” e “la Repubblica”, di Cairo e Elkann. Ma i due sostengono la sinistra, o non saranno agenti provocatori?

Caratteristicamente, sul settimanale di “la Repubblica” epistolografi e Aspesi discutono di (criticano) un film che non hanno visto, “La voce di Hind Rajab” - sicuramente non Aspesi, 96nne, che non ama uscire, né mostra di averlo visto un Orrù che scrive ogni giorno al giornale. Discutono della stroncatura del film di un’altra giornalista, Mancuso. Caratteristicamente perché questa sinistra si parla a occhi chiusi. Come le vecchie zie.

“Il Venerdì di Repubblica” schiera una radio libera di Panama contro Trump. Con un servizio firmato. Una radio di Panama. “Animata  in larga parte da giornalisti indigeni e meticci”.
Ma, poi, quanto larga la “parte” – e “indigeni” a Panama?

“La negazione e il non voler vedere sono due fenomeni tipici delle società coinvolte in genocidi”, Omer Bartov, storico, israeliano, studioso della Shoah. Questo è vero, in questo l’Israele di Netanyahu differisce poco dalla Germania anni 1938-1945. Il mondo fuori, anche ebraico, è in subbuglio, Israele ha al governo Netanyahu, con Smotrich e Ben Gvir - due processati, e anche condannati, nella stessa Israele, per terrorismo (compreso l’assassinio del primo ministri Itzak Rabin).

La premier – “ministro di Stato” - danese Frederiksen vede droni in massa da qualche tempo, E sa anche che sono russi. È la stessa che due anni fa non sapeva che gli ucraini facevano saltare il supergasdotto Germania-Russia lavorando alacremente attorno all’isola di Bornholm, rinomato centro ittico e turistico – “l’isola del sole” – non lontano da Copenhagen. Forse è un bene che l’Europa non sia federalista – non decida a maggioranza. Non fino a che ci saranno dei governi nazionali.

Frederiksen, presidente semestrale della Ue, riceve altezzosa a Copenhagen Meloni, un po’ perché lei è alta e Meloni bassa, ma soprattutto perché lei è socialista e Meloni (neo)fascista. Ma non si saprebbe dire di fatto chi è socialista in questa Europa e chi fascista. Un socialismo bellicoso, per non sapere che altro fare, è un brand inatteso – di un socialista, a vedere, anche donna (diceva che le donne al governo ci salvano dalla guerra).

Il “Corriere della sera-Roma” intitola in grande: “La Capitale di pastiche e cocaina – Fiumi di droga nella Capitale”. Poi si va a vedere le percentuali del 2024 sul 2023, dei sequestri, e tutte le droghe sono in forte calo, eccetto le pasticche. Non è nemmeno cupio dissolvi, la Roma e la Lazio del calcio sono fortemente osannate: è non saper che dire. Se non c’è scontro di bande, accoltellamento all’uscita dalla disco, uno scandalo di letto o di soldi, un terremoto, la città non esiste.
A Roma si accoltellavano regolarmente, negli stornelli e nei racconti di viaggio, all’uscita dalla cantina.  

“Tasse, il 43 per cento non paga l’Irpef. E il 12 per cento versa 26 euro l’anno. L’ex sottosegretario al Welfare Brambilla: “È credibile che quasi la metà dei cittadini viva con 10 mila euro?”. Credibile no, ma per le Entrate sì – loro che c’entrano, sono passacarte.

La Juventus, il club di John Elkann, ha speso nella gestione Giuntoli-Motta un anno fa quasi 200 milioni, per comprare calciatori - nel mentre che lasciava andare per niente Rabiot, il centrocampista più richiesto in Europa. Indebolendo e non rafforzando la squadra. Con la nuova gestione ha speso 80 milioni, per quattro calciatori che non fa giocare, e in sette-otto partite hanno segnato in tutti un gol. Tutti errori non sono. In compenso sono state pagate, tra Giuntoli e la nuova gestione, commissioni da 10 e 12 milioni di euro a tre o quattro procuratori. C’è un mercato dei procuratori, con sfioramenti e elargizioni - anche nelle cessioni semigratuite di Grandi Giovani, Hujsen, Soule? Sì, sicuramente.

O, più paradossale, strana?, la campagna acquisti del Liverpool in estate, campione d’Inghilterra, che ha speso mezzo miliardo per tre o quattro calciatori, con i quali ha infilato una serie di sconfitte, quale da tempo non ricordava. Cui bono? I procuratori hanno residenze fiscali inaccessibili e  incontrollabili, e quindi non si può sapere dove vanno in realtà le provvigioni. Ma le società non vigilano? Non licenziano i dirigenti-scandalo? No si rifanno su questi dirigenti? Le federazioni non pongono tetti? Porrebbero anche vigilare, un poco.

