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lunedì 25 gennaio 2021

Ecobusiness elettrico

L’impatto sull’ambiente della produzione e lo smaltimento delle batterie dell’auto elettrica non si calcola.
Polestar, il marchio sportivo di Volvo, calcola che, ancora prima di andare su strada, la Polestar 2 ha emesso il doppio di CO2 della Volvo CX40 a benzina, 26 tonnellate contro 14 - per la produzione delle batterie.
La parità nelle emissioni di CO2 fra i motori elettrici e a combustione interna si raggiunge dopo 78 mila km. di percorrenza - sulla base del mix medio europeo di fonti di elettricità (a 112 mila km. con il mix globale attuale).
Se la potenza elettrica necessaria alla ricarica della batteria fosse alimentata interamente da fonti rinnovabili, l’auto elettrica dovrebbe comunque aver percorso 50 mila km per raggiungere la “parità climatica”, la parità di emissioni di CO2 con un’auto a scoppio – dovendo smaltire l’eccesso di emissioni di CO2 per la fabbricazione delle batterie.
La diffusione dell’auto elettrica comporterà un aumento della produzione di elettricità. Che è alimentata in Cina e in India, e anche in Giappone, prevalentemente dal carbone. Ovunque, anche in Europa, lontana dalla produzione da fonti di energia rinnovabili e non fossili. 
Quante centrali bisognerà costruire per alimentare la nuova domanda di elettricità? Con quali combustibili?
Si installeranno in Italia le 60 mila colonnine per la ricarica elettrica, che il DL Semplificazioni dice necessarie? Sono a carico dei Comuni.
Il costo del kw nelle colonnine di ricarica veloce è di due-tre volte maggiore del kw domestico – alle colonnine veloci Enel è di mezzo euro, contro i 20 centesimi della ricarica domestica.
L’auto elettrica resterà a lungo gestibile economicamente solo con gli incentivi pubblici – in Lombardia, calcola “Il Sole 24 Ore”, gli incentivi possono coprire fino a 18 mila euro, per automezzo.

Nureyev, che fece della danza un’arte maschile

Tra la prima, decisiva, tournée a Parigi del balletto Kirov dell’allora Leningrado, nel 1962, nel quadro della détente politica tra Est e Ovest, e l’infanzia e il praticantato di Nureyev borsista nella città monumentale e ricca di musei degli zar, una ricostruzione affascinante. Con la vita nell’Urss, privilegiata per gli artisti seppure in condivisione dei pochi alloggi, ma sempre sotto un controllo politico ferreo, e il carattere ribelle del ballerino. Fino alla decisione finale, di restare in Occidente, drammatica.
Fiennes, che ha voluto – prodotto e diretto – il docufilm, si è anche riservata una parte, del maestro buono Alexander Puškin, che asseconda e doma Nureyev adolescente intrattabile, gli dà da mangiare, un alloggio, e anche la moglie - una divagazione improbabile, forse richiesta dalle regole di produzione, ci vuole un po’ di  nudo. Ma curiosamente trascura la novità di Nureyev, che pure il titolo del film evoca, “il corvo bianco”, quello che in russo s’intende per persona fuori dagli schemi: che fece del balletto un’arte anche maschile, prima il ballerino era giusto un porteur. Concentrato sulla defezione, dalla Russia sovietica in Occidente, che lo spettatore sa o intuisce, la vita di Nureyev rivista in playback acquista suspense.
Il film è anche un utile ripasso di quello che il sovietismo era, non molti ani fa – e in Cina è tutt’ora : ora si può defezionare, il regime cinese dà il passaporto a tutti, ma non criticare il regime.
Ralph Fiennes, Nureyev – The white crow, Sky Cinema

domenica 24 gennaio 2021

Ecobusiness

Perché non si raccoglie il legno, di cassette, bancali e altri oggetti ingombranti, e facilmente riciclabili? 
Perché il packaging (imballaggi, confezionamento), che si pubblicizza a grandi spese ecofriendly, rende impossibile la raccolta differenziata? Perché mescolare la plastica col cartone, in ammassi inestricabili, e peggio con gli scontrini?
Perché gli scontrini indifferenziati e non riciclabili?
Perché tanta plastica inutile nei supermecati – un formaggino deve avere tre involucri, di cui almeno due di plastica, e uno di carta con l’irriciclabile scontrino? E nei surrogati della mensa per i bambini degli asili e delle elementari.
Creato il fenomeno auto elettrica, ora Toyota e Bosch, che più hanno spinto, fanno surplace. Restano irrisolti il problema delle rete stradale delle colonnine di rifornimento, e quello dei tempi di rifornimento. Nonché il problema del potenziamento della rete elettrica in ragione dei consumi maggiorati. Mentre da subito il tutto elettrico provoca una emissione eccessiva di anidride carbonica.
“Più auto elettriche produciamo più aumentano le emissioni di anidride carbonica”, spiega serafico il signor Toyoda, presidente di Toyota. Per la produzione di energia elettrica in eccesso, che nei paesi asiatici manufattori delle batteria, Cina, India e Giappone, si fa per metà ancora a carbone. E per il processo energivoro di produzione delle batterie.

Di cui non si prospetta naturalmente – non ora, dopo – il problema dello smaltimento.

Cronache dell’altro mondo (90)

Gli elettori di Trump sono detti nei talk-show “bifolchi” – qualifica riecheggiata alla tv italiana da Alan Friedman, l’americano ex “Economist”, da tempo italianizzato. “È la definizione più benevola”, nota Federico Rampini: “Mentre è proibito nella cultura contemporanea manifestare disprezzo per chi ha un colore della pelle diverso, per chi è gay o musulmano, è normale disprezzare i bifolchi. È persino considerato una forma di antifascismo”.
A Friedman si deve anche la battuta, a Rai 1: “Trump si è ritirato in Florida con la sua escort”. Cioè con sua moglie. L’odio è democratico in America.
“Trump ha scritto una lettera molto generosa”, confida il neo presidente Biden ai giornalisti:”È privata, non ne parlerò finché non gli avrò parlato. Ma è stato generoso”. Una commedia degli equivoci,  la trasmissione dei poteri, degli errori, uno scherzo? Compreso l’impeachment, quello passato per il Russiagate, inventato, e quello pendente per l’assalto al Congresso?

