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Ma non c’è la fuga dal dollaro
Trump non ha spaventato i mercati. Le altre monete derivano, effetto
dei dazi minacciati, il dollaro resta centrale – la bocciatura Moody’s del debito
americano non ha influito sull’uso del dollaro né sul debito. Che pure si è
accresciuto nel 2024, presidenza Biden, di 1.800 miliardi di dollari – il 6,4 per
cento del pil (in Italia, in Europa, la soglia limite è il 3 per ceto – ma
anche la Germania di Merz si è fatta autorizzare a raddoppiare la soglia). E più
elevato sarà il disavanzo quest’anno, 1.900 miliardi.
Malgrado questa marcia d’indebitamento, e malgrado Moody’s, il premio di
rischio dei Treasury e del dollaro rimane molto basso. Nessun investitore, Cina
compresa, si è disimpegnato – non ha interesse a svalutare il proprio investimento.
Gli Stati Uniti restano l’investimento di gran lunga maggiori di tutti i surplus
commerciali e valutari. Anche perché: quale altro altrove? La posizione patrimoniale
netta americana verso l’estero era e resta a un record di 26.200 miliardi a fine
2024.
Il Brics coin non esiste. Allo yuan cinese non si affida nemmeno
Pechino. E l’euro è quello che vuole essere, malgrado i tanti ammonimenti, di Draghi
per ultimo: una moneta comune – non ci sono eurobond, che pure sarebbero vantaggiosissimi,
e anzi non c’è nemmeno una regolamentazione unitaria delle banche.
Il Fondo Monetario Internazionale censisce che tre quinti delle riserve
valutarie mondiali, il 57,8 per cento, è in dollari (l’euro segue a molta
distanza, il 19,8 per cento – i vari mercati euro). E analogamente per i pagamenti
internazionali: sono in dollari tre pagamenti su cinque, il 59,6 percento – la
Cina, il maggior performer del commercio mondiale, usa lo yuan per il
4,3 per cento.
E le prospettive a breve, malgrado Trump, restano positive, poiché la Federal
Reserve non ha intenzione di ridurre i tassi, fermi al 4,25-4,50 per cento.
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