Il castello è un po’ polveroso

C’è stata la crisi del 1929, la fine dei privilegi, le fortune si sono rovesciate, ora bisogna fare i conti, se non guadagnarsi la vita. Molto va venduto. Quello che non è stato perduto al gioco, dallo sciocco zio Giamatti, il fratello della madre – due americani, figurarsi: tanto resilienti (incrollabili, in pace con se stessi) quanto inaffidabili. E anche la servitù cambia. I vecchi sono sempre quelli, maggiordomo, cuoca, i giovani sono autonomi – ancora non sindacalizzati ma talvolta impertinenti. Uno è diventato anche il cocco – l’amante? – di Noel Coward, figurarsi, impertinenza doppia. Ma anche la famiglia cambia.
Mary, che ha deciso di divorziare, viene esclusa dalla buona società, a Londra e nel vicinato, nel Sussex. Si rifarà una vita salvando il salvabile, cioè Downton Abbey. E convincendo i genitori, gli onnipresenti Robert e Cora delle prime due serie, ad acconciarsi a vivere a Londra in appartamento – curiosa cosa per essere una casa, senza grandi camini e senza scale, e anzi con una stanza dietro l’altra – accuditi da una sola cameriera. Mentre Coward, per i cui drammi a Londra si fanno le code, con l’ex valletto, invece che dare scandalo diventano i salvatori di Mary e di Donwton Abbey, con la sola loro presenza a una cena a cui tutta la buona società preme per essere invitata. O tempora, o mores. Ma siamo inglesi, e non ci lamentiamo. Mary resterà sola, riaccettata in società sebbene con con poca servitù, a gestire Downton Abbey – sarà una dimora gentilizia visitabile, a pagamento (ma il titolo sembra dire che non saranno più sequel)?
Gli eventi insomma precipitano, il rivoluzionamento continuo domina il terzo episodio, contro la rocciosa staticità dei primi due. Anche il film sembra fatto alla svelta, la sceneggiatura, i tagli, i dialoghi. Perfino i colori: Simon Curtis, che aveva illustrato il secondo episodio della serie sui verdi soleggiati, qui annega tutto sui bruni, spenti, anche i ricevimenti, non più fiammeggianti, anzi polverosi.
Simon Curtis, Downton Abbey – Il gran finale

sabato 4 ottobre 2025

La gita a Roma – aperta per manifestazione

Diario di un normale week-ed a Roma, come sintetizzato da “Roma Today”:
https://www.romatoday.it/attualita/strade-chiuse-roma-4-5-ottobre-2025.html
Sabato 4 e domenica 5 ottobre diversi cortei ed eventi, sportivi e giubilari, modificheranno la viabilità nella Capitale. Ecco una guida utile per muoversi nel primo fine settimana di ottobre. 
Cortei. Sabato 4 ottobre dalle ore 15:00 alle 17:30 da viale Giulio Cesare partirà un corteo per sensibilizzare la cittadinanza e istituzioni sul tema delle persone scomparse. I manifestanti transiteranno per via Marcantonio Colonna e via Cicerone e arriveranno fino a piazza Cavour. Per l’occasione prevista la chiusura a vista al traffico veicolare (compresa pista ciclabile su via Cicerone) e saranno deviate le linee 30, 49, 70, 81, 87, 100, 280, 492 , 913, 990. 
Manifestazione anche a piazzale Ostiense con un corteo che partirà dalle ore 14:30 per sostenere la Flotilla e Gaza. Vietata la circolazione su viale della Piramide Cestia, piazza Albania, viale Aventino, piazza di Porta Capena, via di San Gregorio, via Celio Vibenna, piazza del Colosseo, via Labicana e via Merulana (tragitto del corteo). Entro la mezzanotte tra venerdì e sabato sarà inoltre vietato sostare su piazzale Ostiense, viale della Piramide Cestia tra piazzale Albania e Porta San Paolo, via del Campo Boario da Porta San Paolo a piazza Bottego. Stessi provvedimenti nell‘area di piazza San Giovanni in Laterano, in via Amba Aradam tra piazza di San Giovanni in Laterano e via dei Laterani, nell‘area di parcheggio davanti alla Scala Santa, in piazza di Porta San Giovanni, via Fontana e via Carlo Felice. 
Sport. Sabato dalle ore 06:00 alle 16:00 all’Eur si terrà la World Triathlon Cup di Roma. Per le gare in bici e corsa vietato circolare su viale America, via Cristoforo Colombo, viale Oceania, viale dell’Umanesimo, viale dei Primati Sportivi, via Tiberiade, viale dei Santi Pietro e Paolo, via Tupini e viale America. Saranno deviate le corse delle linee 30, 31, 73, 671, 708, 712, 714, 724, 779, 780, Solito piano mobilità nell’area del Foro Italico invece per Lazio-Torino, partita valida per la sesta giornata di Serie A in programma all’Olimpico nella giornata di sabato 4 ottobre alle ore 15:00. Saranno incrementate le corse dei mezzi pubblici per lo stadio, delle linee 2, 23, 31, 32, 53, 69, 70, 89, 200, 201, 226, 280, 301, 446, 628, 910, 911, 982. 
Raduno in Centro. Dalla mezzanotte sarà istituito il divieto di sosta in tutta l’area di piazza Bocca della Verità per via di un raduno di mezzi storici Fiat 500 che si sposterà dalle ore 08:30 alle 10:30 di domenica. 
Giubileo dei migranti
. Sabato e domenica si celebrerà il Giubileo del Mondo Missionario e dei Migranti. Dalle ore 07:00 sarà vietata la circolazione su via Rusticucci, vicolo del Campanile, via di Porta Angelica e via Scossacavalli. Previsto il transennamento dell’area adiacente a piazza San Pietro per la realizzazione di varchi e la chiusura di piani stradali che interesseranno: via di Porta Angelica/largo del Colonnato, via dei Corridori/largo del Colonnato, via della Conciliazione, altezza via Pfeiffer e via Rusticucci; piazza Pio XII, largo degli Alicorni - da Borgo Santo Spirito a piazza S. Pietro e piazza del S. Uffizio. 
Con chilometri di transennamenti, va spiegato, e lo spiegamento di tutti i vigili urbani – nonché delle forze di polizia – con trattamento di straordinario festivo. Le feste costano caro a Roma.
In compenso si circola facile nelle strade libere. In previsione dei tanti eventi i romani sono fuori per il week-end.