Come Santo Stefano d’Aspromonte conquistò New York

Alcuni episodi di mafia calabrese a New York, e nei paesi del reggino di provenienza, ricostruiti con puntigliosi, sorprendenti, scavi archivistici, nazionali e americani (questi, in particolare, della stampa locale): la lettura è faticosa, tanto la ricerca è dettagliata – e gli autori, giustamente, non buttano via nulla. Tratto d’unione, in un  pulviscolo di informazioni documentarie di persone e fatti minori, la famiglia dei Filastò, di Santo Stefano d’Aspromonte, cugini dei Musolino del brigante. In particolare di Francesco “Frank” Filastò, che ha occupato per oltre mezzo secolo le cronache giudiziarie a New York e a Reggio Calabria, assassino probabile di Joe Petrosino a Palermo, e poi la politica al suo paese d’origine – il genero Mangeruca sarà sindaco per due mandati dopo la guerra e realizzerà il resort residenziale e sciistico di Gambarie, comprensivo di un Grand Hotel, con vista fantasmagorica sullo Stretto e, nei giorni buoni, fino all’Etna, quando il vulcano aveva ancora nevi perenni.
Una storia, sembrerebbe, d’altri tempi. La neve ora Gambarie deve farla artificialmente. L’Etna non è più bianco la gran parte dell’anno. E comunque non si vede: il business dei vivai e della forestazione a oltranza ha tolto la vista, e anche la luce. O è questa una trasformazione, un secondo o terzo tempo, della stessa partita, del malaffare? Senza più pugnale oggi, come usava – faceva usare – Frank Filastò, ma ugualmente senza scampo. Antonio Musolino, il fratello minore del bandito, sarà ucciso a Tre Aie, località rinomata di Gambarie, in piena stagione estiva, il 2 luglio del 1961 – da ignoti, naturalmente.
Scavo
Fine Ottocento e primo Novecento, fino alla seconda guerra, dei malavitosi, i “picciotti”, la “picciotteria”, di un piccolo triangolo in Calabria, da Reggio nord fino a Solano (il paese del matriarcato) e Santo Stefano d’Aspromonte, il paese del brigante Musolino, e delle famiglie con lui imparentate, soprattutto i cugini Filastò. Su cui una formidabile opera di ricerca viene svolta, negli archivi comunali, parrocchiali, giudiziari, anche americani, cartacei e online (molta documentazione è reperibile negli Stati uniti online, ma bisogna saperla cercare). Con una prefazione di Nicola Gratteri, il giudice scrittore, coautore di molti libri di mafia con Nicaso. Con un voluminoso corpo di note, e un indice dei nomi. Col recupero di ogni genealogia e gesta di miriadi di (piccoli) delinquenti.
C’è anche l’America sullo sfondo. New York soprattutto, teatro delle gesta, cassa e rifugio dei malavitosi. Specie nelle due prime decadi del Novecento, quando la malavita si abbarbicò a Tammany Hall, la “macchina” corrotta e anche assassina del partito Democratico che dominava la metropoli, pagandosi con gli appalti, la prostituzione, l’azzardo e l’alcol. C’è la Pennsylvania prossima allo stato di New York. C’è molto Paterson, per la prostituzione, luogo ora memorabile di poesia (William Carlos Williams, Jim Jarmush).  
Dai tempi di Pontieri non si ricorda tanta acribia archivistica applicata a persone e cose in Calabria. Peccato che si applichi alla storia criminale, e di piccola, benché diffusa, criminalità: taglieggiamenti, specie dei lavoratori calabresi emigrati, come ora avviene nel Mediterraneo tra africani, e “traffico delle bianche”. Il sottotitolo della ricerca è “1880-1956. Da Santo Stefano d’Aspromonte a New York. Una storia di affari, crimine e politica”.
Stato-mafia
Una prima parte è attorno al brigante Musolino. Che a processo a Lucca ammalia tutti, anche Pascoli e D’Annunzio. La fama fu anzi mondiale, come documentano gli autori: “Musolino, the famous Italian Brigand” titolava il “New York Times” il 6 ottobre 1901 l’articolo bene informato di apposito inviato speciale, e subito dopo, il 20 ottobre, “the most famous”. Di cui gli autori fanno un caso di Stato-mafia come ora è d’uso, prima di Giuliano-Pisciotta, Riina-Provenzano, Messina Denaro. Al capitolo “L’ordinanza «liberi tutti»”, e al successivo “La campagna elettorale del «brigante» Musolino”. L’inviato del “Mattino” al processo di Lucca scrive nel 1902 che “il governo si servì di Musolino, dell’ascendente formidabile che egli esercitava, della rete di interessi che le sue intimidazioni e la sua leggenda di inflessibile e fulmineo punitore aveva distesa, se ne servì a scopo elettorale”. Dapprima il governo del generale Pelloux, 1898, poi il ministro dell’Interno Giolitti nel governo Zanardelli.
La questione – Giolitti e i prefetti – era stata già indagata sulle fonti da Spadolini in “Giolitti e i cattolici”, 1960. Ma in contesto politico e non mafioso. Il precedente, purtroppo, non spiega il presente. Attardarvisi non risolve, e áncora l’antimafia a modelli antiquati – non mancano nemmeno Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Come se i mafiosi fossero scemi. O nessuno li conoscesse.
Antimafia?
Restano sempre da indagare le cause di questa criminalità, e la relativa impunibilità. Gli assetti socio-psicologici, quelli reali e attivi anche se complessi - un po’ come Adorno fece i totalitarismi e il razzismo, “La personalità autoritaria” - senza modelli o paraocchi, fuori dagli schemi. Fuori quindi dalle bolse dialettiche ricchi\poveri, borghesi\lumpen. Di tanta diffusa delinquenza il volume documenta che molti sapevano scrivere, seppure sgrammaticato, il che un secolo fa non era frequente, qualcuno perfino in inglese.
Per il lettore è anche interessante che gli stessi nomi - le stesse famiglie allora criminali? - negli stessi luoghi, negli Stati di New York e New Jersey, perfino agli stessi indirizzi, con proiezioni a Chicago e in Pennsylvania (qui ora quasi scomparse), abbiano prosperato legalmente, per capacità e applicazione, Bueti, Filastò, Chirico, Costa. Mentre per associazione a delinquere sono a processo nel 1929 a Locri gli stessi nomi di San Luca oggi, Pelle, Nirta, Strangio e Trimboli: hanno quindi continuato – hanno potuto continuare – a delinquere per un secolo.     
Un volume denso, di storia, non la solita sveltina sui mafiosi, che fanno tanto mercato dopo “Gomorra”. Documentato, anzi con uso fin troppo esteso delle pezze d’appoggio archivistiche. Con la seriosità degli storici. Con qualche trascuratezza, se si tratta di fatti o aspetti che non rientrano nella trattazione di programma, che però la narratologia avrebbe consigliato di non trascurare. Un “modernissimo piroscafo” denominato “Calabria” ricorre a un certo punto per viaggi in Nord America. Di chi, quando, da dove? San Luca non è “sede del santuario della veneratissima Madonna di Polsi”, ne dista un paio di ore, di buon passo. Si rileva di passaggio, incidentalmente, l’atto di nascita della parola ‘ndrangheta, nella denuncia del maresciallo dei Carabinieri Delfino all’autorità giudiziaria il 4 dicembre 1923: “Da più tempo esisteva una vasta associazione a delinquere denominata «Ndranghiti»” - che qualcuno, precisano gli autori, “chiamava «drancati» o anche «dranghita»”. Molti elementi trascurati sono passibili di sviluppi. Si sarebbe certamente voluto sapere di più di “donna” Angelina Nostro, “l’angelo di Broome Street”, moglie di malavitosi, filantropa, “la munifica scillese tammanyta imparentata con Frank Filastò”, che ebbe nel 1924 funerali si direbbe “di Stato” a New York, tanto furono imponenti e ben frequentati.    
Terra perduta
Leggendola quando alla Rai si dice la Calabria “terra perduta” e “irrecuperabile”, la ricerca colpisce per un assetto che si vuole solo negativo. Come un cannocchiale senza panoramica, puntato sui punti oscuri. Non c’è altro calabrese che picciotto. La drogheria-banca è covo di malfattori, mentre è istituzione popolare – tra l’altro rinverdita per gli immigrati in Italia dai tanti alimentari e call center asiatici, per telefonare, trasferire i risparmi, fare le pratiche (ancora viva nella stessa Italia, per es. a Roma, dal droghiere o con la cassa peota). Chirico, “Due boss calabresi a Manhattan”, è uno incensurato, uno dei tanti piccoli o microborghesi che pullulano nei piccoli commerci degli emigrati, dalla manovalanza al commercio minimo e piccolo.
L’emigrazione è sempre miseria e lamento, mentre era anche avventura, coraggio, decisione di cambiare e di innovare. Ed era regolata. Una cosa normale ma da sottolineare, a fronte oggi dell’inanità europea perfino miracolosa. Che tanti emigranti, decine di migliaia ogni anno, viaggiassero con visto e biglietto, sia pure pagato da parenti o amici qualche volta non raccomandabili. Con emigranti che avevano la cittadinanza dopo appena sei anni di residenza negli Stati Uniti - dove i nati erano per legge cittadini.
Con lo sguardo purtroppo in negativo che tanta pubblicistica, l’unica che se ne fa, proietta sulle origini, il nome, i luoghi, la società – “basta la parola” di una vecchia pubblicità, e subito si scatena una sorta di dilettazione nel cinismo. Mentre documenta perché la criminalità diventa cronica e diffusa: quando le Autorità, come le fonti prospettate dagli autori dimostrano, si limitano a registrare passive i fatti e le voci (testimonianze, più o meno anonime), e il crimine non viene in realtà contrastato, il sopruso, il pizzo, l’aggressione. Sospettato, temuto, ma non confrontato, non subito, con la stessa o maggiore forza. Ogni denuncia viene recepita e commentata senza mai intervenire, come fatto privato.
È il tipo di racconto che Gay Talese ha immortalato nella memoria del padre, “Ai figli dei figli”, e nella cronistoria dell’ascesa e declino dei mafiosi siciliani Bonanno, “Onora il padre”: non c’è il male a prescindere, di cui non ci occuperemmo, bastano i Carabinieri, c’è un insieme di eventi, personaggi, concause. Ma questo effetto è mancato. Perché ci occuperemmo di pochi, ignoti, pluriassassini della periferia di Reggio Calabria se non in un contesto? L’effetto è invece sconcertante, di tanto impegno professionale, perfino scientifico, oltre che naturalmente d’intelligenza e capacità, profusi su personaggi deteriori e probabilmente marginali, che assurgono a unici esponenti di comunità.
Antonio Nicaso-Maria Barillà-Vittorio Amaddeo, Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America, Mondadori, pp. 399, ril. € 25
 

sabato 23 gennaio 2021

Il mondo com'è (420)

astolfo

Cajun – O “Cadien”, sono i francofoni Acadiani, gli abitanti dell’antica Acadie, la costa orientale del Canada, deportati nel 1755 dai coloni britannici dopo la conquista verso gli S tati Uniti (tra questi i Kerouac). La maggior parte si indirizzarono verso il Sud degli Stati Uniti, dove ancora si parlava francese, in particolare la Louisiana e New Orleans. Cajun sarebbe una deformazione di Cadien-Cadun. Cajun è il gergo francofono, e sono anche le persone che lo parlano.  
 
Der arme Conrad
– Si denominarono così i gruppi di contadini che nel 1524 si rivoltarono contro il duca d Württemberg -– adottarono il termine spregiativo con cui la nobiltà si riferiva a loro. Il ducato, nel primo Cinquecento, era padronale. Il duca aveva deciso nel 1513 di muovere guerra al duca di Borgogna e aveva imposto nuove tasse sul reddito per finanziarla. Le città di Stoccarda e Tubinga si rifiutarono di pagarla. Allora il duca impose un’accisa sugli alimentari, vino e birra compresi. Colpendo così la parte più povera della popolazione, la campagna. Che era reduce d a due raccolti cattivi, nel 1508 e nello stesso 1513. Per ottenere l’esborso unitario (per unità di prodotto) che si era prefisso, il duca ridusse le unità di misura dei pesi. Per un kg., per esempio, si pesavano  700 grammi – su cui si applicava l’accisa unitaria del kg. I contadini si ribellarono, ma non prima di un “giudizio di Dio”, che un caporione, Peter Gaiss, propose il 2 maggio del 1514: buttare al fiume i nuovi pesi del duca, se galleggiavano aveva ragione il duca, se affondavano erano una frode, che andava combattuta.
La ribellione fallì presto. Molti disertarono dopo un primo momento di entusiasmo, gli ultimi 1.700 ribelli furono imprigionati e torturati, i capi decapitati. L’accisa fu pagata, i contadini, anche non ribelli, privati di ogni diritto. Dieci anni dopo la rivolta sarà generale, la Guerra dei Contadini.
 
Grande guerra
– Fu una guerra d’insubordinazioni, anche di massa. È l’aspetto più singolare ma meno ricordato delle celebrazioni che se ne sono tenute per il centenario nel decennio trascorso: mai eserciti si erano ribellati in massa. Il fatto spiega anche le mobilitazioni popolari che conclusero la guerra, dalla rivolta russa del 1917 alla Novemberrevolution in Germania, e al biennio rosso, primo fascismo compreso, in Italia. Ne andò esente la rancia, il paese che l’insubordinazione sperimentò più in grande, perché probabilmente più debilitato.
A maggio del 1917 la metà dell’esercito francese, 54 divisioni francesi, alimentò un ammutinamento collettivo, contro la conduzione della guerra. La protesta s’innestò sull’offensiva fallita del mese precedente, detta dello Chemin des Dames, mal congegnata e mal condotta, che aveva portato alla morte di 120 mila sodati.
A marzo si erano ammutinati i fanti russi. Nelle trincee, dopo le continue sconfitte. E a Pietrogrado: le truppe incaricate della repressione dei moti di piazza, operai e per il pane, fraternizzarono con i manifestanti – lo zar Nicola II, esautorato, abdicò.
In Italia la protesta scoppiò dopo. Perché tale fu, nella sostanza, la rotta di Caporetto. La sconfitta militare aveva dimezzato gli effettivi: di 65 divisioni al fronte ne restavano attive solo 33, riaggruppate. In pochi giorni si erano contati 40 mila tra morti e feriti gravi, e 285 mila prigionieri. Da qui lo sbandamento dell’altra metà degli effettivi sul fronte dell’Isonzo, 350 mila.
Gli ammutinamenti furono affrontati con durezza, e con molti morti. In Francia con fucilazioni di massa e perfino con l’uso dell’artiglieria. In Italia con i plotoni di esecuzione sul campo e con i Carabinieri, con processo rapido o senza processo.
Per l’Italia, i dati raccolti cinquant’anni fa dallo storico Monticone e da Enzo Forcella documentano  330 mila processi in corte marziale tra il 1915 e il 1918. Con 15 mila ergastoli e 4.028 condanne a morte (750 eseguite). Altre condanne a morte vennero eseguite senza processo, nella rotta di Caporetto. Lo storico militare Rochat valuta in un migliaio il numero delle vittime della “giustizia sommaria”. Le testimonianze direbbero di più – per tutte quella di Hemingway, lunga e  dettagliata, in “Addio alle armi”. A guerra finita circa 20 mila “disertori” furono esclusi dall’amnistia del settembre 1919, e rimasero nelle carceri militari fino alla seconda guerra mondiale.
 
Molti casi di giustizia sommaria c’erano stati durante il conflitto. Uno che fece scalpore coinvolse nel 1917 la brigata Catanzaro. Questo sito lo ha documentato in passato:
http://www.antiit.com/2012/05/il-racconto-unico-degli-eroi-decimati.html
Le decimazioni, che tanto orrore ancora suscitano nell’occupazione tedesca dell’Italia, furono sperimentate nel 1917 dai carabinieri. Contro la Brigata Catanzaro che sul Carso s’era rivoltata dopo dieci campagne di fila in prima linea: presero una trentina di fanti a caso e li fucilarono.... Ne accenna commosso D’Annunzio nei “Taccuini”, giusto lui contro il quale, nell’adiacente suo “campo di aviazione”, i rivoltosi avevano tentato di dirigersi”.
Meno drammatico ma più grave era stato il 21 marzo il caso della Brigata Ravenna, 38mo reggimento, rimandato al fronte il giorno che doveva partire in licenza. La protesta fu risolta blandamente dal comandante di brigata Pistoni, che pure aveva chiesto l’intervento dei Carabinieri e di automitragliatrici blindate. Ma il generale di Corpo d’Armata Carignani volle una punizione severa. Sostituì il generale Pistoni col comandante di brigata Guerrini e gli ordinò di procedere alla decimazione del 38mo reggimento. Due soldai sopresi a dormire furono fucilati subito, la stessa notte. Carignani pretese però che venti soldati del 38mo reggimento fossero estratti a sorte, tra i quali poi sorteggiarne cinque da fucilare. Il che fu fatto all’alba del 22. Il giorno seguente un tribunale speciale voluto da Carignani comminò altre condanne a morte. Carignani insistette ancora nella punizione esemplare, e altri 18 soldati vennero fucilati.
In totale, sui 650 mila caduti nella Grande Guerra, oltre 100 mila si calcolano morti di “fuoco amico”.
 
In parallelo si aprì il fronte delle fabbriche. Da fine 1916 alla primavera del 1917 circa 700 scioperi in fabbrica sono stati contati in Francia. Gli scioperi furono numerosi anche in Russia. E anche in Germania, sempre nella primavera del 197, un discreto moto di protesta si registrò con una serie di scioperi in fabbrica.
A Torino, i moti del 22 agosto dello stesso anno portarono a cinquanta morti: quel giorno le donne assaltarono i forni, in cerca di pane, e le fabbriche entrarono in sciopero, pur consapevoli della probabilità di perdere il privilegio del “bracciale azzurro” degli addetti alla produzione, lontani per questo dal fronte. Il 23 l’agitazione fu confrontata militarmente, con nove morti, tra cui due casalinghe e cinque operai. La repressione continuò per giorni. Un migliaio di operai furono mandati a processo e\o in battaglioni di punizione al fronte.
 
I prigionieri di Caporetto lo Stato Maggiore e il governo classificarono “lavativi”, non provvedendo per questo al loro sostentamento, come da leggi di guerra: i 350 mila vissero di stenti e passarono l’inverno seminudi. Su 600 mila soldati italiani internati in Austria, 100 mila morirono.  Fra i francesi prigionieri di guerra degli austriaci, anch’essi in numero di 600 mila, solo 20 mila morirono nella prigionia.
 
Spie inglesi
– Ce ne sono state molte nella guerra fredda e di prestigio, e hanno alimentato grandi storie, ma con un profumo distinto di romanzesco, o di triplo gioco. George Blake, l’ultima di esse, morto a fine dicembre in Russia a 98 anni, agente segreto britannico professionale, fu arrestato solo nel 1961, dopo la “scoperta” della rete di spie accademiche e baronali di Kim Philby. Fu condannato a 42 anni, uno per ogni agente inglese da lui tradito, si disse nello storione personale che lo accompagnò, ma il più doveva ancora farlo: evase dopo qualche anno, attraversò la Manica come tutti sulla traghetto, raggiunse la Germania fino a Berlino Ovest, e da qui passò a Berlino Est.
Philby era una spia nota ai suoi. Ben prima di defezionare a Beirut, quando dovettero – su spinta americana – deciderne il fermo. Ma faceva parte della casta.

astolfo@antiit.eu

Canta la pace, interiore

L’eterna freschezza, ancora ai settant’anni, quanti ne aveva quando il film fu girato. L’occhio della regista è simpatetico, ma il viso, l’attitudine, l’eloquio, anche nel ricordo di forti contrasti, restano come la voce: limpidi. Una giovinezza che viene dall’equilibrio interiore? Pur in mezzo a tempeste. Le manifestazioni e le marce, anche drammatiche in Alabama, per l’integrazione razziale nelle università e per i diritti di voto, con Martin Luther King. Da ventenne, negli anni 1960. L’enorme attività dispiegata per i Diritti Civili, sempre con Martin Luther King, e poi contro la guerra in Vietnam.
Con molte immagini d’epoca. A partire dai filmini familiari col folle padre, un fisico del Pentagono neo pacifista che si adattò a insegnare l’inglese, ma ogni anno cambiava costa, e portò la famigliola anche in Africa, in una colonia inglese. I concerti naturalmente, e le marce. Tutto con naturalezza. E come portò Dylan al successo – Wharton recupera i filmati di Scorsese del famoso tour della Rolling Thunder Review de 1975, “una magnifica congrega di cappellai matti”. Fino all’“orribile tour in Inghilterra, erano tutti drogati”, che portò alla rottura col futuro Nobel. Il viaggio all’incontro dei prigionieri di guerra a Hanoi, dove per una settimana subì dentro i rifugi i bombardamenti americani. E poi in Cambogia, esposta agli americani e ai vietnamiti: Joan Baez è stata e si vuole soprattutto una pacifista, ma sa di che si tratta e come bisogna prendersi.
Una vita irripetibile, lei stessa ne ha coscienza, in semplicità.
Mary Wharton, Joan Baez - American Folk Singer, Sky Arte

venerdì 22 gennaio 2021

Problemi di base femministi di V. Woolf - 618

spock
 
“Le donne hanno illuminato come fiaccole le opere di tutti i poeti dal principio dei tempi”?
 
“Le donne sono servite nei secoli come specchi col potere magico e delizioso di riflettere la figura di un uomo a due volte la sua grandezza naturale”?
 
“La donna pervade la poesia, da una copertina all’altra, è quasi assente dalla storia”?
 
“Perché le donne sono tanto più interessanti per gli uomini che gli uomini per le donne”?
 
“Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando esso rimane preso e intrappolato in un copro di donna”?
 