San Francesco era un altro

Tra poco fanno 800 anni della morte di san Francesco. Nel 1926 ricorreva il settimo centenario e un piccolo editore commissionò a un prete, Paolo Ardali, un opuscolo “in linea”, “San Francesco e Mussolini”. Da questo aneddoto Barbero parte alla ricostruzione della figura del santo, che rimane complessa e indistinta. Anche onnivora, comprensiva pure del parallelo col Duce di don Ardali, che Barber ritiene non sacrilego: uno che “giovanissimo, conobbe in Svizzera le fatiche del lavoro manuale, portò sulle spalle mattoni”, come Francesco per la sua chiesetta, e fu “soldato fra soldati, semplice e umile visse in mezzo a loro, come san Francesco di cui racconta Bonaventura” – e “oh, quanto spirito francescano c’è nella vita di Mussolini!”.
Barbero non dice che non c’è – non ce n’è bisogno? Cita l’esergo di don Ardali dai “Fioretti”: “Dixe frate Masseo: Dico, perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che disideri di vederti, et d’udirti et d’ubbidirti?” Già, perché? L’accostamento Barbero dice non stravagante, e poi spiega il perché. Perché un po’ troppi tirano il santo per la giacchetta, se ne vogliono emuli, e facilmente seguaci – anche se non si sa di che.
Barbero, noto come divulgatore ma medievista di professione, una lunga collaborazione con Chiara Frugoni, la specialista finora più accreditata del francescanesimo, interviene nel mercato già affollato – e tutto di bestseller – di vite del santo (Busi, Cazzullo, Frugoni riedita, et al.) con un approccio singolare. La rilettura dei primi scritti sul santo e il francescanesimo, quelli che ne hanno creato il mito. La sua “autobiografia”, di Francesco, ovvero gli scritti che gli vengono attribuiti, dato che lui è (quasi) certo che fosse mezzo analfabeta: “I due biglietti di san Francesco che si conservano…..dimostrano…. che il santo era a mala pena alfabetizzato, capace sì di scrivere, ma con una grafia faticosa ed elementare, ed in un latino piuttosto sgrammaticato”.  E poi le varie vite compilate, su prescrizioni e direttive papali o francescane, subito dopo la sua morte.
Quindi, “L’autobiografia di san Francesco”, partendo dal “Testamento”: non molto ribelle, anzi in linea con la chiesa.  “Il Francesco di Tommaso da Celano”, nelle tre versioni che il frate dovette arrangiare sulla base delle committenze. “La leggenda dei Tre Compagni” - o “Francesco nel ricordo dei concittadini”. “Il Francesco del Memoriale”. “Il Francesco della Compilazione di Assisi”. “il Francesco di Santa Chiara”. E “Il Francesco di Bonaventura”. Con l’“Epistula de tribus questionibus” e “Il lupo di Gubbio”.  
Il governo rimette san Francesco tra i santi da vacanza. Anzi l’unico, è bene il patrono d’Italia. Ma ce lo rimette sull’onda green, di un modo di essere, se non proprio francescano, povero, però della poetica dell’animalismo e della pace con i miscredenti, quasi un anti-fondamentalista. Ma Francesco non era “francescano”. Non era nemmeno la copia di Gesù, come si volle rappresentato nelle prime biografie.
Barbero non deve faticare nemmeno tanto per attestarlo. Le testimonianze d’epoca si contraddicono. E per lo più si tacevano i lati non santificabili del carattere: spesso duro, anche contraddittorio, segnato dalle delusioni più che dai miracoli. La confusione era tale che dopo quarant’anni dalla morte, l’Ordine francescano prese “una decisione senza precedenti”: ordinò la distruzione delle vite in circolazione e le sostituì con una, “Legenda maior”, opera del generale dell’Ordine, futuro san Bonaventura. Le copie non furono rintracciate in tutte le biblioteche, e rinvenute o ricostruite mostrano “un Francesco molto diverso”. Non quello degli affreschi di Giotto ad Assisi, il beato che parlava agli uccelli e ammansiva i lupi. Né quello che amabile discuteva con i mussulmani, precursore dell’ecumensimo, dell’irenismo. Era “uomo di gesti dolcissimi” ma anche di asprezze, tanto più violente perché inaspettate.
Una poesia riportata alla prosa, gli ardori o illuminazioni alla fatica. Una piega della storia che è forse necessario spiegare. Un riesame, forse Barbero non lo sa, che la “complessità” – controvertibilità - del Francesco papa ha innescato. La santità è complicata.
Alessandro Barbero, San Francesco, Laterza, pp. 448, ril. € 20