La donna è “l’animale forse più discusso dell’universo”?

spock@antiit.eu

L’ultimo turista felice

Pezzi brevi, impressioni, annotazioni, fantasie, per lo più come consigli di viaggio. Scritti giornalistici, per “Grazia” la maggior parte, “la Repubblica”, “Corriere della sera”, e altre pubblicazioni. “Profondamente modificati o riscritti” da Tabucchi nel 2010. Con un paio di inediti. E una presentazione in forma d’intervista con Paolo Di Paolo.
Prose didascaliche, pratiche. Ma garbate, e come ispirate, probabilmente proposte dall’autore e non impegni redazionali, anche le più commerciali: di qualità, ogni riga, ogni parola. “La letteratura – ha detto un poeta – è la dimostrazione che la vita non basta”, è la premessa che Tabucchi fa a Di Paolo. Con qualche memoria personale: in viaggio con la figlia, il sogno del padre, il ricordo dello zio di Lucca che lo riforniva “di libri di Conrad e di Stevenson”. Pezzi “onesti”, che pongono il monumento, la veduta, il luogo, le persone in contesto, per il lettore.
Un mezzo centinaio di schizzi e ritratti. Alcuni inevitabilmente di maniera. L’Australia. O l’India - quella di  Flaiano invece, che non c’è stato, “Un giorno a Bombay”, è altra cosa: Tabucchi ne ribadisce l’impenetrabilità, l’alterità del diverso, e basta. Immagini di viaggi gradevoli, da giornalista, non da letteratura di viaggio – non Peter Levi, Robert Byron, Chatwin, Theroux. 
In India, cui pure deve l’ormai classico “Notturno indiano”, si mette di fatto tra “gli sprovveduti viaggiatori che dell’India ebbero appena un’idea”, Moravia, o la fiutarono,  Pasolini. Ma con pezzi d’autore. “Pisa e Leopardi”. “Delacroix a casa sua”, una scoperta, molteplice, del pittore amico di Baudelaire – la mano letteraria, la sensibilità musicale. Sète, il cimitero amrino di Valèry, “quinidi chilometri di sabbia finissima”. Il Jardin des Plantes a Parigi sembra di attraversarlo, guidati da Jean Hédoard che lo concepì nel 1626 – il medico di Luigi XIII, “autore fra l’altro di un sapido diario sull’infanzia e la giovinezza del re che deliziò Carlo Emilio Gadda”.
A suo agio in Portogallo, con gli eteronimi di Pessoa, e con la saudade. Che meglio traduce con il “disìo” dantesco, “una nostalgia del futuro”. Ne “Le mie Azzorre” si riscopre: “Rileggendo il libro ora – “La donna di Porto Pym” - è a suo modo una cartografia personale, il tracciato della geografia intima di ciò che ero allora”.  
Pagine distese in anni di aspri contrasti, contro Ciampi, contro l’Italia, che ha votato Berlusconi, “percorsa anche dalle Brigate Nere”. Dopo averla lasciata come Calvino, perché percorsa dalle Brigate Rosse. Ma non malinconico, come appare dalle coeve prose politiche e narrative. “Forse siamo tutti turisti a questo mondo”, riflette allegro avviandosi a Creta da Hanià a Theriso, alle pendici dei desolati Lefka Ori, in singolare sintonia col Sartre postumo de “La regina Albermale o l’ultimo turista”.
Pagine distese in anni di aspri contrasti, contro Ciampi, contro l’Italia, che ha votato Berlusconi, “percorsa anche dalle Brigate Nere”. Dopo averla lasciata come Calvino, perché percorsa dalle Brigate Rosse. Ma non malinconico, come appare dalle coeve prose politiche e narrative. “Forse siamo tutti turisti a questo mondo”, riflette allegro avviandosi a Creta da Hanià a Theriso, alle pendici dei desolati Lefka Ori, in singolare sintonia col Sartre postumo de “La regina Albermale o l’ultimo turista”.
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli, pp. 269 € 9,50

giovedì 21 gennaio 2021

Ombre - 546

“«Non vi vedo, non si sente». I buchi nella didattica online. Problemi nel 30 per cento delle scuole”. No, in tutte. A metà anno, col primo quadrimestre saltato per molti licei, emerge la verità della “rivoluzione informatica”. Timidamente, affidata alle cronache locali.

In molte scuole manca la fibra ottica. Cioè non manca, Tim è attenta a incassare come se: non funziona.
 
Il bello della dad, didattica a distanza, sarà anche del lavoro da remoto: che si può lavorare girandosi i pollici.
Nell’insegnamento la produttività non è cresciuta. Nel lavoro pure, quello di cui come utenti si ha pratica, la banca e l’assicurazione.
 
Due berlusconiani salvano il governo quasi-Pd. Su disegno di Berlusconi? Non si può sapere. Ma lui tace. E sono sempre suoi fedelissimi, prima Verdini, poi Rossi, che salvano il Pd a trazione “popolare”, cioè democristiana. Senza premio, non visibile: niente ministeri né incarichi speciali – Berlusconi ha altre vie.

Tace Di Maio con tutti i 5 Stelle sul salvataggio berlusconiano del governo. Con Berlusconi mai, eccetto che per la poltrona.

Berlusconi è sempre stato un vecchio Dc, da quando andava da De Mita col pacchettino regalo in mano, accompagnato da Confalonieri, introdotto da Clemente Mastella, allora giovane e sornione addetto stampa e factotum. Quando emerse in politica, negli anni 1990, la vecchia Dc era certa che l’aveva fatto per recuperare il voto, che presto avrebbe “restituito” - Casini, Follini, probabilmente anche Prodi, ritenevano Berlusconi malato terminale.
 
Molto imbarazzo, nei commenti dei costituzionalisti, e molte reticenze. Per rispetto al presidente Mattarella, ex giudice costituzionale. Ma è sotto gli occhi di tutti che la crisi è condotta istituzionalmente nel peggiore dei modi, giustificandosi con la Costituzione, che finché il governo ha i voti in Parlamento è legittimato. Ma un governo è lì per governare. Nel migliore dei modi, e comunque non con la corruzione, per quanto mascherata. Renzi ha aperto al crisi dicendo i piani del Recovery Fund non buoni e non chiari. Obiezioni? Silenzio.
 
Il presidente della Repubblica ha un ruolo attivo, di persuasione politica (moral suasion), e non notarile, come si dice da verginelle offese. Mattarella conosce i piani del Recovery Fund? Li approva? Non ha sospetti? Perché non ne parla? Potrebbero interessare anche l’opposizione.
 
A Roma, dopo sei mesi di polemiche e preparativi, che hanno impegnato il Campidoglio e la Prefettura, di piani di ripartizione degli studenti in fasce orarie, i bus usati dagli studenti superiori sono “sempre pieni”. La sindaca non se ne occupa, l’Atac nemmeno, la colpa è di chi vuole andare a scuola, e insiste.
 
“L’Inter dipende adesso non tanto da una propria crisi ma da una decisione di politica interna del governo cinese”. Così Sconcerti alla viglia di Inter-Juventus. L’unico giornalista che sappia come funziona la Cina?
 
“Occhi sulla rete”, ammonisce il comandante dei Carabinieri Luzi, “contro il traffico dei vaccini falsi”. Una volta i falsi, i delitti in genere, erano marginali: se ne dava notizia perché erano un’eccezione, facevano scandalo. Li si reprimeva e basta. Ora sono al centro: ci sono i ristori, attenti agli abusi, c’è il Recovery Plan, attenti alla mafia, c’è il vaccino, attenti ai falsi. È un problema di fatto (il vaccino falso?) o di prospettiva? L’apparato repressivo non dovrebbe reprimere, e marginalizzare, il crimine, o magnificarlo?
 
Su dileggiava Scilipoti, che è medico di professione e persona non corrotta, si inneggia ai “responsabili”,  “costruttori”, “ideatori”. È cambiato qualcosa? Sì, i moralisti sono al governo. Basta la parola - a parte gli affari?
 
Della Lazio che “schianta la Roma”, titola “la Repubblica”, la schianta nel derby non in una gara qualsiasi, l’unico che prende 6, il voto più basso, è l’allenatore Inzaghi – uno che vince tutti i derby, che a Roma equivalgono al campionato. Per fare un favore a Lotito in fase di negoziazione del contratto dell’allenatore. È giornalismo?
Lo stesso Inzaghi ha 8 dalla “Gazzetta dello sport”, 9 dal “Messaggero”, 8 dal “Corriere dello Sport”, 8 dal “Corriere della sera”.
 
“Oggi le maggioranze si cercano in Parlamento alla luce del sole e senza vergognarsene” è vangelo di Franceschini. Cioè di uno che è stato segretario perdente del Pd, ed è ora un ministro della Cultura che tiene chiusi musei, cinema e teatri, i luoghi pubblici più sicuri – sicuramente più delle piazze e dei pub.
Le maggioranze si cercano in Parlamento secondo la Costituzione. Ma su programmi politici, non di posti, candidature blindate, e forse soldi.
 
“Non possiamo governare con chi si è identificato con Trump”, Nicola Zingaretti. Cioè con Conte?
 

Scelta difficile tra libro e sigarette

Orwell fu commesso, dopo essere stato studente (borsista) a Eton, poliziotto in Birmania, barbone  in Inghilterra, per un anno e mezzo plongeur a Parigi, il lavapiatti dei grandi alberghi, l’infimo grado del reparto cucine: lavorò in una libreria londinese dell’usato. Non era il suo mestiere – non ne avrà uno – ma ricorda le cose che durano. E ha preso a scrivere. Lasciò la libreria per un’inchiesta, un progetto dell’editore progressista Gollancz, tra i minatori e gli operai dell’Inghilterra settentrionale alle prese con la crisi post crac del 1929, che sarà “La strada di Wigan Pier”, il debutto in letteratura.
Un Orwell leggero, come suole nei suoi saggi e ricordi. Che sono poco legati alla politica, non come si penserebbe dell’autore primo e più importante dell’antisovietismo, quando ancora la guerra non era conclusa – la stessa “Fattoria degli animali” è una satira, più che un libello politico. Dopo il lavoro in libreria sarà anche volontario in Spagna, ma irresoluto, e presto scandalizzato – uno spilungone di un metro e 88 in mezzo a plotoni di contadini incurvati e scuri. Anche qui con ragione: abbandonò la guerra quando i comunisti, cui si era avvicinato perché perlomeno erano disciplinati, decisero di eliminare gli anarchici – di ucciderli. Ma era uno scrittore di cose: amava guardarsi attorno e vedere.
In “Libri contro sigarette”, il pezzo forte di questa piccola raccolta, mostra che non è per i soldi che molti non leggono. E si diletta a calcolare che la sua spesa annuale in libri, di lui grande, grandissimo lettore, circa 25 sterline, è meno di quanto un fumatore spende per tabacco e sigarette – anche lui, benché soggetto a tuberbcolosi. Contando i libri che ha in casa, 442, e calcolando un numero eguale di libri suoi altrove, ne valuta il costo, per fasce di prezzo, a seconda se i libri sono comprati nuovi o usati, o sono regalati, in recensione, in prestito. Dividendo il costo dei libri per i suoi anni di vita attiva, e aggiungendo altre piccole spese, calcola la sua spesa annuale in 25 sterline. Che compara con le circa 20 sterline l’anno da lui spese in birra e tabacco prima della guerra, da giovane senza arte. E con le 40 sterline che ora spende in tabacco. Non solo: un libro letto per passatempo costa meno, per ora di svago, che il biglietto al cinema – e, si può aggiungere, è un bene che resta, e perfino si eredita. 
Morale? Nessuna. Se la spesa per i libri rimane bassa è perché un libro, per quanto interessante, ci diverte meno che le corse di cani, un film o il pub, non perché costa. L’argomento è contestabile, ma Orwell non fa teoria del management. Si arricchisce però qui di una prefazione di Romano Montroni, il genio delle Librerie Feltrinelli – di come si porta la gente a comprare anche libri.
Ma è lo sguardo d’assieme che lo porta alla malinconia. “Le confessioni di un recensore”, o “La prevenzione della letteratura”, altri due saggi di questa piccola miniera, sono una imprevedibile anticipazione del declino della letteratura, sia all’origine, all’edizione, che alla diffusione, nella critica.
Con un inopinato errore nelle “Memorie”, di stampa?, dove Orwell lamenta la mancanza di qualsiasi “pubblicità per «Declino e caduta» di Boswell”, titolo che non è di Boswell. Sta per Gibbon, “Declino e caduta dell’impero romano”? L’edizioncina Garzanti opina che sia una svista per Evelyn Waugh, che debuttava con le sue tragicommedie proprio nel tempo in cui Orwell faceva il libraio, 1928, con un “Decline and fall” che è piuttosto una resurrezione. Un romanzo che mette in ridicolo la scuola “pubblica” (privata) inglese, contro la quale Orwell meditava il lungo saggio autobiografico che scriverà nel 1946, “Tali, tali erano le gioie”.
George Orwell, Memorie di un libraio, Garzanti, pp. 96 € 4,90



mercoledì 20 gennaio 2021

Cronache dell’altro mondo – e della nuova povertà (89 )

S’inaugura la presidenza Biden alla presenza di 26 mila soldati, tra Guardia Nazionale e Esercito. E di nessun altro. Nemmeno un poliziotto durante le manifestazioni anti-Biden, stato d’assedio non dichiarato subito dopo, con cavalli di frisia e uomini affardellati con l’elmetto: le guerre l’America fa in grande, dopo non aver vigilato.
Dagli anni 1980, con la reaganomics (liberalizzazione) e la globalizzazione, l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito negli Stati Uniti, calcola il Fondo Monetario Internazionale (“How to make America More equal”, da cui si cita nel prosieguo), “è cresciuta a livelli vicini a quelli degli anni 1920; i benefici della crescita del pil sono andati senza proporzione a favore del 10 per cento più ricco di percettori di reddito, mentre la crescita per il resto della popolazione è stata inferiore a quella del pil – in alcuni casi nulla”.
Dopo l’ultima crisi prima del coronavirus, la Grande Recessione del dicembre 2007, “l’1 per cento più ricco è riemerso forte come prima in termini di ricchezza, riguadagnando quanto aveva perduto già nel 2012”. A marzo 2020, prima della crisi in corso, “le famiglie dei lavoratori e del ceto medio avevano appena recuperato quanto avevano perduto” tredici anni prima, “e molte famiglie, specie quelle di colore, non hanno mai recuperato”.
Il presupposto dell’economia liberista in vigore da quarant’anni è che avrebbe prodotto più ricchezza e benessere: “Le regole suppostamemte neutrali e eque che governano i mercati hanno di fatto traslato il rischio economico dalle imprese e le classi ricche verso le famiglie a medio-basso reddito”.
Questa economia ha “affamato la nazione”: “L’investimento pubblico”, in istruzione, sanità, comunicazioni, trasporti, eccetera, “in percentuale del pil è sceso nel 2020 al livello più basso dal 1947”.
“In 27 Stati le leggi sul lavoro rendono difficile la formazione di sindacati”.

Bpm-Bper avanti con juicio, quel Cimbri è troppo bravo

L’ad Castagna ha qualche problema in consiglio sulla fusione di Bpm con Bper. Ufficialmente la fusione è in stand-by, per due motivi. In attesa che Bper completi l’operazione  Ubi (l’acquisto delle filiali fuori quota antimonopolio di Intesa), con relativo aumento di capitale. E che il Parlamento decida sul bonus fiscale della eventuale fusione, se di un miliardo o di mezzo miliardo.
Politicamente la fusione è omogenea, in capo al Pd – che propone il bonus da un miliardo. Ma per lo stesso motivo può non piacere ai 5 Stelle, che sono per un bonus dimezzato. La scelta dipenderà dal futuro del governo. Ma ci sono crepe, questa la novità, all’interno dell’ombrello Pd: Bpm è di area popolare, Bper di area diessina, specie per il peso che vi esercita ora Unipolsai.
La riserva confessionale non è esplicitata – anche se si è irrobustita con la scelta di Renzi, molto presente nel settore bancario, di lasciare il Pd. Si consiglia prudenza però a Castagna paradossalmente proprio per quello che fa la forza di Bper targata Cimbri: l’abilità del dominus di via Stalingrado di creare valore per Unipolsai, di cui è l’animatore, e anche, da quando ne è l’azionista di riferimento, per la stessa Bper.
Bpm in questo lockdown naviga ottimamente, mentre Bper è ai minimi. Ma per tutto il 2020, dopo l’ipotesi di fusione e prima delle chiusure di novembre, ha navigato a livelli triplicati. La quota del concambio viene ora ardua da definire, rispetto a dieci mesi fa.

Agnelli al capolinea

O via Nedved e Paratici o via tutti, il presidente Agnelli compreso - dire Nedved è dire Agnelli? La gestione della Juventus è troppo onerosa e poco promozionale, dal punto di vista della proprietà (la Exor, della famiglia Agnelli allargata) per continuare con questo assetto. La sfida di stasera col Napoli non cambia il dato di fatto: la situazione in casa bianconera è insostenibile. Per la gestione sportiva e per quella economica.
I debiti vanno per i 400 milioni, malgrado l’ingente aumento di capitale, 300 milioni, pagato da Exor, la “famiglia Agnelli”, un anno fa. Il bilancio è fortemente peggiorato, per il virus ma anche per i risultati sul campo: chiuderà in rosso per oltre 100 milioni. Il monte ingaggi è sempre altissimo, a 236 milioni – Inter paga 149 milioni, Milan 90. Una limatura è stata fatta ma apparente: l’ingaggio di Pirlo, allenatore al debutto, per soli 1,5 milioni, va sommato a quello di Sarri, l’allenatore allontanato, per 12 milioni; la messa fuori rosa e fuori contratto di Khedira, Mandzukic e qualche altro calciatore non compensa l’ingaggio di Chiesa.
Su tutto naturalmente pesa la perdita di smalto e di valore della squadra sul campo. La direzione sportiva è sotto accusa, perché dopo la cacciata di Marotta niente più ha funzionato: tre cambi di allenatore, poca qualità, acquisti non in funzione delle esigenze della squadra.

Ed ecco il fad, film a distanza – per ridere

Il primo film “da remoto”, su skype, zoom, teams, twitch, cellulari, perfino il porno è da remoto, con quarantene, mascherine e convivenze forzate, con tutti i trovati della rete, videotelefono, già alla sveglia, messaggistica, video, nella solita remota atmosfera elbana di Marciano Marina. Una trovata geniale: i vecchietti del BarLume che si concertano a distanza - si dirà il nuovo genere cad, conversazione a distanza  far, film a distanza? Il morto c’è, ma giusto per un’ora di gag. Come il gioco di bambini del titolo.
Con spazi speciali per Michele Di Mauro, il torinese tourné siciliano, che racconta la sua irresistibile ascesa, a commissario, a questore, a capo della Polizia - “mi manca solo la presidenza  della Repubblica” - grazie al ferro di cavallo. E per una Susana-Dolores videosoubrette multiforme, da suora, commissaria, maestrina, misteriosa ma non tanto (eccetto che per il nome, che il cast non dà) - le cose da esibire sono sempre quelle.
Il regista s’è divertito, veloce e multiforme più della sceneggiato (che condivide con Davide Lantieri, Ottavia Madeddu e Carlotta Massimi), e lo spettatore pure.
Roan Johnson, Tana libera tutti, Sky Cinema

martedì 19 gennaio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (446)

Giuseppe Leuzzi

La terra dell’abbondanza
Italia era il primo nome della Calabria.
Calabria, terra dell’abbondanza, era allora il Salento.
La ragazza della pasticceria di Patrasso, che ci invidia perché torniamo in Italia, richiesta di cosa è per lei Italia, dopo una riflessione dice: “È grande”. Grandi certo le pianure. per uno che arriva dalla Grecia, grandi gli ulivi. Grandissimi in Calabria, nella piana di Gioia.
 
Un’imposta di scopo contro le imposte
Non decidere la spesa in base alle proprie entrate, ma fissare le entrate in base alle proprie spese. Non fare una festa o una grande spesa in base alle entrate, ma la pressione fiscale decidere in base a quanto si vuole spendere per le feste o per le guerre.
Federico Zeri, trovandosi in casi del genere nel suo lavoro di ricercatore d’arte (“Dietro l’immagine”, 253), dice la pratica assurda: “I criteri su cui si fondava questo tipo di economia oggi parrebbero assurdi”. Ma non lo erano in quella che chiama “economia precapitalista” – no, semmai prestatalista: sono gli Stati alla fin fine, per quanto male se ne voglia dire, che hanno introdotto le costituzioni, le leggi, l’uguaglianza, con le repubbliche, o le monarchie comunque costituzionali.
Ma era un’economia anche lombarda, milanese.
Zeri vi s’imbatte cercando i pagamenti di opere commissionate a Milano a Antonello da Messina e a Petrus Christus, quando li trova iscritti – Antonio Messinese e Pietro di Bourges (Bruges) – al capitolo “arcieri”. Come mai, si chiede, questa assurdità. La politica della spesa era fiscale: “Il duca di Milano non spendeva in base alla proprie entrate, ma fissava le entrate in base alle proprie spese. Non è che faceva una festa commisurandola al suo reddito: commisurava la pressione fiscale a quanto gli era costata la festa”. Si vede che per pagarsi il messinese e il fiammingo aveva messo una tassa per la guerra o per gli arcieri, i fucilieri di una volta.
Ma non solo il duca di Milano, bisogna dire. Dappertutto e a lungo, anche tutt’ora, si impongono tasse per Grandi Opere (si chiama così ora la spesa suntuaria) e guerre - di pacificazione naturalmente, di liberazione. È l’uso che la Scienza delle Finanze ha poi nobilitato in imposta di scopo. Ma il capriccio era – è - a Milano senza contraccettivi.
 