venerdì 3 ottobre 2025

Se le manifestazioni non vanno col voto

In dieci anni il partito Democratico ha dimezzato i voti: ne aveva 11,5 milioni nel 2014, ne ha avuti 5,8 nel 2023. Fatta la tara della minore propensione al voto, è sempre una perdita enorme. Ma la stessa ridotta affluenza alle urne potrebbe essere un problema soprattutto del Pd.
La tornata elettorale regionale potrebbe non spostare i pesi politici: la Calabria e il Veneto, dopo le Marche, alla destra, la Campania e la Puglia alle sinistre. Ma, anche qui, con qualche debolezza, sostenendosi ora il Pd con i 5 Stelle nel “fronte largo”. I 5 Stelle sono tradizionalmente deboli nelle elezioni locali, regionali comprese: chi li vota evidentemente non si scomoda per le locali – sono nati come un movimento di protesta e tale sostanzialmente restano. Ma nelle ultime hanno peggiorato la tendenza.
Ci sono dei travasi all’interno dei due schieramenti. A destra gli 8,6 milioni di voti alla Lega (suo record) alle Europe 2019 sono passati in gran parte nei 6,9 per Fratelli d’Italia cinque anni dopo. Lo stesso si può presumere tra Pd e 5 Stelle. Che però hanno avuto il loro picco alle politiche, nel 2018, non alle Europee l’anno successivo: se è un elettorato rubato al Pd, è composto allora di gente che va a votare, non si astiene.
Il calo del Pd non si spiega con le manifestazioni in corso per la Palestina. Criticate dalle destre e sostenute e organizzate dalle sinistre, Pd in testa - specie in quelle scolastiche, liceali. Che vedono large partecipazioni, in tutte le città.
Ma questo è un fenomeno che andrebbe studiato a parte, le statistiche non aiutano: perché tutte le città sono in fermento, e poi al voto vincono le destre? Si sconti la “maggioranza silenziosa”, che non protesta e poi vota. Si sconti l’ottobre degli studenti, quest’anno come ogni anno dal 1968: un “rito di passaggio”, ogni anno con motivazioni diverse ma di senso unico e preciso, aprire i ragazzi alla politica, alla coscienza pubblica. Ma la due cose non spiegano tutto – e poi c’è la disaffezione.
La stessa pratica degli scioperi “nazionali”, cioè dei raduni, con spreco di “Resistenza”, andrebbe analizzata. Cofferati, il segretario Cigl che ancora più di Landini ambiva a un ruolo politico (fare il rianimatore del Pci fresco di dissoluzione, come ora Landini, più modestamente, del Pd bicefalo, mezzo rosso e mezzo bianco), era grande organizzazione di manifestazioni che allora si chiamavano “oceaniche”. Ma non gli portarono fortuna – giusto fare il sindaco a Bolgogna, che avrebbe votato chiunque purché “rosso”.