O è un vezzo italiano – italiano per dire “lombardo”, dominante?
No, l’Italia spende senza curarsi di mettere le tasse. Non si cura nemmeno di quanto spende di interessi, spende a debito e basta (“tanto i soldi te li buttano dietro”, oggi, “troppo grande per fallire”, ieri, una ragione si trova).  Oppure ha messo talmente tante tasse che non sa più da dove spremerle - da ultimo il professor Monti dieci anni fa, che ne ha introdotte in tutti gli interstizi, la spazzatura, la corrente elettrica, il conto corrente, il conto titoli, il rudere in campagna, la casa dei nonni al paese, le sigarette, la birra, i bolli, bolli per tutto (ma, certo, Monti è ben lombardo, milanese, erede del duca, anche se non ha all’attivo né Antonello né i fiamminghi).
In “Fuori l’Italia dal Sud”, 1992, facevamo il caso del guidrigildo, la vecchia tassa germanica che Federico II di Svevia aveva introdotto anche nel suo illuminato regno meridionale, come mezzo per contrastare le mafie: il risarcimento in denaro di un delitto. La tassa era stata in vigore in Italia tra i Longobardi e resa legale con l’editto di Rotari, 643. Una vita si pagava in denaro, al danneggiato o ai suoi parenti (per metà, l’altra metà andava al capo-tribù, o re), secondo coefficienti diversi in base al sesso e alla condizione sociale. Un uomo (900 solidi) valeva meno di una donna (1.200), se liberi, se schiavi meno, un ricco valeva più di un povero, eccetera, e varie cifre erano fissate per i vari arti menomati. “La consuetudine si estinse”, dice la Treccani, “nel secolo 14° col prevalere dell’autorità pubblica”.
Oggi i lombardi non si ammazzano più, e quindi niente guidrigildo. Ma un’imposta di scopo è sempre possibile – e non sarebbe auspicabile? Un’imposta per abolire le imposte – insomma ridurle. Si chiama consolidamento, e ci tirerebbe fuori dal fallimento prossimo venturo. Ma poi Milano, certo, come guadagnerebbe senza debito – si dice Milano per dire le banche, le assicurazioni, il commercio, la pubblicità?
  
Pascolo abusivo
“Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno”, ma anche d’estate, di Corrado Alvaro, l’incipit celebrato di “Gente in Asromonte”, è dire poco: è difficile e dura. Anche oggi. Il pastore va in Panda o in Jeep,  a seguire il gregge, anzi a seguirlo lascia il cane, lui si limita ala mungitura, quando non la fa meccanica, ma non ha pascolo, soprattutto dopo l’appropriazione dei terreni comuni per usi civici. Invadente, dannoso, odiato più che disprezzato.
Oggi gli armenti si possono nutrire con i mangimi. Che comportano meno fatica e ingrassano di più e in meno tempo – il gregge non deve scarpinare. Ma i mangimi costano, e il pastore piccolo non se li può permettere. Altri allevatori invece non li adoperano per principio: il mangime è composito, può contenere sostanze animali, e nutrire un mammifero con sostanze animali è pericoloso.
E insomma, la pastorale è amara - non è come le pastorellerie, musicali e poetiche, la vogliono. Ed è all’origine di molta delinquenza, la storia delle origini e cause delle mafie dovrà tenerne conto. Molto brigantaggio è nato e si è radicato al Sud a partire dal “pascolo abusivo”. Il reato è oggi derubricato, ma la denuncia comportava arresti e multe - il mancato pagamento delle multe portava causein Tribunale e altra prigione - e allora tanto valeva ribellarsi.
 
Milano
Letizia Moratti, grande volontaria, filantropa, caritatevole,  generosa, forse anche buona credente, come sogliono i lombardi, vuole il vaccino somministrato per prima ai ricchi. Il leghismo in effetti non è una politica: è un stato d’animo, un modo d’essere. Per gli altri la carità, perché no.
 
La Lombardia era il socialismo in Italia fino a Mussolini. La documentazione grafica di “Pcd’I 1921”, il libro sulla nascita del partito Comunista, di Gian Giacomo Cavicchioli e Emilio Gianni, ha una grande Lombardia troneggiante nelle cartine degli esiti elettorali per i partiti socialisti nel 1921 e nel 1924. Un quarto dell’elettorato socialista italiano era lombardo: ben il 24,4 per cento dei suffragi dei due partiti nel 1921, e il 28,7 per cento nel 1924.
Ma già nella seconda tornata i voti socialisti si erano molto ridotti in Lombardia, da 470 a 300 mila.
 
“Condanno sia il neoliberismo sia il populismo”: è tassativo sul “Corriere della sera”, giornale milanese, l’arcivescovo di Milano Delpini. Si sentirà assediato in mare aperto. Nella capitale del neoliberismo e del populismo.
 
“Milano al buio non  male”, Francesco Recami, milanese di adozione - “Ottobre in giallo a Milano”.
 
“La Milanese  - Capricci, stili, genio e nevrosi della donna che tutto il mondo ci invidia”, è titolo dell’editore Solferino, milanese, scritto da Michela Proietti, che è umbra (parente?) ma è anch’essa milanese d’adozione. Può quindi pagare il suo tributo da esterna.
 
Uno “scenario Bergamo” come metafora di apocalissi evoca il settimanale socialdemocratico tedesco “Die Zeit” il 12 novembre, lanciando l’allarme che un mese dopo ha portato il governo Federale della Germania e i Länder alla chiusura totale (lockdown). Ma di questo non si è saputo nella pur solerte stampa lombarda, attenta a tutti gli echi.
 
“Case che si voltano la schiena nei prati di nebbia”, trova a Milano  il narratore del racconto di Calvino “Amore lontano da casa”, 1946. Le case a Milano indispettivano anche l’ingegnere Gadda, la facciata delle case, senza identità.
 
Tano Grasso la assolve anche dall’“episodio” dei bravi nel Seicento: “L’episodio dei bravi sembra un contesto mafioso ma non lo è”, spiega all’università di Catanzaro: “Perché non sono autonomi e perché non c’è la rottura dello stato di diritto, nel Seicento di Manzoni quelle prevaricazioni erano accettate”.
Prodezza sicula, di dire tre cose e il loro contrario in una sola frase. Oppure: non si è Tano Grasso, avvocato dell’antipizzo, se non a Milano – è una questione di pubblicità?

gleuzzi@antiit.eu

Appalti, fisco, abusi (195)

Avere al 31 dicembre 2020 (la promessa di) un rimborso di consumi luce dall’1 luglio al 31 agosto 2017 per ben 1.113 kWh pagati in eccesso è angosciante. Cosa paghiamo in bolletta? Determinato come? Da chi? Perché la bolletta non è semplice e chiara, e non corrisponde al contatore – che non conta per la bolletta?
Il mercato libero è il ludibrio dell’utente: una enorme burocrazia per nascondere abusi?
 
Manda Enel per una casa che non si può abitare, da un anno il governo lo proibisce, la fattura elettrica bimestrale, che vanta in grossi caratteri “chiara, sintetica e trasparente”. Costo € 45,65, per zero kWh fatturati: da mesi il contatore rileva nelle tre fasi sempre le stesse cifre.
Per Enel, per l’Autorità per l’Energia, gli euro sono noccioline, un passatempo per le scimmie. In attesa di rimborso, fra cinque anni, per intercessione di padre Pio?
 
Vanta Enel nella bolletta una produzione di elettricità da fonti rinnovabili del 42 per cento. Mentre non è vero. Perché lo fa – può farlo? Perché si intascano “oneri di sistema”, soldi per “non” fornire elettricità.
 
Si poteva in Spagna già molti anni fa (ai tempi arretrati di Franco) disporre del proprio conto corrente presso qualsiasi filiale della banca, non si può in Italia nel 2021. Se non per graziosa disponibilità del capo desk. Per proteggere chi, certo non la sicurezza. 

La neolingua del niente

Si approda alla “neolingua” di “1984”, il romanzo del Grande Fratello occhiuto, partendo da “La politica e la lingua inglese”, del 1946, coevo della “Fattoria degli animali”, che era la satira del sovietismo. Già subito dopo la mancata catastrofe nella guerra contro Hitler, Orwell nota un “catalogo di frodi e travisamenti” nel linguaggio politico, che minacciano di portare l’opinione pubblica all’insignificanza – quello che fanno, a leggerlo oggi, i social, del chiacchiericcio deformante, impudico. Oggi lo diremmo il linguaggio della decadenza, questo concetto che è stato obliterato proprio in una fase evidente, acuta, di implosione. Orwell ci vedeva un tradimento, ma questo era invece: l’Inghilterra non era più una potenza imperiale, ma non lo sapeva. E l’Europa oggi? E gli Stati Uniti? Un libriccino d’autore, ma tempistico.
Per Eco la neolingua è il fascismo – è il quattordicesimo requisito del suo “Fascismo eterno”. Owell, pur non essendo semiologo, uno studioso dei segni e del linguaggio, ne sa di più. Oggi la Novella Lingua non è il politicamente corretto, l’insostenibile conformismo di una certa sinistra,  per il resto guerrafondaia, in nome della democrazia, certo, si combatte sempre per il bene, imperialista, monopolista, speculatrice?
“La politica e la lingua inglese” è pessimista, concludendo: “Il legame speciale tra la politica e lo svilimento del linguaggio è chiaro”. Ma per motivi che meglio si comprendono oggi, meglio che nel 1946. “Oggi tutto è politica, e la politica stessa è un ammasso di bugie, inganni, follia, odio e schizofrenia”. Quando l’atmosfera generale è cattiva, il linguaggio non può non soffrirne.
Poi Orwell sbaglia, ma per generosità – siamo a ridosso della guerra: “Dovrei aspettarmi di scoprire – è una supposizione, non ho abbastanza conoscenze per verificare - che la lingua in Germania, Russia e Italia si è deteriorata negli ultimi dieci o quindici anni, per effetto delle dittature”. E invece si è deteriorata poi, nella democrazia. Lui stesso parte dal disagio dell’inglese in Inghilterra, benché democraticamente il suo paese abbia resistito e vinto. Il decadimento è globale?   
Una piccola stimolante pubblicazione, con una  esaustiva prefazione del curatore, Massimo Birattari. In traduzione, con gli originali inglesi.