Le archi-stronzate

Si rimedia – si prova – al Maxxi di Zaha Hadid a Roma, assurda costruzione, con spreco gigantesco di energia, d’estate e d’inverno, e di spazi, per lo più inutilizzabili, circondandolo di un Grande Maxxi, “edificio sostenibile e multifunzionale, con parco urbano”, invece del cemento e i duri ciottoli. Senza dirlo, “l’Architettura è sacra”: si dice archistar come a dire arcivescovo, arcisanto.
Irrimediabile invece l’altro Grande Monumento dell’era Rutelli – l’età dell’oro degli archistar: l’Ara Pacis di Richard Meier. Un “complesso museale” tanto gigantesco, sproporzionato, invadente quanto inutilizzabile. E doveva essere ancora più enorme, Sgarbi lo bloccò e ne ottenne il ridimensionamento - in origine doveva scendere fino al Tevere, una sorta di Tuscolana d’architetto (ignorando che tra l’Ara Pacis e il fiume scorre il Lungotevere, l’autostrada urbana di Roma). Di uno che all’evidenza non ha mai dato un’occhiata, neppure da turista veloce, all’Ara Pacis, né a piazza Augusto Imperatore e al Lungotevere – mentre pretendeva di avere progettato, vendeva, “una struttura trasparente e integrata con l’ambiente” (forse perché usava il travertino). Una cubatura mostruosa inutilizzabile – salvo per una sorta di pianoterra-seminterrato, dove ogni tanto è possibile esporre pannelli visibili e leggibili. Di mantenimento costosissimo.

La resistibile ascesa di Smotrich e Ben Gvir

 Un’inchiesta giornalistica del “New York Times Magazine”, il settimanale del quotidiano, un anno e mezzo fa, il 26 maggio 2024. Esito di “un lavoro di anni”, di “centinaia d’interviste a militari, politici, giudici e agenti dei servizi israeliani”, con “decine di documenti portati alla luce”. Di cui la conclusione è questa del sottotitolo: “Come un movimento estremista ha conquistato Israele”.
L’inchiesta spiega le origini, la dottrina, le prime iniziative sul campo, e il deflagrare della colonizzazione forzata incontrollata, e quasi sempre spesso sostenuta, dalle autorità. Dalla polizia, dai militari e dai giudici di Israele. E dal presidente Chaim Herzog, padre del presidente attuale. Nei territori palestinesi ancora dopo il 1948, Gaza e Cisgiordania (si tace di Gerusalemme Est). Coagulata nel 1967, dopo la guerra dei Sei Giorni e la conquista israeliana di questi territori – con il Golan, e il Sinai. Con la nascita a ridosso della vittoria di “Gush emunim”, il Blocco dei fedeli, “determinato a colonizzare le terre appena conquistate”. Con una serie di atti di terrorismo, stragi per lo più, anche sacrileghe, impunite o allora blandamente. Fino a diventare la parte condizionate dell’ultimo governo Netanyahu, quello in carica da tre anni: a dicembre del 2022 per loro era fatta. Netanyahu, sotto processo, ha evitato la sicura condanna e dopo un anno e mezzo lontano dal potere ha formato il suo sesto governo poggiandosi sull’estrema destra. Con lo Smotrich sghignazzante che domina oggi i media, titolare formalmente delle Finanze ma “con l’incarco speciale di supervisionare la maggior parte delle attività del governo israeliano in Cisgiordania”. E con Ben Gvir ministro della Sicurezza Nazionale, uno con cui Netanyahu evitava di parlare appena due mesi prima di farsene una sorta di vice, “condannato più volte per avere sostenuto organizzazioni terroristiche”, nonché “autore di minacce di morte” contro il premier socialista Rabin, assassinato poche settimane dopo da un terrorista suo seguace, Yigal Amir (con la complicità forse dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna: un suo agente infiltrato, finto terrorista, che sapeva tutto delle intenzioni di Amir, fu assolto nel 2000).
Una trattazione senza punte polemiche, ma terribile nella sua ordinarietà. Il sottotitolo è la verità della vicenda: come il male è facile – “banale”. Per una lettura deprimente, come quella dei tanti storici critici, anche israeliani: furberie e violenze prospettano che sembrano estratte dalla pubblicistica antisemita.

Romen Bergman-Marx Mazzetti, L’impunità dei coloni, Internazionale Extra Large, pp. 69 € 8

giovedì 2 ottobre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (608)

Giuseppe Leuzzi


Pasquale Tridico, il padre del reddito di cittadinanza (la falsa pensione del Sud estesa a tutta Italia), svelto tribuno grillino, torna in Calabria da Bruxelles, dove fa il pingue parlamentare Ue, per candidarsi a presidente della Regione, e si dimentica che ha lasciato casa trenta o quarant’anni fa, e non vi risiede. Quindi, non può nemmeno votarsi – nonché mostrare di non sapere nulla della Calabria nei dibattiti, nemmeno la geografia elementare. I grillini, si sa, ragionano diversamente. Ma il Sud è solo sbadataggine per i meridionali emigrati, con qualche successo. 

O Tridico è diverso? Grillino sicuro, riprende pure il comico Albanese, “Cetto la Qualunque, imprenditore e politico calabrese”. Come lui promette settemila “forestali” – “assumerò seimila, settemila, ottomila forestali, uno per ogni albero!” E niente bollo auto. Professore ma ignorante: sbaglia le percentuali, il 3 col 30, e vaga ha la geografia – tre dice le province, come un tempo, e  Bagnaro per Bagnara Calabra (eco di “bagnarote”, le donne di Bagnara, pittoresche e abili ambulanti?). Prima in lista mette la filosofa Di Cesare, che nessuno sa chi sia. E appelli a sostegno fa firmare da amici defunti, come il sociologo Butera – colpa grave in Calabria, non sapere che un amico è morto. A questo punto la questione è personale, la Calabria non c’entra – si vorrebbe, ma dove potrebbe succedere altrove?

L’autostrada Napoli-Pompei, poi Napoli-Pompei-Salerno, ha fatto questa estate i cento anni. La seconda autostrada italiana. Progettata dallo stesso ingegnere, conte e imprenditore stradale lombardo Piero Puricelli, che aveva progettato e realizzato la prima autostrada, la Milano-Laghi. La  quale però nel 1924, un anno prima s’inaugurava – la prima autostrada al mondo concepita solo per i veicoli a motore: km. 42,6 (e meno di un anno dopo, e prima della prima pietra della Napoli-Pompei, era già stata allungata di 24 km., fino a Como). La Napoli-Pompei, 25 km, sarà inaugurata nel 1936, dopo oltre dieci anni. Puricelli era stato incaricato di progettarla ma non di realizzarla. 


Calabria e Toscana, sanità e inquinamento – 2
Si può continuare con i servizi (pubblici) forniti male in Toscana e bene, o non altrettanto male, in Calabria, fra le sorprese estive.  A nessun esito. L’argomento, poi, non è granché d’interesse – non c’è contesa fra le due Regioni. Ma serve a dire quanto la “narrazione” di una realtà, la percezione che ne ha e se ne dà di essa, conti, e anche molto – i calabresi sono più che convinti di essere curati male e malissimo.
Un richiamo però merita: che non c’è wi-fi sulle spiagge di metà Versilia, quelle di Massa e Carrara e in parte del Forte dei Marmi, e anche i cellulari sul più bello “non hanno campo”,
 o sulla costa apuana, superba muraglia fronte mare, mentre c’è, wi-fi e campo, nello sperduto paese dentro l’Aspromonte. E alla Tonnara di Palmi, gli oltre 2 km. di spiaggia tra Gioia Tauro e Palmi – Ciambra, Scinà, Pietrenere, Ulivo. Dove si fa pure il bagno in mare con piacere, l’acqua è trasparente, anche se non si avvale di bandiere blu o verdi, mentre è impossibile farlo sulle spiagge dell’Alta Versilia, quotidianamente afflitte da varie sostanze, visibili, benché onuste di bandiere blu e verdi – se non al largo (disponendo cioè di una “barca”).

Due località, viene da pensare, stranamente unite, da Leonida Répaci, l’intrepido scrittore e animatore culturale, che da Palmi se ne andò in Versilia, e la ne propiziò il “lancio” con la cultura, il famoso premio Viareggio. Il destino, alle volte….
Un codicillo si può appendere in materia di mari e spiagge: che quelle dell’Alta Versilia sono da alcuni decenni erose per grandi profondità. Da ricostituire periodicamente con mostruosi “ripascimenti”, di sabbia di fiume – scavata chissà dove: le cave di fiume sono la fonte maggiore d’inquinamento delle acque si mare, dove i fiumi inevitabilmente finiscono. Senza che mai una soluzione sia stata decisa affrontando la causa dell’erosione. Che tutti sanno essere il porto di Carrara, a monte. Da quando le banchine sono state raddoppiate, trenta o quarant’anni fa, da 700 a 1.850 metri e hanno deviato le correnti marine. Banchine per lo più inutilizzate. Per un traffico tra 1,4 e 3,4 milioni milioni di tonnellate. Come Fiumicino – che non si direbbe un porto quanto uno scalo aeroportuale. Utilizzato per lo più da qualche anno per le navi da crociera – per la visita al Golfo dei Poeti, alle Cinque Terre e alle cave di marmo. E si scava per per un’altra banchina esterna, per un maggiore pescaggio, per qualche nave da crociera più pesante, per fare concorrenza a Genova e La Spezia.
Un business in sé, la “costruzione”. A effetto economico irrisorio. Con danni invece (in)calcolabili. A Reggio Calabria si sarebbe detto un affare di mafie. Un’economia della spesa pubblica, a beneficio dei pochi, come nel peggiore Sud.  
Il porto di Reggio Calabria, anch’esso nato “naturale”, si allunga con banchine artificiali per mezzo km. o poco più, e gestisce in compenso un traffico, con Messina, le Eolie e Malta, di 13-14 milioni di passeggeri, l’anno. Senza danno per nessuno.
Però, le cose vanno così: in Toscana comunque bene, in Calabria comunque male. L’erosione, viene da pensare, è solo un’occasione di ricco business col ripascimento - come la costruzione dei moli del porto di Carrara. E senza il sospetto di mafia.
Le due entità hanno storie differenti, e il divario accumulato ancora immenso. La buona amministrazione secolare e la potenza politica ed economica che hanno fatto la storia della Toscana dal Duecento in qua, si confronta con un millennio di abbandono, politico, economico, anche militare (chiunque poteva sbarcarvi e depredare), della Calabria, forse la regione meno accudita (governata) d’Italia o più negletta, sia pure per colpe sue, sconfitti i bizantini. Perfino il secolo e più di governo normanno insediato in Calabria non ha lasciato traccia: la capitale i conti-duchi avevano eletto a Mileto, all’interno del monte Poro, per evitare le incursioni barbaresche, ma le giornate passavano sul Monte a guatare la Sicilia, di cui gli arabi avevano fatto un giardino e arricchito di marmi e cesellature. A volte si è pure sfortunati.
 