George Orwell, La neolingua della politica, Garzanti, pp. 112 € 4,90

lunedì 18 gennaio 2021

Secondi pensieri - 439

zeulig


Favole
– I genitori non sono innocui, e anzi pericolosi? Emma Dante ne dà questo risvolto. Le mamme? “Non potendo dire esplicitamente a un bambino, attento tua mamma è infida, la favola la traveste da matrigna. Che vuole solo sbarazzarti di te, mandarti in bocca al primo lupo che passa. Ce ne sono tante anche nella realtà”. I padri? “Inesistenti, Debitamente morti, oppure manipolati, succubi delle mogli, incapaci di prendere le difese delle figlie”.
La regista Dante si riferisce ai personaggi delle favole – lei è personalmente mamma felice di un bimbo adottato, voluto, inseguito per anni, curato, coccolato, insieme col marito. Il problema sono le favole. Erano già contro la famiglia? Sono un residuo dell’epoca del nomadismo, della procreazione intesa unicamente come fattore fisico, di pulsione, di gesto meccanico? Un’annotazione del futuro? È il futuro il ritorno al nomadismo, all’individualità nell’ambito di una tribù? Sono le favole fantasie freudiane anticipate? Sono liberatorie? Sono terroristiche – creano il rifiuto o l’incertezza invece di dissolverla? Certo, c’è il lieto fine – di solito.
 
Filosofia
– Induce alla religione? Non per deduzione, per limitazione.
“Kant conduce alla grazia”, dice Simone Weil, la filosofia porta alla religione: “Kant vi porta segnando i limiti della ragione, che non produce ciò che pensa, ma lo riceve”, coi suoi cento talleri possibili che nulla aggiungono ai cento talleri reali - il reale è il possibile certo, anche di noi desideranti, ma il contrario è pure vero: “Lo stesso per Dio”.
L’intelligenza serve a ripulire l’ambiente dei falsi dei: il falso Dio che somiglia in tutto al vero, eccetto che non lo si tocca, impedisce per sempre di accedere al vero. Alla nostra verità, non del Dio astratto.
 
Giustizia
– In Platone la giustizia c’è, e la più grande è quella politica, “Repubblica, II”: “Esiste una giustizia del singolo uomo e una giustizia dello stato intero; è verosimile che nella realtà più grande si trovi più giustizia”.
La giustizia più grande è “naturalmente” quella politica, realizzazione legata al tempo, al luogo e alla cultura in auge. La giustizia “più grande”, insomma, è fenomenica.
 
La giustizia non è il dono dell’onestà per tutti, ma la forza aggregante del viver bene civile. (Per questo la sovversione, quella vera, subdola, incisiva, non quella dei terroristi, è l’ingiustizia – la forza che destabilizza.
 
Heidegger – Kant ha già un Heidegger, “Antropologia”,184. Ma è un “musicista tedesco residente a Londra”, che propose e vinse una gara di bruttezza.
 
Intellettuale – “Gli studiosi hanno conoscenze; gli intellettuali hanno opinioni, che amano esprimere in ogni occasione”. L’approccio è di uno scrittore di gialli, Petros Markaris, ma calzante.
Markaris poi prosegue, sempre credibile: “L’espressione della propria opinione è intrecciata con due caratteristiche, ognuna delle quali ha una ricaduta sessuale… La prima è la lussuria dell’analisi. Devono analizzare tutto. Soffrono di una malattia per cui ancora non è stata trovata la cura: l’analisite. L’altra caratteristica è il piacere di ascoltarsi. Si ascoltano mentre parlano e si eccitano sessualmente”.  L’intellettualità come un’erezione, una forma dell’eccitazione sessuale.
 
Musica – Porta all’astrazione, fuori dal mondo? È risaputo che Prokof’ev, pur essendo pieno del tempo, nel 1917 si astrasse  nella sua dacia nei dintorni di Pietroburgo, “in assoluta solitudine”, a leggere Kant e comporre la sua sinfonia “classica”, Haydn inseguendo e Mozart, senza le incrostazioni di Beethoven. Mentre il popolo al fronte si ribellava e nelle città ribolliva la rivoluzione. Analogamente Richard Strauss, nell’estate del 1942, mentre Hitler gioiosamente suicidava la Germania nelle steppe, si dilettava a musicare “Capriccio”, la storia in cui l’abate Casti discute del primato, nel melodramma, della parola o della musica.
 
Occidente  - È in caduta per definizione. Libera? Regolata?
Non in tedesco – dove invece cade più spesso, nella trattatistica e nell’azione.
 
Politicamente corretto – “È come un’orda da Medioevo in giro per le strade a cercare qualcuno da bruciare al rogo. Non vedo perché non dovrei avere il diritto d dire qualcosa solo perché qualcun altro è contrario. Mi sembra un concetto fondamentale per la nostra libertà” - “Mr Bean”, Rowan Atkinson. L’attore comico si ritira dalle scene stanco di doversi censurare. Ma la cosa non è da comici: dove c’è l’ipocrisia, nel mondo anglosassone per esempio, il mondo di Mr Bean, colpisce duro.
 
Protegge le minoranze, in teoria, dal sopruso. In realtà cancella, poiché ne cancella la diversità – l’identità. La riprova è nella minoranza - talvolta perfino il singolo, individuo - che si impone come maggioranza, come una maggioranza autoritaria e senza limiti, col buon diritto che sempre le maggioranze si avocano.
Semplificando, comprime o riduce l’individualità stessa, e il suo potenziale di crescita, che si suppone protegga: della scrittrice indiana che vuole Shakespeare a processo, della insegnante femminista che si rifiuta di fare a scuola Omero, l’“Odissea”, delle scrittrici americane di recete, di origini messicane, che hanno chiesto la censura di un romanzo sull’immigrazione dal Messico scritto da una non messicana.
 
Molto politicamente corretto, specie nell’accezione cancel cuture, è eccessivo, perfino borderline – se ne parla perché strano. Ma s’innesta su un fondo vasto e spesso, della minoranza che per principio fa aggio sulla maggioranza.  Non riequilibra i rapporti, non chiede giustizia e nemmeno risarcimento, vuole solo ammutolire, imporsi per imporsi. Una deriva della tolleranza verso l’intolleranza.
 
Storia – È maltrattata in Germania, paese di storici. Heidegger la vede “quando l’aereo porta Mussolini da Hitler” (o era l’inverso?). Marx opinava già nel 1842: “La Germania ha dimenticato la storia perché non vi succede storia”. Hegel l’aveva preceduto, “Sulla costituzione della Germania”, 1802, che la celebre frase apre: “Deutschland ist kein Staat mehr”, la Germania non è più uno Stato. La Germania, che è solo Stato?
 
Tempo – Non scandito, non esiste: se non è scandito, da una misura esterna, è tempo-non-tempo. È il suo modo di essere nella pandemia in corso, bandita la scansione in lavoro, festa, pendolarismo, caldo, freddo, bello, brutto, stagionale. La sua varia articolazione dissolta in un dìffuso grigiore, insistito. Con la sola eccezione, non grata, della fila, e l’impegno a evitare ogni incontro, tanto più quelli personali.
S’immagini un tempo senza il ciclo giorno-notte, sonno-veglia, di nutrizione, riposo, e ogni altro istinto o occupazione, sesso, svago, curiosità.  
 
Vero – Un’ombra alla terza o quarta potenza per Platone, nel suo mito della caverna
La quale è in realtà una prigione.  Dove si vedono le ombre di marionette, agite da soggetti nascosti dietro un muro.


zeulig@antiit.eu

Ecobusiness

Dopo il fotovoltaico tedesco, big business, presto scoperto inquinante, le pale eoliche di General Electric, Siemens e Vesta?
Il business delle pale eoliche le vuole più alte e più robuste. Per fare più vento e più rumore. Per impiegare più acciaio? E renderne più costoso il decommissioning, lo smantellamento e il trattamento a fine regime, dopo 15-20 anni? Per raddoppiarne il costo (“l’investimento”) sicuramente.
Quanto ci costa il business delle energie alternative, una voragine – la metà della bolletta elettrica (ma è un costo fisso, “oneri di sistema” lo chiama la burocrazia ghignante). E come si riempiono le tasche dei produttori delle stesse, Enel in testa. Tutti sanno che la forza motrice del vento non ha futuro, ma si “investe” allegramente, a carico del contribuente.
Davvero si salva l’ambiente col water nuovo, e il rubinetto, da pagare noi per mille euro l’uno?
E le borracce termiche di due anni fa che fine hanno fatto? Si chiamavano termos una volta, ora che sono borracce termiche salvano l’acqua e l’ambiente?