Una piazza tra i boschi nell’Aspromonte
Salendo faticosamente a dorso di mulo da Sant’Eufemia d’Aspromonte al Montalto (un dislivello di 1.500 m., che pretende di avere fatto all’andata e al ritorno nello stesso giorno), il nobile scrittore austriaco, viaggiatore nel 1908 in Calabria, Friedrich Wernet van Oestéren sbuca con sua sorpresa uscendo dai boschi in una radura o pratone spoglio “denominato «piazza di Martino»”. Una piazza nel bosco. in mezzo alla montagna. E ne racconta la storia, come il mulattiere gliela racconta: “Martino era un capobrigante
molto onorevole che aveva fissato in questo spiazzo il suo accampamento. Da qui era uso intraprendere con i suoi uomini le spedizioni d’affari. Fino a quando, in un momento di debolezza, non fu sorpreso da due gendarmi cattivi che lo catturarono e addirittura lo finirono sul posto a colpi di pistola”.
I due gendarmi cattivi non sembrano fuori posto, erano attivi, fattivi e cattivi, in due e anche d soli, ancora qualche decennio dopo guerra, dopo la Repubblica. Ma una “piazza” tra i boschi? In onore di un brigante?
La curiosità ricorre pure in Carlo Levi, “Prima e dopo le parole”, p. 30. Ma la “piazza Nino Martino” era probabilmente nata con l’abate Vincenzo Padula, che in “Persone di Calabria” ne fa addirittura un santo: “Il morto Nino era divenuto un santo; e così s’era alzato, e inginocchiatosi dietro la botte vi versava sempre del vino, mercé un sarmento che teneva in bocca. La Giustizia, vedendo la madre a vendere sempre vino, e non comprare mai mosto, andò a frugarle in casa, e trovato Nino e visto il miracolo, lo fe’ santificare - noi contadini lo chiamiamo il santo dell’abbondanza, ed entrando in casa altrui, o nell’aia, o nel trappeto sogliamo dire: «Santu Martinu!»”.
Teodoro Scamardi, che ha recuperato van Oestéren e lo ha tradotto per Rubbettino (“Povera Calabria”, p. 183), sintetizza così le sparse “notizie” sul Martino di Piazza Nino Martino: “Nino Martino, detto Cacciadiavoli, era un brigante calabrese del Cinquecento. Sarebbe vissuto sull’Aspromonte (per alcuni in Sila). Brigante pecoraio, catturato e condannato a morte, era stato salvato dalla forca da un suo compegno che si era travestito da monaco per confessarlo prima dell’esecuzione. Una volta libero, stanco della vita di brigante vorrebbe redimersi e va a cercare la benedizione della madre, ma i suoi compagni, avendolo veduto sull’uscio e non riconoscendolo, lo prendono per una spia e lo uccidono”.
La “piazza” nasce, insieme con la statua del Redentore, per il Giubileo del 1900. Per una sorta di cristianizzazione, annessione alla fede, perdurante il “non possumus” dei cattolici nella vita pubblica dell’Italia unita, della Montagna. Promossa dal barone Stranges di San Luca, proprietario terriero di metà Aspromonte, compreso il versante tirrenico (fino agli uliveti di Castellace-Stranges in agro di Oppido Mamertina) - il contributo del barone poi si limitò alla “concessione” del terreno. di nessun valore, sul Montalto per il monumento del Redentore, il costo della enorme pesantissima statua fu sostenuto dai fedeli. La leggenda del brigante santo, raccolta da Padula, rafforzò il progetto. E la Montagna si trova nel mezzo una piazza, intitolata a un brigante, vero - non un Robin Hood.
 
Cronache della differenza: Milano
Respirano le cronache e i giornali milanesi per il Riesame che nobilita i costruttori di grattacieli al posto delle villette chiamandoli ristrutturazioni: non c’è corruzione (nominare un architetto all’Urbanistica, e poi, ma anche prima, dargli progettazioni e consulenze non lo è secondo le giudici, milanesi, del Riesame). Sono felici, si presume, i loro lettori di non essere corrotti, anche se lo sono.
Sembra stupidità e invece è grande saggezza - è forse anzi il segreto di “Milano”: mai darsi la zappa sui piedi.
 
Tre romanzieri giovani, di varia provenienza, hanno ambientato il loro (ultimo) romanzo a Milano. “La Lettura” chiede loro perché. Pietro Santetti: “Ci ho abitato per un breve periodo e ci torno volentieri. Non credo che ci verrei se non avessi un motivo legato al lavoro, ma ho l’agente a Milano”. Alice Valeria Oliveri: “Io non ci tornerei mai a vivere; ma vengo a Milano quasi ogni settimana per lavoro”. Fabrizio Sinisi: “Io sono in città da dieci anni, e si fa fatica. Finché ci riesco a  stare, ci sto”.
 
Dagli hooligans anni 1960, Milano a lungo si è pensata Londra, ai casseurs o maranza di ogni manifestazione, Milano si vuole padrona e insieme ribelle. Uno strabismo strano, anche se coltivato – Milano sempre si assolve nella violenza.
 
Molto milanese – self-assured, perentorio – il linguaggio delle giudici del Riesame sulla Nuova Urbanistica, Paola Pendino, Francesca Ghezzi e Vincenza Papagno, e Pendico-Ghezzi-Gianluca Tenchio. Sbrigativo e sferzante sia nell’assoluzione sia nella condanna – quelli “non bene” li hanno condannati. Un tempo si sarebbe detto “femminile”, ma non si può – e comunque nel secondo trio c’è perfino un uomo, un maschio, Tenchio. No, è molto “buona borghesia”: architetti e immobiliaristi al di sopra di ogni sospetto, politici ladri. Veloce e lapidario.
  
Hakan Çalanoğlu dopo Pirlo, il Milan ha sempre regalato il playmaker alle avversarie più titolate, Inter e Juventus. Senza nemmeno guadagnarci nella contabilità – Pirlo fu ceduto gratis, come uno senza futuro (poi vinse cinque campionati). Da gente di calcio, Galliani e Berlusconi. Le qualità di Milano  sono evidentemente segrete - o fortuite.
 
Nico Acampora, un napoletano a Milano, sempre la stessa storia: insegna ai milanesi cosa e come mangiare, bene, con gusto. Ora però si supera: a far mangiare bene i milanesi mette in cucina i ragazzi autistici. Un’invenzione non da poco.
 
Facendo rivivere Cuccia, ora che Mediobanca è stata vinta dai romani, Michele Masneri sul “Foglio” trova la città cambiata, urbanisticamente: “Nella Milano del loft angusto, delle inchieste urbanistiche e del lamento della gentrification… la vecchia Comit, la Banca Commerciale Italiana, è diventata un museo e un ristorante. Sul tetto della Scala c’è la nave spaziale disegnata da Mario Botta….”
 
Mutato anche il senso del denaro: “Cuccia dopo 50 anni lasciò ai figli un’eredità di un milione di euro; il suo successore Vincenzo Maranghi non volle il tfr. Oggi per Nagel (successore di Maranghi, n.d.r.) si parla invece di 100 milioni”. Cuccia è morto solo venticinque anni fa. Nagel è quello che non ha saputo difendere Mediobanca – gliel’hanno sottratta in due mosse.  

leuzzi@antiit.eu

Quando gli attori dovevano recitare

Una proposta rétro – la “solita commedia all’americana” - che induce a una considerazione sorprendente: il lieto fine che usava un tempo, il film è del 1958, costringeva attori e registi a dare il meglio di sé. Sapendo dall’inizio che tutti sarebbero infine vissuti felici e contenti, il racconto doveva coinvolgere lo spettatore con altri mezzi che non la suspense. Regista e attori dovevano saper prendere lo spettatore con l’abilità scenica - è il “problema” dei drammi e le commedie classiche, le pièces viste e riviste, di cui cioè si sa tutto.
La storia è semplice: due vedovi, giovani e belli benché con figli grandi, lei (Sofia Loren) di un malavitoso e lui (Anthony Quinn) di una pazza, devono innamorarsi e sposarsi. Più scontato di così. Ma riescono, per un’ora e mezza, a incuriosire.
Il ruolo della Loren era stato abbozzato per Anna Magnani. Poi evidentemente adattato, senza le punte traumatiche. Ma Loren vinse la coppa Volpi a Venezia quale migliore attrice. A 23 anni, quando il film fu girato. Non era più la maggiorata vistosa, e sa fare tre ruoli: dapprima la ragazzina sposata per procura che arriva dall’Italia ed è innamorata del marito, poi la vedova sola e inavvicinabile, poi la risoluta risolutrice di tutte le traversie che si oppongono al sogno.
Martin Ritt, Orchidea nera, Tv2000, Play2000