Napoli da bere

Partendo dal famoso titolo “Un giorno di Settembre a dicembre”, Gelsomina “Mina” Settembre essendo il nome dell’eroina di De Giovanni, assistente sociale ai Quartieri Spagnoli, un’avventura quotidiana, e niente di più sfigato, senza termosifone a Natale, la giusta scansione di una serie: episodi brevi, e conclusi, di un’ora, su un volto già noto a tutti, Serena Rossi, avendo lavorato nella serie dei “Montalbano”, e storie congruenti. Se ne annunciano dodici - girati tra luglio e agosto, nella calura fuori pandemia, anche il primo episodio, di Natale al gelo. Quindi sei serate, di ritmo, storie concluse, e ottime caratterizzazioni - i produttori della serie, Fulvio e Paola Lucisano, hanno capito la filosofia di Degli Esposti-Palomar, nei “Montalbano” (la stessa Serena Rossi si dice “miracolata dei Montalbano, prima cantavo ai matrimoni”)  e nei nuovi “Barlume”.
Perfino Napoli è accettabile, benché De Giovanni ce l’abbia con la sua città, sporca, spocchiosa, un po’ violenta. Tiziana Aristarco, altra milanese deputata a leggere le ombre del Sud, come già da maestro  Alberto Sironi, la fa un po’ da bere. Bella, ovvio, ma anche sopportabile.
Tiziana Aristarco, Mina Settembre, Rai 1

domenica 17 gennaio 2021

L’italiano – refuso, diffuso, confuso, noioso

Al limite?

Al livello?

Sul piano storico, economico, sociale, qualitativo, gestionale….?

L’obiettivo è quello di?

La ferita è meno grave di quanto non sembri (Marco Cicala)?

Al punto di, al punto da… “fino al punto da giungere a …” (Marco Santagata)?

“Le prossime ore e i prossimi giorni saranno decisivi per capire se ci siano altre persone contagiate, mentre probabilmente sarà una caserma del complesso militare della Cecchignola a ospitare…” – mentre per e (oppure niente)?  

La presunta organizzazione mafiosa, il presunto terrorista, il presunto ricattatore, se invece sono dichiarati, o colti sul fatto, o anche semplicemente accusati (allora basta “accusato” – l’accusa non presume)?

Il sorriso

Il Bravo Regista incede sul marciapiedi alto e curvo come solita, nella quotidiana passeggiata. È un giorno di sole, come spesso capita a Roma a gennaio, anche tiepida, e allunghiamo il percorso. Per non sorpassarlo, lo inquieterebbe, e per una sosta al bar, in terrazza, come ora usa dire, o il dehors,  per quattro convenevoli con chi si conosce, per chiedere al tabaccaio di una pratica di pagamenti che la rete pubblicizza e lui ovviamente non conosce – usa ora la pubblicità anticipata della cosa, ma a Roma vige sempre l'indistinzione, la mancanza di certezza, soprattutto nei servizi, la possibilità impossibile che caratterizza la città (“si può fare, sì, perché no, ma non so, non ho mai sentito, adesso vediamo, possiamo provare”). Un modo per prolungare i quattro passi domenicali.
Il Bravo Regista veramente non è curvo. È anzi alto e ben eretto. Senza posa, per conformazione atletica. Ma incede come se lo fosse, lo sguardo non vede, come se chi lo incrocia non lo vedesse, non potesse, come se lui fosse appunto incurvato. Non abbiamo mai scambiato nemmeno uno sguardo, benché vicini di portone, e necessariamente di tavolo, al caffè o al bistrot. L’abitudine a traguardare, d’obbligo per le celebrità, lo ha spento? Ma è solo, questo è vero, è sempre solo. S’immagina la gente del cinema caciarona, confusionaria, il Bravo Regista invece non lo è. È anche Bravo Attore, se è per questo, alto e curvo sarà il suo modo di recitare. Si direbbe una presenza assenza.
Dal giornalaio lo ritroviamo in coda – in questi tempi di pandemia si fa la coda pure dal giornalaio. Molte persone abituate a fare quattro chiacchiere nella sgambata mattutina, al bar, dal tabaccaio, all’edicola, non ci rinunciano per questo. Al bar adesso non si può, bisogna sorseggiare il caffè fuori ed è scomodo: tenerlo in una mano, zuccherarlo con l’altra, col problema di aprire la bustina, rigirare lo zucchero, anche sorbirlo è scomodo, in piedi, senza appoggio, con la museruola pendente. E poi, il caffè era un’occasione per quattro chiacchiere – c’è a chi la bevanda non piace, ma se la fa piacere. All’edicola il divieto non c’è, i giornalai si prestano, e quindi bisogna aspettare.
Un  famiglia giovane con due bambini è la prima in coda, paziente e irrequieta. Il bambino nel carrozzino, piccolo e muto, è incuriosito. Guarda spingendosi indietro, si agita, ride forte. Il Bravo Regista incombe  barbuto, gli sembrerà un gigante, il bambino esulta, batte le manine, chiama, nel suo linguaggio ancora non compitato. Forse dirà ecco il gigante buono, la lallazione è comprensibile, ma bisogna possederne la chiave. E il Bravo Regista risponde. Ha un moto come per mettersi di lato, per rispettare la distanza, ma il bambino si protende per avvicinarsi, sembra chiedere aiuto rivolgendosi su ai genitori pazienti, e allora si piega, gli dice qualcosa, gli fa una smorfia, ne imita i suoni, sta per dargli un buffetto, si trattiene - ora non si può più, il regime vuole i bambini a distanza. Entra per i giornali, si trattiene anche lui, di colpo loquace, scambia quattro chiacchiere con i giornalai, esce contento, quasi ci vede.

Da Gramsci a Conte - la storia dimenticata del Pci

Il libro più onesto – non pettegolo, non trinariciuto – dei tanti che si pubblicano, a opera i più di non comunisti, se non anticomunisti, che si fingono nostalgici, per il centenario della scissione socialista che diede origine al futuro partito Comunista. L’unico che mette in giusto rilievo il ruolo di Amedeo Bordiga, la mente e l’organizzatore del Pcd’I, da Gramsci, e poi da Togliatti gramsciano di comodo, cancellato anche dalla memoria – l’unico effettivamente storico, non da partito Democratico à rebours.
La storia del Pci si può riassumere anche cosi. Amadeo Bordiga, che portò a conseguenza in Italia teoria e pratica del bolscevismo, ingegnere, doveva anche lavorare. Il suo protetto Gramsci, che viveva con poco, protetto da Bordiga e altri compagni, e aveva il tempo tutto per sé, gli sottrasse il partito - ruolo e funzione nel partito. Togliatti, che non difenderà Gramsci e anzi ne indebolirà la posizione in prigione, se ne farà poi scudo, relegando Bordiga quasi al ruolo del rinnegato.
Un recupero importante, questo di “Lotta Comunista”, se non altro per la storia. Bordiga muore nel 1970, sei anni dopo Togliatti, anonimo a Formia, rigidamente isolato dall’egemonia culturale del partito togliattiano. Una sola studiosa se ne è occupata, la storica contemporaneista Andreina De Clementi, in una biografia politica che lo vede elaboratore di un “marxismo occidentale”, accanto a Rosa Luxemburg, all’astrofisico olandese Anton Pannekoek dei consigli operai, all’altro olandese teorico del comunismo consiliarista Herman Gorter. Di Bordiga tra l’altro la lettura più ovvia di questo centenario sarebbe stata la sua “Storia della sinistra comunista”, che però non si pubblica.
La ricostruzione ha molte chicche. Recupera Labriola, l’unico marxista del primo socialismo, che dà dei “frati ignorantelli” ai socialisti del primo Congresso, a Genova nel 1992, gli stessi che devano del “ciarlatano” a Marx, che non conoscevano, ed erano e rimarranno coriacemente divisi – Labriola conta sette anime diverse. Chiarisce Mussolini, in poche parole – uno che non era nessuno, e anche meno colto dei “frati ignorantelli” originari, però raddoppiò le vendite dell’“Avanti!”, ne fece il giornale principale, e portò il partito Socialista alla guerra. Mostra, sempre in breve, incisivamente, il disorientamento socialista nella Grande Guerra: la famosa “conferenza di Zimmerwald” a settembre del 1915, quando il conflitto era già una carneficina, promossa dai socialisti italiani e svizzeri, fu una lite fra le diverse correnti, mensceviche, leniniste, riformiste,  kautskiste – un po’ come sarà il comunismo negli anni 1970, “sovietico”, “cinese”, “albanese”, “cubano”, e anche un po’ “rumeno”.
La documentazione allegata mostra graficamente anche le elezioni del 1921 e del 1924, con una straordinaria presenza socialista in Lombardia, del Psi-Pcd’I il 15 maggio 1921, e del Psi-Pcd’I-Psu il 5 aprile 1924. La Lombardia oggi leghista contava per un quarto di tutto l’elettorato socialista prima di Mussolini: ben il 24,4 per cento dei suffragi dei due partiti nel 1921, e il 28,7 per cento nel 1924 – quando però il voto socialista si era dimezzato, da 1.940-150 a 1.05.842.
La parte più nuova ed estesa del volume è “Biografie”, una galleria di cento militanti del partito Comunista d’Italia. Basata su un campione di “6.424 biografie di militanti che aderirono al Pcd’I prima che la stalinizzazione del partito si affermasse in forma irreversibile a seguito del congresso di Lione del gennaio 1926”. Senza sorprese, sono biografie di militanti comuni, ma affascinanti per pertinacia e costanza – per fede. Qualcuno muore di “fuoco amico” – “come Mario Acquaviva, ucciso dagli stalinisti nel luglio 1945 perché nell’alessandrino svolgeva propaganda internazionalista tra i lavoratori”. “Molti”, scrivono i curatori, “sono quelli che cadono in Urss vittime delle purghe staliniane”. Altri sono puniti a vita dal Pci, il partito di Togliatti: “Alcuni hanno in sorte di uscire dall’universo concentrazionario russo solo per subire, tornati in Italia, l’ostracismo del loro stesso partito”.
Gian Giacomo Cavicchioli-Emilio Gianni, PCd’I 1921, Lotta Comunista, pp.299 € 10